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Pubbl. Mar, 19 Nov 2019

Il diritto a conoscere le proprie origini a confronto con il diritto all´oblio della partoriente

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Chiara Savazzi
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia


Come si concilia il diritto a conoscere le proprie origini, biologiche e sociali, del figlio dato in adozione, con il diritto della madre biologica a voler rimanere anonima? La Giurisprudenza, con uno sforzo interpretativo non indifferente, è riuscita - nel corso di diversi anni - a porre in essere un bilanciamento fra i due interessi contrapposti.


Sommario: 1. Identità e famiglia. 2. L'anonimato e l'interpello. 3. L'intervento delle Sezioni Unite

1. Identità e famiglia
Il diritto a conoscere le proprie origini è annoverato tra i diritti fondamentali in una serie di norme, sia interne sia sovranazionali. La Convenzione sui diritti del fanciullo lo disciplina nell’articolo 7 e la Convenzione dell’Aja nell’articolo 30[1]; quest'ultimo statuisce l’obbligo per gli Stati di conservare le informazioni sul minore e favorirne l’accesso. Tale diritto è posto a garanzia del bisogno dell’essere umano di conoscere se stesso, in quanto «homme situé in un complesso di relazioni»[2]. La tutela è rivolta ai soggetti adottati e sempre più spesso ai soggetti nati da tecniche di fecondazione assistita.
Il diritto di famiglia ha avuto negli ultimi decenni dei cambiamenti radicali – in parte ancora in corso – passando da un diritto patricentrico ad uno paidocentrico, mediante l’affermazione della centralità del minore e del suo best interest. Parallelamente sono sorte nuove tipologie di nuclei familiari, si pensi alle famiglie omoparentali, dove vengono meno quelle gerarchie e strutture certe, tipiche del diritto vigente fino al 1975.
Il concetto di identità è essenziale per qualsiasi soggetto, nato in qualsiasi contesto familiare e sociale; citando Capograssi, infatti, «la famiglia è la vera società concreta tra tutte le società umane, dove si riscontra la perfetta trasfusione delle singole individualità[3]». Ne è conseguenza fisiologica che un soggetto, vissuto in una famiglia non biologica, ad un certo punto della sua vita, si domandi quali siano le sue origini, per far fronte ad un bisogno di ricerca di chi lo ha messo al mondo, ma anche a bisogni di tipo più pratico, come quello di conoscere il proprio “corredo genetico”  legato altresì ad eventuali patologie ereditate.                                                                                
L’articolo 28 della legge 183 del 1984[4] – c.d. legge sull’adozione – disciplina l’accesso alle informazioni sulle origini, ammettendo tale possibilità per colui che abbia compiuto i venticinque anni; un soggetto maggiorenne ma con età inferiore ai venticinque anni, può accedervi solo se per comprovati problemi psicofisici; infine al minore è consentito l’accesso se supportato da adeguato sostegno psicologico e a seguito di un’apposita valutazione sull’opportunità da parte del giudice. Tale diritto viene, tuttavia, totalmente annichilito dalla previsione del settimo comma del suddetto articolo, dove è statuita l’impossibilità di accedere a questo tipo di informazioni, se la partoriente al momento del parto abbia dichiarato di voler rimanere anonima. É bene specificare che il d.p.r. 396 del 2000[5] consente alla madre la possibilità di rimanere anonima al momento del parto; a sua volta il d.lgs. 196 del 2003[6], nel suo articolo 93, consente l’accesso alla dichiarazione di nascita e alla cartella clinica, decorsi cento anni dalla formazione delle stesse e prevede la comunicabilità delle informazioni non identificative. É evidente che cento anni sia un lasso di tempo troppo lungo per soddisfare il diritto dell’interessato. Inoltre, non vengono specificate le modalità per l’accesso alle informazioni non identificative né quali siano le c.d. opportune cautele da porre in essere, nel rispetto dell’oblio della madre.                                                                       

2. L'anonimato e l'interpello                  
Com’è stato esposto nella sentenza della Corte Costituzionale 425 del 2005[7], il diritto, altrettanto fondamentale, della madre, a mantenere l’anonimato ha in sé due obiettivi: assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e distogliere la donna da decisioni irreparabili, dunque far sì che sia la salute della madre sia quella del nascituro non corrano rischi dovuti alla preoccupazione della possibilità di poter essere contattata in un “impreciso futuro”, magari dopo molti anni, su richiesta del figlio, ripresentandosi davanti a lei la conferma o meno di una decisione dolorosa presa a suo tempo, ovverosia quella di voler rimanere anonima. Si è data, quindi, più ampia valenza e applicazione al diritto della madre rispetto a quello del soggetto alla ricerca delle proprie origini. Con sentenza 278 del 2013[8], la Corte Costituzionale è nuovamente intervenuta, sulla scia della sentenza della CEDU “Godelli contro Italia” del 2012[9], elaborando una diversa prospettiva su come conciliare i due contrapposti diritti e dichiarando incostituzionale l’articolo 28 della legge sull’adozione, nella parte in cui prevede un tale rigidità che non permetta la revoca della dichiarazione della madre. Posto che la conoscenza dei dati concernenti i genitori biologici e la propria identità rappresenta un interesse vitale per qualsiasi essere umano, ex articolo 8 della Convenzione europea dei diritti del uomo, era necessario far collimare verso un punto di bilanciamento gli opposti interessi.
La scelta della donna va considerata in una prospettiva diacronica, suscettibile quindi di subire mutamento nel corso del tempo. Al contrario, prefigurando una cristallizzazione della scelta, si trasformerebbe il diritto in una sorta di vincolo obbligatorio con efficacia perpetua. Aver rinunciato, infatti, alla “genitorialità giuridica” non vuol dire precludersi anche una “genitorialità naturale” in modo definitivo. Il vulnus è rappresentato, dunque, dalla irreversibilità del segreto, contrastante con gli articoli 2 e 3 della Costituzione e ciò ha ricevuto risoluzione attraverso l’istituto dell’interpello della madre, a seguito di richiesta del figlio dato in adozione. Nel caso in cui la madre sia morta, l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di Cassazione propende per il libero accesso alle informazioni, nonostante non possa esservi il consenso alla rimozione dell’anonimato; indirizzo espresso da ultimo nella sentenza 22838 del 2016 della Suprema Corte[10], non esente da critiche da parte della dottrina che ha evidenziato come ciò potrebbe causare problemi in relazione a situazioni soggettivi dei discendenti e dei familiari della donna. Nel caso in cui la madre sia ancora in vita, il compito del legislatore è quello di introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica dell’attualità della scelta della madre naturale.                   
Tuttavia il legislatore non ha tutt’oggi provveduto e ciò ha causato divergenze di vedute tra i giudici di merito, fra coloro inclini ad interpellare la madre anche in assenza di una compiuta disciplina e coloro che invece hanno escluso tale possibilità.

3. L'intervento delle Sezioni Unite
A seguito del ricorso da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, dalle Sezioni Unite è giunta nel gennaio del 2017, con la sentenza 1946[11], l’opinione prevalsa. Essa si sostanzia nella qualificazione della sentenza del 2013 quale sentenza “additiva di principio”, volta quindi, da un lato, ad orientare il legislatore e a colmare le eventuali lacune e l’inerzia dello stesso, dall’altro, a guidare il giudice nell’individuazione delle soluzioni applicative. Pertanto, il giudice chiamato ad esprimersi, non è esonerato dal trovare modalità di procedere che facciano sì che gli interessi – nel caso specificamente considerato – non siano lasciati privi di tutela giuridica. Negare tout court, al figlio, l’accesso alle informazioni sulle proprie origini, risulterebbe una decisioni errata e obsoleta. In particolare, tre sono i riferimenti normativi indicati dalle Sezioni Unite dai quali poter desumere le modalità del procedimento di interpello: il procedimento in camera di consiglio ex articolo 28 commi 5 e 6 della legge 184 del 1983; la procedura del comma 6 dell’articolo 28 della stessa legge sulle tecniche che evitino il turbamento dell’equilibrio psicofisico del richiedente; le modalità procedimentali previste dall’articolo 93 del codice della privacy. Il diritto del figlio è comunque destinato a soccombere dinanzi al ripetuto diniego della madre.
Un’ulteriore pronuncia molto recente – 6963 del 2018[12] – della Cassazione ha statuito che il diritto a conoscere le proprie origini deve essere esteso anche alla possibilità di accedere alle informazioni riguardanti i propri parenti più stretti, quali ad esempio i fratelli e le sorelle, essendo essi parte necessaria delle proprie radici biologiche e, potenzialmente anche parte di un legame affettivo che potrebbe venire ad esistenza. 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Convenzione dell’Aja, 5 ottobre 1961.

[2] M. G. STANZIONE, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, 2015, p. 7.

[3] G. CAPOGRASSI, Riflessioni sulla autorità e la sua crisi in Opera, 1959, p. 265.

[4] Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, L. 184/1983.

[5] Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127, d.p.r. 396/2000.

[6] Codice in materia di protezione dei dati personali, D.lgs. 196/2003.

[7] Corte Cost., sent. n. 425 del 25 novembre 2005.

[8] Corte Cost., sent. n. 278 del 22 novembre 2013.

[9] C.E.D.U., sent. Godelli c. Italia, 25 settembre 2012.

[10] Cass., sent. n. 22838 del 9 novembre 2016.

[11] SS.UU., sent. n. 1946 del 25 gennaio 2017.

[12] Cass., sent. n. 6963 del 20 marzo 2018.