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Pubbl. Ven, 18 Ott 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Il principio del numerus clausus e la proprietà speciale

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Salvatore Tartaro


Il principio del numerus clausus preclude il ricorso all´autonomia privata per la creazione di diritti reali atipici. Riflessioni sull´utilizzazione della locuzione ”proprietà atipica” per indicare istituti recentemente alla ribalta nel panorama giuridico-economico.


Abstract: La nostra tradizione giuridica conosce la distinzione tra diritti reali e diritti obbligatori. Il prototipo dei diritti reali, connotati per l’assolutezza degli effetti, la pienezza dei poteri e l’inerenza con la cosa, è certamente il diritto di proprietà. La categoria dei diritti reali, per tradizione giuridica, è a “numerus clausus”, nel senso che tali diritti sono espressamente previsti dal legislatore, non essendo, per tanto, consentito il ricorso all’autonomia privata per la creazione di nuove figure. Correlativamente la dottrina tradizionale riteneva che i diritti reali, a differenza di quelli obbligatori, fossero tipici anche negli effetti, non essendo consentito ai privati adottare un regolamento differente da quello codicistico. Apparentemente l’evoluzione economico-sociale, sotto la spinta delle sempre più incessanti esigenze di celerità nella circolazione dei patrimoni, ha messo in crisi il sistema chiuso dei diritti reali tipici, aprendo la strada all’ingerenza dell’autonomia priva se non nella creazione, nel contenuto dei diritti reali. Una dottrina orientata all’interruzione della tradizione giuridica ha utilizzato la locuzione di “proprietà atipica” per riferirsi ad istituti che hanno fatto ingresso, anche su impulso della legislazione sovranazionale, nel nostro ordinamento privatistico. In questo contributo, dopo una breve analisi dell’istituto della proprietà, si cercherà di capire se istituti di derivazione internazionalistica quali la cd. multiproprietà o il trust siano, effettivamente, in grado di mettere in crisi il sistema chiuso dei diritti reali tipici.

Sommario: 1. Introduzione; 2. L'evoluzione storica del concetto di proprietà; 3. Il principio del numerus clausus ed il principio di tipicità; 4. I lineamenti della proprietà teleologicamente orientata: la funzione sociale; 5. Le proprietà speciali; 5.1. Le multiproprietà; 5.2. La proprietà fiduciaria; 5.3. Il trust; 6. Conclusioni.

 

1. Introduzione

La nostra tradizione giuridica conosce la distinzione tra diritti obbligatori e diritti reali laddove tra i primi si annoverano tutti quei diritti il cui soddisfacimento segue e postula l’adempimento, e cioè il compimento di un’azione o l’astensione dal compimento di alcuna da parte del soggetto obbligato, mentre tra i secondi si annoverano tutte quelle situazioni soggettive connotate dall’assolutezza, immediatezza ed inerenza al bene della vita.

I diritti reali sono assoluti nel senso che sono opponibili erga omnes, e non solo nei confronti dell’obbligato.

L’assolutezza di manifesta tramite il riconoscimento al titolare del diritto reale di un potere di esclusione dell’altrui ingerenza illegittima, cd. ius excludenti alios, esercitabile nelle forme della rei vindicatio ex art. 948 cod. civ. e dell’actio negatoria ex art. 949 cod. civ., ai fini petitori, nonché nelle forme delle azioni di manutenzione e reintegrazione, ai fini possessori.

Il requisito dell’immediatezza attiene al rapporto tra la situazione soggettiva e la res che ne forma oggetto e si esprime nell’attitudine del diritto reale ad essere soddisfatto in ragione della disponibilità del bene, senza che occorra, quindi, la mediazione di alcun soggetto terzo, a ciò obbligato.

L’inerenza, invece, attiene all’attitudine del diritto reale di seguire le sorti della cosa e non anche del titolare del diritto di talché la proprietà, esemplificativamente, non si estingue con la morte del proprietario bensì al seguito della distruzione della cosa ovvero della creazione di un nuovo diritto reale, sulla medesima, incompatibile con il precedente, esemplificativamente al seguito della maturazione, in beneficio di terzo, dell’usucapione.

Il requisito dell’inerenza, inoltre, si manifesta nitidamente nei diritti reali di godimento su cosa altrui, specialmente nell’usufrutto e nelle servitù, nelle forme del cd. diritto di sequela in forza del quale il titolare può esercitare il proprio ius in re aliena su tutti i successivi acquirenti del bene.

La giurisprudenza ha proposto i principi di tipicità e del numerus clausus quali assiomi irrinunciabili del sistema dei diritti reali, nonostante il progredire del sistema economico e della struttura sociale abbia fomentato proliferare di situazioni giuridiche, vertenti sulla cosa, non inquadrabili nell’alveo dei diritti reali di fonte codicistica.

Il presente contributo avrà in oggetto, al seguito di una breve disamina dell’istituto tipico della proprietà, l’indagine intorno alle figure di “proprietà atipica”, temporanea e fiduciaria, trasudate dalla prassi e dalla comunitarizzazione dell’ordinamento interno e confluite, anche per mezzo di una ragguardevole operazione ermeneutica pervenuta all’esito di un travagliato iter giurisprudenziale, nell’alveo dei diritti reali tipici.

2. L’evoluzione storica del concetto di proprietà

La riflessione giuridica intorno all’istituto della proprietà non può che procedere in concomitanza con un’analisi di tipo storico che evidenzi le aporie e le difficoltà di un concetto che trova il giusto equilibrio in posizione mediana tra il formalismo ed effettualità.

La proprietà, nell’accezione moderna inglobata nel codice Rocco, costituisce la sintesi di una stratificazione concettuale che affonda le sue radici nell’epoca classica.

Durante il periodo classico la nozione di proprietà, quale situazione composita al cui interno si collocava lo ius fruendi e lo ius utenti et abutendi, era imperniata sul principio della validità del titolo, riconosciuto dall’ordinamento giuridico.

Allo sgretolamento dell’Impero Romano corrisponde lo sgretolamento della concezione formale ed unitaria della proprietà, ed il passaggio ad una concezione effettuale, basata sul principio di effettività.

La concezione antropocentrica ius in re propria quale diritto sulla cosa, nell’esperienza giuridica medievale, viene rimpiazzata da una concezione strettamente oggettiva e fattuale della proprietà quale potere di godimento ed esercizio della cosa, svincolato da qual si voglia formalismo, segnando la disarticolazione dell’archetipo di proprietà ed il riconoscimento di forme alternative del possedere.[1]

In tal senso autorevole dottrina ha eloquentemente ricostruito il passaggio dalla concezione formale e quella effettuale di proprietà quale sostituzione di “una mentalità angolosamente proprietaria come quella romana”, con una “possessoria cui è del tutto differente l’idea di un rapporto di validità e che è invece dominata da un vigoroso principio di effettività[2]

La proprietà, nella tradizione reicentrica, si risolve, quindi, in una situazione effettuale articolata ed identificata nell’esercizio e godimento, da parte di taluno, di una determinata cosa.

Per un recupero del modello unitario di proprietà dovrà aspettarsi il codice napoleonico nel quale trova codificazione un modello di proprietà liberale, individuale, possessiva e di tipo privatistico.[3]

Nonostante tralatiziamente agli studi di Pothier è stato riconosciuto il pregio di aver elaborato quell’archetipo di proprietà quale diritto soggettivo, confluito all’art. 544 code civil, quale “lo droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue, pourvu qu’om n’en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les règlements”, un’archetipo di proprietà ispirata al modello elaborato da Pothier, taluni commentatori non mancato di sottolineare come, in vero, la dottrina francese avesse fin da subito mitigato il modello dominicale di conio legislativo, interpretando la norma testé riportata in modo maggiormente aderente al modello della proprietà divisa.

Nella teoria del diritto francese maturata sull’interpretazione dell’art. 544 code napolèon, il diritto di proprietà viene identificato quale “droit complexe”, ovvero quale situazione soggettiva che, sul piano quantitativo, assorbe tutti gli atri diritti reali, delineando, nella prassi, variegati modelli di proprietà imperfetta.

La nozione di proprietà unitaria ha ispirato il legislatore del 1865 che nel riprodurre, in modo pressoché pedissequo, il contenuto dell’art. 544 code civile d’oltralpe, introduce un modello di proprietà fondato sull’assolutezza e sull’esclusività che incontra l’unico limite nell’esercizio del potere legislativo e regolamentare dello Stato.

Come nell’esperienza dottrinaria francese, anche nel panorama dottrinario nostrano di fine ottocento si assiste ad una progressiva relativizzazione della proprietà, fondata sulla “destoricizzazione” (GRASSI) di derivazione francese, che conduce alla creazione di un fascio di proprietà specifiche che, tuttavia, ne conservano la qualifica formale ed il contenuto minimo.[4]

Agli inizi del ‘900 torna a riaffermarsi nella dottrina nostrana, sotto l’influenza della pandettistica tedesca, un modello unitario di proprietà intesa quale “entità non frazionabile” e “non logicamente incomunicabile con gli altri diritti reali[5]

Muovendo dalla nozione unitaria, la dottrina distingue tra dominium e ius in re aliena, definendo quest’ultimi posizioni giuridiche logicamente distinte dalla proprietà, a contenuto determinato, e destinate ad incidere sul “dominio nella sua vita storica[6]

Sotto l’influenza della pandettistica tedesca la proprietà perde la dimensione strettamente effettuale preesistente alla disciplina, risolvendosi nell’attribuzione del bene della vita come oggetto del suo diritto.

Nella rinnovata nozione formale di proprietà, che richiama l’archetipo concettuale della proprietà perfetta, o pura, si inserisce anche la positivizzazione dei limiti legali ed il passaggio, per suo tramite, dal carattere dell’assolutezza, corollario del principio di inviolabilità che trovava codificazione all’art. 28 dello Statuto Albertino, al carattere della pienezza del potere e della supremazia della volontà del proprietario sulla cosa.

In tal senso la dottrina concepisce il diritto di proprietà quale sintesi di quelle singole facoltà (godere e disporre) che rappresentano manifestazione ed estrinsecazione della pienezza del diritto sulla cosa.

Nell’economia della disciplina, invece, il discrimen solcato dal potere statuario e regolamentare dello stato viene assunto a limite intrinseco ed essenziale nell’archetipo del modello unitario che va ad incidere non sulla struttura, ma sul “modo di essere della proprietà nell’ordinamento”.[7]

La mutevolezza del concetto di proprietà è sintomatica della stretta correlazione tra il contenuto e la funzione assegnata alla stessa ed i rapporti sociali ed economici.

Con l’emanazione del codice “Rocco” la definizione di proprietà perde qualsiasi riferimento all’assolutezza, orientandosi verso la “pienezza” dei poteri del proprietario, formula maggiormente generica che, successivamente, ben si presterà alla riconcettualizzazione di tale diritto in prospettiva teleologicamente orientata.

3. Il principio del numerus clausus ed il principio di tipicità

La dottrina maggioritaria, ad onta della tradizione giuridica, ritiene che, benché non codificato, il principio del numerus clausus permea la materia dei diritti realizzando un limite ulteriore all’autonomia privata, sostanziato del divieto di costituzione di diritti reali di fonte negoziale.

Così concepito, il principio del numerus clausus attiene fondamentalmente alla fonte legale del diritto reale e postula che questi siano oggetto di codificazione.

La ratio del principio del numerus clausus va ricercata, per la dottrina tradizionale, nell’esigenza di tutela del terzo di cui è corollario la certezza dei traffici giuridici, nonché nel rafforzamento della funzione sociale della proprietà tramite la prevenzione di fenomeni di prevaricazione contrattuale che sarebbero agevolati dall’ammissibilità di diritti reali non rispondenti a schemi tipici tali da imporre modalità di godimento del bene inique e comunque svantaggiose.

Corollario del principio del numerus clausus è il principio di tipicità dei diritti reali che si attaglia sul piano degli effetti e si traduce nel divieto di modificazione del contenuto del diritto reale.

Il principio di tipicità, per tanto, inciderebbe sull’ambito di applicabilità dell’art. 1322, co. 1 cod. civ. che risulterebbe applicabile ai soli contratti ad effetti obbligatori, tacciando di nullità virtuale qualsiasi operazione negoziale volta a modificare il contenuto di un diritto reale.

In tale panorama occorre distinguere gli argomenti direttamente attinenti all’inammissibilità di diritti reali di fonte negoziale o dal contenuto non corrispondente allo schema tipizzato, ricavabili dagli artt. 832 e 2643 cod. civ., nonché dall’art. 41 cost., dagli argomenti che fanno leva sui limiti dell’autonomia privata desumibili da ragioni di ordine sistematico, oltre che dalla capacità precettiva soggettivamente limitata che l’art. 1372 cod. civ. attribuisce al contratto quale lex specialis.

Nell’alveo della prima categoria va ricondotto l’argomento fondato su un’interpretazione restrittiva dell’art. 832 cod. civ. alla luce del principio ubi lex dixit, lex voluit.

Di tal guisa è stato affermato che, il legislatore, nel prevedere testualmente, all’art. 832 cod. civ., che il “diritto di disporre in modo pieno ed esclusivo” delle cose oggetto del diritto di proprietà deve essere estrinsecato “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, abbia inteso esplicitare il principio per cui i pesi al diritto di proprietà devono avere fonte legale, essendo attribuito al legislatore il potere di imporre obblighi che limitano l’esercizio delle facoltà connesse alla proprietà e non anche all’autonomia privata.

Ad colorandum viene tradizionalmente riportato l’art. 2643 cod. civ. che, secondo tale impostazione, conterrebbe un elenco tassativo di atti soggetti a trascrizione aventi in oggetto costituzione, modificazione o estinzione di diritti reali e tra i quali non sarebbe annoverato il diritto reale atipico; di talché, in difetto di trascrizione, il diritto sarebbe manchevole sotto il profilo dell’assolutezza.

L’inidoneità del diritto reale atipico a garantire la certezza dei traffici giuridici, per altro, è il fulcro dell’argomento ritenuto maggiormente pregnante in dottrina, attinente alla violazione dell’ordine pubblico economico di cui all’art. 41, co. 1 cost., in quanto condurrebbe ad una progressiva immobilizzazione del mercato in ragione delle maggiori difficoltà che i diritti reali limitati troverebbero nelle vicende circolatorie.

Ad escludere la creazione negoziale di diritti reali atipici deporrebbero anche argomenti attinenti ai limiti intrinsechi dell’autonomia privata.

Sul piano sistematico è stata evidenziata la collocazione dell’art. 1322 cod. civ. nel libro IV del codice dedicato alla disciplina delle obbligazioni e non anche nel libro III per i quali, in difetto di espressa previsione, vigerebbe il principio opposto della tipicità.

L’argomento che, a parere di chi scrive, è decisivo laddove nella misura in cui risulta inopinabile la tesi della tassatività degli atti trascrivibili, è quella della relatività dell’effetto vincolante del contratto che, come è noto, dispiega forza di legge tra le sole parti.

La mera collocazione della norma che individua i limiti dell’autonomia privata all’interno del libro IV, infatti, non appare idonea ad escluderne l’applicabilità a fattispecie disciplinate in altri parti del codice.

Ma v’è più che, a parere di chi scrive, l’art. 1322 cod. civ., contenendo un principio generale, risulta sottratto alla disciplina di cui all’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile e, per tanto, suscettibile di essere applicato analogicamente.

In tal senso è stato sostenuto dalla dottrina minoritaria che ai privati è consentito creare diritti reali atipici nel rispetto della clausola generale della meritevolezza degli interessi tutelati.

A ciò si aggiunga che, per altro, tale impostazione risulterebbe oltremisura conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 832 cod. civ., e cioè al perseguimento della funzione sociale della proprietà.

Estremamente farraginosa risulta, invece, l’operazione ermeneutica contraria alla tesi della relatività delle capacità vincolistiche del contratto, in quanto l’opponibilità ai terzi viene spostata dal piano della pubblicità legale, sul piano delle cd. presupposizioni, e cioè dei motivi comuni alle parti che incidono nella causa in concreto, di modo che il peso gravante sulla proprietà sia opponibile al terzo acquirente in ragione della conoscenza dello stesso nel momento della manifestazione del consenso.

Senonché, così facendo, tale tesi finisce per il confermare l’intangibilità del principio del numerus clausus in quanto postula la fonte negoziale dell’opponibilità del diritto reale atipico al terzo acquirente del bene gravato, escludendone, a monte, la sua assolutezza.

Le tesi riportate a sostegno del principio del numerus clausus, tuttavia, non reggono la prova al banco del principio di tipicità dei diritti reali.

Non v’è dubbio alcuno che il contratto avente in oggetto un diritto reale rientrante nell’alveo del numero chiuso, ma atipico sotto il profilo funzionale, sia trascrivibile e pertanto suscettibile di assolutezza.

Lo dice, testualmente, l’art. 2965 cod. civ. che “deve al pari rendersi pubblico (…) ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni immobili o diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati dall’art. 2643”.

Decisivo, a parere di chi scrive, nell’interpretazione della riportata disposizione è il sintagma “taluno degli effetti dei contratti menzionati dall’art. 2643” in quanto locuzione idonea ad assorbire anche quegli “atti” negoziali che producono, in relazione a immobili o diritti immobiliari, solo alcuno tra gli effetti che la legge riconosce al proprietario, o al titolare di altro diritto reale, escludendo o modificandone altri.

A corroborare quanto fin qui esposto si consideri che, nella recente giurisprudenza di legittimità, il principio di tipicità è stato sottoposto ad una forte demitizzazione che ha condotto alla progressiva ammissione di negozi aventi in oggetto diritti reali tipici dal contenuto atipico, tra i quali la multiproprietà, il trust e la cessione di cubatura, che, dopo una breve analisi della disciplina della proprietà, costituiranno approfondito oggetto di trattazione.

4. I lineamenti della proprietà “costituzionale”: la funzione sociale

Con l’emanazione della Carta Costituzionale il diritto di proprietà trova nuova collocazione sistematica nel Titolo II, Parte I della nostra “Groundnorm” afferente ai rapporti civili, fuoriuscendo dall’alveo dei diritti inviolabili che, come è noto, trovano ristoro tra i cd. principi fondamentali.

Espunto ogni riferimento all’inviolabilità la nozione di proprietà, compendiata all’art. 42 cost., acquisisce connotazioni fortemente storicizzate.

La Repubblica, infatti, riconosce e garantisce la proprietà (privata), nei suoi connotati ontologici essenziali, ma si arroga, altresì, la competenza a disciplinare “i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, nonché di imporre “obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata”.

Come osservato, condivisibilmente, da notoria dottrina la disposizione costituzione produce l’effetto di incanalare i poteri ontologicamente connessi al diritto di proprietà di modo che il loro esercizio sia giustificato da interessi generali, attraverso l’impiego di tre strumenti normativi.[8]

Anzitutto la legge può attribuire al proprietario determinate facoltà. Nell’alveo di tale categoria va annoverato lo ius aedficandi, e cioè il diritto di costruire immobili su proprietà edificabili.

Tale facoltà riconosciuta al proprietario dal codice civile e dalle leggi speciali subisce espansione o contrazioni a seconda del regime urbanistico di edificabilità delineato dalle Amministrazioni competenti sulla scorta della normativa urbanistica vigente.

La normativa urbanistica introdotta con L. 1150/1942 è stata oggetto di numerose modifiche culminate nella riorganizzazione della materia con l’emanazione del T.U. sull’edilizia emanato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

La soggezione dello ius aedificandi al potere regolamentare della pubblica amministrazione si manifesta mediante l’obbligo per il proprietario di avviare un procedimento amministrativo che, previa verifica della sussistenza delle condizioni previste dalla legge ai fini dell’esercizio del diritto di edificare, culmini nell’emissione del cd. permesso di costruire (cfr. Corte Cost., sent. 30 gennaio 1980, n. 5).

Tra gli strumenti normativi frequentemente utilizzati per incanalare l’esercizio di proprietà verso la sua funzione costituzionale, la dottrina identifica quelle norme finalizzate alla regolamentazione di facoltà già riconosciute dall’ordinamento quale, in via esemplificativa, è la disciplina speciale della locazione ad uso abitativo, nonché quelle norme finalizzate ad introdurre l’obbligo di esercitare determinate facoltà quali, esemplificativamente, quelli introdotti dalla L. 4 agosto1978, n.440) in tema di utilizzazione di terre incolte o abbandonate.

Risultano, per tanto, conservate le determinazioni ontologiche del diritto di proprietà risultato di una stratificazione storica del modo di intendere la relazione di potere tra l’uomo e la cosa.

Il diritto di proprietà, nella funzione costituzionalmente orientata, conserva, pertanto il carattere di pienezza, e cioè lo ius utendi et abutendi; esclusività, e cioè lo ius escludenti alios; elasticità, e cioè l’attitudine a liberarsi autonomamente da oneri e pesi; indipendenza ed autonomia, e cioè l’attitudine a sussistere direttamente nella relazione tra il proprietario e la cosa; nonché l’imprescrittibilità, connessa alla perpetuità, contrassegna l’attitudine del diritto di proprietà a non estinguersi in ragione del non uso, nonché la legittimazione del proprietario all’esercizio delle facoltà attribuitegli, senza limiti temporali, sicché tali facoltà non siano traslate in beneficio di altro soggetto in ragione del verificarsi di un fatto acquisitivo. [9]

5. Le proprietà speciali

Frequentemente in letteratura suole riferirsi ad istituti quali la multiproprietà o la proprietà fiduciaria con la locuzione di “proprietà atipica”.

Tale locuzione, tuttavia, appare utilizzata impropriamente, essendo tecnicamente più corretto, richiamando l’art. 12 delle Preleggi, discutere di proprietà speciale.

5.1. Le multiproprietà

La locuzione multiproprietà non indica un istituto unitario, bensì un insieme di istituti accumunati dalla presenta di un elemento caratterizzante estraneo al profilo tradizionale del diritto di proprietà: il tempo.

La natura giuridica del diritto del multiproprietario è stata oggetto di attenzioni da parte della giurisprudenza di legittimità anche ai fini della verifica circa l’ammissibilità e compatibilità con il principio generale del numerus clausus.

Deve darsi atto del fatto che in letteratura si sono sviluppate due tesi prevalenti circa la natura della cd. multiproprietà immobiliare.

Anzitutto la tesi del diritto reale atipico che richiama, e va necessariamente riportata, a quell’orientamento dottrinario che ne riteneva ammissibile la creazione in via negoziale conformemente a quanto ammesso in materia contrattuale, e cioè con l’unico limite della meritevolezza dell’interesse perseguito.

Si è parlato, a tal uopo, di proprietà temporanea (rectius: ciclica), per riferirsi a quella una situazione di diritto soggettivo in cui i poteri che tradizionalmente sono attribuiti al titolare del diritto reale par excellance, disporre e godere, con pienezza, della res, subiscono una limitazione temporale tale per cui il titolare potrà esercitarli limitatamente nel lasso di tempo entro cui sono – contrattualmente – perimetrati.

Una seconda tesi riconduce la multiproprietà immobiliare alla comunione ordinaria cd. ternaria, e cioè caratterizzata per la deroga contrattuale all’art. 1102 cod. civ., il quale prevede, invece, il godimento contestuale della res da parte dei comunisti.

L’argomentazione contraria che richiama l’art. 1111, co. 1 cod. civ. viene superata, in modo non esente da critiche, dai fautori della predetta tesi per mezzo del richiamo, all’art. 1112 cod. civ..

La multiproprietà immobiliare sarebbe una comunione ordinaria indivisibile ai sensi dell’art. 1112 cod. civ., in quanto l’elemento temporale, e cioè la ternarietà dell’esercizio delle facoltà del titolare del diritto, postulerebbe che, in caso di divisione, la res non sarebbe più idonea alla destinazione d’uso.

La tesi esposta convince in punto di risultato, ma non in ordine all’iter argomentativo.

Non appare opinabile, in vero, che la regola della divisibilità della comunione ordinaria, e più precisamente la facoltà di ciascun comproprietario di chiedere la divisione, incontri il limite intrinseco nella divisibilità del bene oggetto della comunione da valutare secondo il parametro della servibilità alla destinazione d’uso.

L’art. 1112 cod. civ., tuttavia, si riferisce alle caratteristiche strutturali del bene oggetto di comunione ordinaria ed è ostativo alla divisione giudiziale della comunione solo laddove sussistano impedimenti fisici o vincoli di legge (ex multis cfr. Cass. Civ., sent. 29 marzo 2006, n. 7274), tant’è che la giurisprudenza ammette la divisione della comunione che ha in oggetto un bene fisicamente indivisibile in quanto, escluso il frazionamento, deve comunque garantirsi, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 1111, co. 1 cit., che alla divisione della comunione si possa addivenire con modalità diverse prescritte dalla legge.[10]

Decisivi, risultano, nell’economia del percorso argomentativo intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità che ha ricondotto l’elemento temporale del godimento ternario sul piano della strutturazione delle quote concepite quale “misura concreta ed effettiva della partecipazione di ciascun comproprietario” al godimento del bene in comunione (ex pluribus cfr. Cass. Civ., sent. 16 marzo 2010, n. 6352), i correttivi vincoli contrattuali perpetui di “uso ternario tra i vari acquirenti in periodi predeterminati e ciclici [e] di immodificabilità della destinazione e di indivisibilità della cosa” comunione (ex pluribus cfr. Cass. Civ., sent. cit.) la cui ammissibilità è garantita dalla disposizione di apertura del Titolo VII del libro III del codice civile la quale stabilisce che alla “proprietà o altro diritto reale” si applicano le disposizioni che seguono “se la legge o il titolo non dispone diversamente”.

Tale asserzione, postula, quindi la derogabilità, in via negoziale, della regola di cui all’art. 1111, co. 1 cod. civ., da cui dedurre l’ammissibilità di un’indivisibilità convenzionale svincolata dalle caratteristiche strutturali della res e connessa indissolubilmente con la causa concreta del titolo che ne è fonte.

Non quindi l’art. 1112 cod. civ., bensì l’art. 1100 risulta decisivo per dirimere la questione della natura giuridica dell’esaminando istituto, senza violare i principi di tipicità e del numerus clausus che la giurisprudenza ritiene “vigente” ed ostativo all’ammissibilità dei diritti reali atipici (ex multis cfr. Cass. Civ., sent. 16 marzo 2010, n. 6352).

La “multiproprietà immobiliare” deve essere qualificata quale genus di comunione ordinaria, caratterizzata da una modifica convenzionale dello statuto codicistico ammissibile ai sensi dell’art. 1100 cod. civ. mediante l’introduzione dei vincoli di destinazione, di godimento ternario e di indivisibilità che, per tanto, non vanno concepiti quali requisiti strutturali di un diritto reale atipico, bensì quali accidentalia negotii, e cioè clausole ricorrenti nella prassi e riconosciute, dalla giurisprudenza, quali indefettibili nell’economia della causa concreta dei contratti di multiproprietà.

Una diversa natura deve riconoscersi ad altre tipologie di multiproprietà che hanno trovato accoglimento nel nostro ordinamento.

Anzitutto la cd. multiproprietà azionaria, nella quale la titolarità dell’immobile è in capo ad una società per azioni, mentre il diritto di godimento per un determinato lasso di tempo è attribuito ai soci in virtù di quote azionarie privilegiate.

L’ammissibilità di tale fattispecie nel nostro ordinamento è stata limitata alla cd. multiproprietà azionaria impura essendo necessario, in ossequio all’art. 2248 cod. civ., che la società proprietaria eserciti attività lucrativa.

Non è, per tanto, ammissibile, la cd. multiproprietà azionaria pura e, conseguenzialmente il contratto costitutivo sarebbe tacciato di nullità virtuale, non essendo consentito, nel nostro ordinamento, creare società che abbiano come solo scopo il godimento del patrimonio sociale da parte dei soci.

Altro rilievo critico concerne l’ammissibilità dell’utilizzazione personale dei beni sociali in ragione del divieto di cui all’art. 2256 cod. civ.

La questione sarebbe dirimente se non fosse stata aggirata nella prassi negoziale, mediante la creazione di figure negoziali complesse che hanno trovato avvallo nella giurisprudenza di legittimità.

A tal uopo è bene precisare che nella prassi la cd. multiproprietà azionaria non trova fonte direttamente nello statuto sociale, ma in atti negoziali separati ed autonomi, stipulati tra la società ed i singoli soci, aventi in oggetto il trasferimento del diritto di godimento di un determinato bene immobile per un certo periodo di tempo a corrispettivo pagamento di un canone periodico.

Nella multiproprietà azionaria, quindi, non si il trasferimento, a favore del socio, della proprietà o la costituzione di diritti reali sull'immobile, in quanto la proprietà è conservata dalla società nella sua interezza mentre si assiste alla costituzione, in persona del socio azionista, di un diritto al godimento dell'immobile e dei servizi comuni per una determinata frazione temporale.

Gli effetti della multiproprietà azionaria – definita dalla giurisprudenza, giustappunto, “fattispecie complessa” - vengono realizzati tramite due atti negoziali autonomi e collegati.

Il primo negozio è fonte del rapporto giuridico intercorrente tra la società e l’azionista che, in virtù dell’acquisto delle azioni diviene titolare delle situazioni giuridiche proprie di tale stato.

Con un secondo negozio, invece, la società trasferisce all’azionista il godimento di una determinata unità immobiliare per un determinato periodo di tempo.

Affinché sia possibile rinvenire dietro la complessità degli effetti di negozi collegati la fattispecie della multiproprietà azionaria occorre valutare la sussistenza di alcuni elementi.

Anzitutto, sotto il profilo temporale, v’è, in genere, coincidenza tra l’acquisto delle azioni ed il perfezionamento del negozio avente in oggetto la costituzione del diritto di godimento.

La coincidenza soggettiva tra l’acquirente delle azioni e l’acquirente del diritto di godimento, nella contestualità della formazione dei due titoli, deve risultare avvalorata da una plusvalenza del prezzo pagato dall’acquirente delle azioni rispetto al valore nominale dei titoli, da imputare al corrispettivo dovuto per il trasferimento del diritto di godimento.

Ulteriori punti di raccordo che sottintendono il collegamento negoziale vano individuati nella coincidenza della durata del diritto di godimento con la durata del contratto sociale e nell’attribuzione al consiglio di amministrazione della società del potere di determinare il canone periodico nonché il regolamento la cui osservanza è imposta ai soci che acquisiscono ciclicamente il diritto di godimento, di modo che non sia violato il divieto di cui all’art. 2256 cod. civ..[11]

Una fattispecie di multiproprietà è disciplinata anche dal codice del consumo, e precisamente agli artt. 69 ss..

Nella disciplina consumeristica il contratto di multiproprietà ha in oggetto il trasferimento del diritto di godimento di una o più unità immobiliare entro un determinato lasso temporale.

E’ da escludere aprioristicamente che tale fattispecie sia assimilabile alla cd. multiproprietà immobiliare in quanto il legislatore ha individuato un termine minimo di durata del contratto con la conseguenza che, come per la multiproprietà azionaria, tale fattispecie non realizza effetti traslativi del diritto di proprietà dell’immobile che, pertanto, rimane in capo al titolare originario, e cioè di titolarità della società per azioni o della struttura alberghiera.[12]

5.2. La proprietà fiduciaria

Il legislatore del Codice Civile ha codificato il fenomeno dei negozi di destinazione tramite i quali il proprietario di determinati beni può imprimervi un vincolo di destinazione, rendendoli insensibili alle vicende giuridiche dello stesso.

Mediante gli atti di destinazione aventi viene costituito un patrimonio separato e destinato i cui beni, sottratti alla garanzia generale, sono aggredibili sollo laddove la fonte del credito sia riconducibile allo scopo perseguito dal patrimonio destinato.

La destinazione del patrimonio viene realizzata mediante un negozio giuridico costitutivo di un diritto reale in cui potere di godimento è compresso da un vincolo di destinazione, al quale suole riferirsi con il termine fiducia, o proprietà fiduciaria.

Il negozio fiduciario realizza un’interposizione reale di persona in quanto il fiduciario assume, contestualmente al trasferimento della proprietà fiduciaria, l’obbligo di ritrasferirla al beneficiante allo spirare del termine finale.

Il nostro codice civile prevede alcune forme tipiche di negozio fiduciario e di proprietà fiduciaria, tra cui il fondo patrimoniale di cui agli artt. 167 ss cod. civ.; l’eredità giacente di cui all’art. 528 cod. civ. e la cd. fiducia testamentaria di cui all’art. 627 cod. civ..

5.3. Il trust

Un’ipotesi peculiare di proprietà fiduciaria che trova ristoro esclusivamente nella legislazione internazionale è quella costituita mediante il cd. trust.

Il trust è un contratto di matrice anglosassone tramite il quale un soggetto (cd. settlor) trasferisce ad un terzo (cd. trustee) la proprietà di uno o più beni, con l’obbligo di amministrarli nell’ottica del raggiungimento di un determinato scopo, ovvero in beneficio di taluno (cd. beneficiary) in capo al quale possono essere ritrasferiti contestualmente alla cessazione del contratto.

Qualora il vincolo di destinazione d’uso concerna il raggiungimento di un determinato obbiettivo si tratterà di un cd. trust di scopo; viceversa, in presenza di soggetto beneficiario, si tratterà di un trust con beneficiario.

In ambedue le circostanze il trust costituisce un’ipotesi di fiducia romanistica che prevede il trasferimento della proprietà dei beni in capo al trustee.

Dalla costituzione del vincolo fiduciario consegue il fenomeno della separazione patrimoniale, qualora settlor e trustee coincidono nella stessa persona, o della segregazione patrimoniale qualora siano soggetti diversi.

In ambedue i casi l’effetto è quello della sottrazione del patrimonio fiduciario alla garanzia generale dei creditori in quanto la proprietà fiduciaria è aggredibile solo in ragioni di crediti nati per soddisfare bisogni attinenti allo scopo ovvero al beneficiario del patrimonio vincolato e, in caso di fallimento del trustee, è escluso dalla massa attiva.

Il trust viene disciplinato compiutamente dalla Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata con L. 16 ottobre 1989, n. 364.

La normativa tratteggiata con la convenzione dell’Aja conferma la vocazione internazionalistica dell’istituto al quale risulta applicabile la legge “scelta dal costituente” (art. 6, L. 364/1989) ovvero, in alternativa, la legge dello Stato con il quele “il trust ha pèiù stretti legami” (art. 7, L. 364/1989 cit.).

Tale legame deve essere valutato tenendo in considerazione i cd. “elementi importanti” del trust i quali devono essere valutati, ai sensi dell’art. 13, nell’individuazione della legge applicabile qualora non sia preventivamente individuata nell’atto costitutivo.

Ai fini dell’individuazione della legge applicabile si considera rilevante la residenza o il domicilio del trustee; il luogo ove è esercitata l’amministrazione del trust; il luogo ove si trovano i beni facenti parti del patrimonio destinato, nonché il luogo ove devono essere realizzati gli obbiettivi al cui soddisfacimento è stato destinato il patrimonio fiduciario.

L’art. 13 della Convenzione dell’Aja stabilisce, in materia di riconoscimento del trust, che nessuno Stato è obbligato a riconoscere un trust il cui patrimonio si trova, ovvero i cui obbiettivi devono essere realizzati, in uno Stato la cui disciplina privatistica non conosce l’istituto del trust.

Questione al centro di un fervente dibattito dottrinale che ha generato orientamenti giurisprudenziali contrastanti è quella dell’ammissibilità del cd. trust interno, i cui elementi siano localizzati all’interno del territorio nazionale.

La tesi contraria all’ammissibilità del trust interno, muovendo dal presupposto che la convenzione dell’Aja disciplinasse il cd. trust esterno, dotato di elementi di transnazionalità, individuava, quali elementi ostativi, la garanzia generale in favore dei creditori, la violazione del principio di tipicità dei diritti reali, la non trascrivibilità del trust in ragione del principio di tipicità degli atti soggetti a trascrizione.

In tal senso è stato affermato che “il trust, i cui elementi significativi, indipendentemente dalla volontà del disponente, sono tutti localizzati in uno stato che non conosce il trust, non può trovare riconoscimento in Italia, dovendo ritenersi che la convenzione dell’Aja (…) non assume carattere di convenzione di diritto sostanziale uniforme e non essendo (…) compatibile con il principi del nostro ordinamento” (cfr. Tribunale di Belluno, sent. 25 ottobre 2002).

La giurisprudenza prevalente è, in vero, di segno opposto. Muovendo dal rilievo che la L. 364/1989, nel ratificare la Convenzione dell’Aja, ha importato la disciplina omogena del trust nel nostro ordinamento, è possibile superare i rilievi critici ex adverso sollevati.

La codificazione dell’istituto tramite la ratifica della Convenzione, infatti, fa venir meno la lesione del principio di tipicità dei diritti reali, esclude che l’Italia possa considerarsi, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 cit., “stato che non conosce il trust”.

A ciò si aggiunga che la ratifica della Convenzione implica che il legislatore abbia espresso, in via generale, un giudizio di meritevolezza dell’interesse perseguito dall’istituto di talché anche la deroga all’art. 2740 cod. civ. appare giustificata.

Per altro, è bene ricordarlo, il trust è comunque soggetto all’azione revocatoria ordinaria, per mezzo della quale i creditori del settlor possono recuperare la garanzia patrimoniale tramite la dichiarazione di inefficacia relativa dell’atto di disposizione.

In ordine alla trascrivibilità si segnalano tre differenti tesi. Secondo parte della lettura il trust sarebbe trascrivibile nel “quadro D” della nota di trascrizione.

Una seconda tesi ritiene che il trust sia autonomamente trascrivibile in virtù dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja, ratificata con L. 364/1989.

In via mediana appare centrato anche il ricorso all’art. 2645 cod. civ. in virtù del quale sono trascrivibili tutti gli atti che producono “taluno” degli effetti prodotti dai contratti trascrivibili ai sensi dell’art. 2643 cod. civ.

A parere di chi scrive l’assunto per cui la L. 364/1989 ha introdotto nell’ordinamento anche il cd. trust interno non è esente da rilievi critici.

Decisivo, in tal senso, appare l’art. 8 ella Convenzione dell’Aja il quale stabilisce che la legge applicata al trust deve regolarne la validità, l’interpretazione, gli effetti nonché l’amministrazione.

In particolare, affinché possa affermarsi che trattasi di ordinamento che conosce l’istituto del trust, sarebbe necessario rinvenire una normativa che disciplini in modo compiuto la nomina, le dimissioni e la revoca del trustee nonché la capacità particolare di esercitare le mansioni di trustee e la trasmissione delle funzioni; i diritti e gli obblighi dei trustees tra di loro; il diritto del trustee di delegare, in tutto o in parte, l'esecuzione dei suoi obblighi o l'esercizio dei suoi poteri; i poteri del trustee di amministrare o disporre dei beni del trust, di darli in garanzia e di acquisire nuovi beni; i poteri del trustee di effettuare investimenti; le restrizioni relative alla durata del trust ed ai poteri di accantonare gli introiti del trust; i rapporti tra il trustee ed i beneficiari, ivi compresa la responsabilità personale del trustee verso i beneficiari; la modifica o la cessazione del trust; la ripartizione dei beni del trust; l'obbligo del trustee di render conto della sua gestione.

La L. 364/1989 non disciplina compiutamente tali aspetti dell’istituto e non è rinvenibile altra disciplina che abbia in oggetto i predetti elementi con la conseguenza che, allo stato, la loro determinazione è rimessa all’arbitrio dell’autonomia privata.[13]

6. Conclusioni

All’esito della trattazione emerge la tenuta del principio del numeru clausus da cui consegue l’inammissibilità dei cd. diritti reali atipici e, correlativamente, la  mitigazione, a tratti ingiustificabile, del principio di tipicità degli effetti, sacrificato sull’altare delle esigenze di celerità nella circolazione dei patrimoni.

La stessa locuzione “proprietà atipica”, soventemente utilizzata per contrassegnare istituti quali la multiproprietà o la proprietà fiduciaria, appare utilizzata impropriamente, essendo più corretto discutere di proprietà speciale, e cioè genus di proprietà a cui si applica una disciplina peculiare derogatoria di quella codicistica, che rimane of course applicabile, laddove compatibile, in via residuale.

Da un lato la multiproprietà immobiliare appare perfettamente inquadrabile nell’alveo della comunione ordinaria da cui diverge sotto il profilo funzionale e dinamico, e cioè sotto il profilo dei rapporti tra comunisti, mediante la deroga convenzionale di disposizioni codicistiche.

Dall’altro istituti quali la multiproprietà consumeristica o la multiproprietà azionaria, non implicando il trasferimento del diritto di proprietà ma la costituzione di diritti di godimento su cose altrui, sono erroneamente e forzosamente riportati nella discussione in esame dai fautori della tesi dell’ammissibilità dei diritti reali atipici.

Quanto alla proprietà fiduciaria, a parere di chi scrive, trattasi tecnicamente di un’ipotesi di proprietà speciale, al pari della comunione o del condominio ed, al pari di tali istituti, può connotarsi per profili di atipicità funzionale che rilevano sul piano dei rapporti interni tra fiduciante, fiduciario e beneficiario.

Occorrerebbe, invece, nel silenzio del legislatore, operare un ripensamento in ordine all’ammissibilità del cd. trust interno con riferimento al quale lo scrivente mantiene ferme le riserve espresse nel paragrafo precedente.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. Grossi, “Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative alla proprietà nella coscienza post-unitaria”, Milano, 1987.

[2] Cfr. Grossi, “La proprietà e le proprietà nell’officine dello storico”, in “Il dominio e le cose: percezioni medievali e moderne dei diritti reali”, Milano, 1992.

[3] Cfr. Salvi, “Il contenuto del diritto di proprietà” in Comm. Schlesinger, Milano, 1994.

[4] Si veda esempl. v. P. Baldassarre, Delle servitù personali secondo il codice civile italiano, secondo i quali la proprietà “non è un diritto semplice, ma un complesso di diritti, i quali, dove si trovino riuniti nella stessa persona, costituiscono la proprietà piena, la proprietà assoluta”; ovvero v. Bolaffio, Nozioni elementari di diritto civile patrio, Verona-Padova, 1982 secondo cui la proprietà è un diritto “integro che può essere frazionato, smembrato, nel senso che i due fattori che lo costituiscono, il godimento e la disponibilità, non siano concentrati nella persona medesima”.

[5] Cfr. Grossi, “Il dominio e le cose: percezioni medievali e moderne dei diritti reali”, Milano, 1992.

[6] Cfr. Grossi, op. ult. cit.

[7] Cfr. Salvi, “Il contenuto del diritto di proprietà” in Comm. Schlesinger, Milano, 1994.

[8] Sull’argomento cfr. G.B. Ferri, “La formula funzione sociale, dalle idee del positivismo giuridico alle scelte del legislatore del 1942”, in Rivista di diritto privato, 2003, p. 681; cfr. S. Rodotà, “Il sistema costituzionale della proprietà”, in “Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata”, Il Mulino, Bologna, 1990; cfr. A. Gambaro, “Il diritto di proprietà”, Giuffré, Milano, 1995.

[9] Sull’argomento cfr. A. Jannarelli, F. Macario, “Commentario del Codice Civile, diretto da Enrico Gabrielli”, “Della Proprietà”, Utet Giuridica, Milano, 2012, pp. 291 – 386; cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, “Manuale di Diritto Civile diretto da G. Alpa e R. Garofoli”, Nel Diritto Editore, X Edizione, Molfetta, 2018, pp.595 -654.

[10] In questo senso è stato affermato che “la indivisibilità di un bene non impedisce che si compia la divisione, sebbene questa, non essendo possibile il frazionamento del bene, debba avvenire con le diverse modalità prescritte dalla legge, tra cui l'assegnazione, nel rispetto del principio comunemente accettato del favor divisionis che, da un lato, non impedisce che si compia la divisione in qualunque tempo (artt. 713 e 1111 c.c.) e, dall'altro, non presuppone inderogabilmente la tutela del diritto dei singoli partecipanti alla comunione a ricevere, con riferimento all'oggetto, una porzione in natura, venendo ciascun condividente tutelato, in caso di 4 Corte di Cassazione - copia non ufficiale indivisibilità del bene, con mezzi indiretti quali il pagamento di conguaglio o la vendita. È, dunque, comunemente accettato in giurisprudenza che l'attribuzione del bene indivisibile ad uno o più condividenti costituisce pur sempre una modalità attuativa della divisione. È, altresì, pacifico che la richiesta di assegnazione non è una domanda ma una eccezione (Cass. n. 1754 del 2007 cit.; ex aliis, Cass. n. 319 del 1999; Cass. n. 763 del 1988; Cass. n. 6195 del 1987). Vere, dunque, essendo le premesse di cui sopra, risulta chiaro che la "domanda" di attribuzione - che, in aderenza alla lettera dell'art. 720 u.p. c.c., meglio sarebbe definire "richiesta" - può essere fatta solo con riferimento ad un bene sancito come indivisibile, non potendosi, ovviamente, porre il problema dell'assegnazione di un bene comodamente divisibile, in tal caso avendo vigore il favor divisionis ne consegue che non può esserci giudicato sulla (disposizione) di assegnazione ovvero di vendita” (cfr. Cass. Civ., ord. 6 febbraio 2019, n. 3497).

[11] Conformemente la Cassazione ha affermato che “il diritto personale di godimento deriva non dallo status di socio, ma dall'autonoma e separava convenzione da quest'ultimo conclusa con la società, il divieto sancito dall'art. 2256 cod. civ., è inapplicabile perché esso si riferisce alla diversa ipotesi dell'uso che il socio, in base al suo status, faccia delle cose del patrimonio sociale ("Il socio non può servirsi, senza il consenso degli altri soci, delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società"). Come esattamente si è, poi, rilevato col controricorso le azioni acquistate dal convenuto esprimono soltanto la misura della sua partecipazione al capitale sociale e, perciò, non incorporano il diritto personale di godimento sull'unità abitativa, diritto da lui acquistato con l'autonoma convenzione conclusa con la società. 2. - Sussiste lo scopo di lucro che le società devono perseguire conformemente al disposto dell'art. 2247 cod. civ., perché tra i fini della convenuta, previsti dal suo statuto, oltre la concessione del godimento delle singole unità abitative, vi è quello della gestione alberghi e di impianti turistici e sportivi per la produzione di utili da ripartire tra i soci (art. 2. "La società ha per oggetto l'acquisizione e la gestione ... di servizi e impianti turistici e sportivi"). Si ha cioè la figura giuridica definita in dottrina multiproprietà azionaria impura nella quale, come si è visto, alla creazione dei diritti di godimento in capo ai soci residua alla società un patrimonio destinato alla produzione di utili da ripartire tra i soci, in contrapposizione all'altra detta pura (non ricorrente nella specie) in cui lo scopo di lucro è assente e sulla quale, pertanto, si appuntano le maggiori perplessità circa la sua configurabilità”, Cass. Civ., sent. 10 maggio 1997, n. 4088.

[12] cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, “Manuale di Diritto Civile diretto da G. Alpa e R. Garofoli”, Nel Diritto Editore, X Edizione, Molfetta, 2018, pp. 705 – 708.

[13] cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, “Manuale di Diritto Civile diretto da G. Alpa e R. Garofoli”, Nel Diritto Editore, X Edizione, Molfetta, 2018, pp.713 – 723.

- G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, “Manuale di Diritto Civile diretto da G. Alpa e R. Garofoli”, Nel Diritto Editore, X Edizione, Molfetta, 2018;

- A. Jannarelli, F. Macario, “Commentario del Codice Civile, diretto da Enrico Gabrielli”, “Della Proprietà”, Utet Giuridica, Milano, 2012;

- G.B. Ferri, “La formula funzione sociale, dalle idee del positivismo giuridico alle scelte del legislatore del 1942”, in Rivista di diritto privato, 2003; 

- S. Rodotà, “Il sistema costituzionale della proprietà”, in “Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata”, Il Mulino, Bologna, 1990;

- A. Gambaro, “Il diritto di proprietà”, Giuffré, Milano, 1995;

- P. Grossi, “Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative alla proprietà nella coscienza post-unitaria”, Milano, 1987;

- P. Grossi, “La proprietà e le proprietà nell’officine dello storico”, in “Il dominio e le cose: percezioni medievali e moderne dei diritti reali”, Milano, 1992.

- C. Salvi, “Il contenuto del diritto di proprietà” in Comm. Schlesinger, Milano, 1994;

- P. Grossi, “Il dominio e le cose: percezioni medievali e moderne dei diritti reali”, Milano, 1992;

- [1] P. Baldassarre, Delle servitù personali secondo il codice civile italiano, Firenze, 1887.

- L. Bolaffio, Nozioni elementari di diritto civile patrio, Verona-Padova, 1982;

Epigrafe Giurisprudenziale

- Cassazione Civile, sentenza del 10 maggio 1997, n. 4088;

- Cassazione Civile, ordinanza del 6 febbraio 2019, n. 3497;

- Tribunale di Belluno, sentenza del 25 ottobre 2002.