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Pubbl. Mer, 21 Ago 2019

La nuova disciplina sul leasing e il problema dello ius superveniens

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Giovanni Maria Sacchi
Magistrato OrdinarioUniversità degli Studi di Napoli Federico II


Il tribunale di Milano, con la Sentenza 2807/2019, si ritrova ad affrontare la riforma della disciplina giuridica in materia di leasing finanziario, avvenuta con la L. 124 del 2017, quest´ultima intervenuta nelle more di una causa già in corso dove era stata invocata la applicazione dell´art. 1526 c.c., in linea con la pregressa giurisprudenza.


Sommario: 1. Il fatto; 2. L’art. 1526c.c. alla luce della causa in concreto: fu vera applicazione analogica?; 3. La normativa intervenuta con la L. 124/2017; 4. La questione dello ius superveniens; 5. Conclusioni: più ombre che luci nella soluzione adottata per il caso specifico.

1. Il fatto

Una società di Leasing si impegnava ad acquistare una imbarcazione presso una società fornitrice, per poi concederla in godimento ad un’altra società utilizzatrice, stabilendo un pagamento rateizzato del prezzo senza previsione della maxi-rata finale, quest’ultima tipica delle opzioni di acquisto. I canoni pattuiti, pertanto, venivano parametrati al valore complessivo dell’imbarcazione, secondo le tariffe correnti, quali quote parti del prezzo. La società, di contro, garantiva il pagamento delle rate mediante la fideiussione del suo amministratore delegato, il quale avrebbe garantito il saldo fino all’ultima rata. Nel contratto veniva pattuita una clausola penale in virtù della quale, a fronte dell’inadempimento della utilizzatrice, la società concedente avrebbe potuto: a) trattenere i canoni riscossi; b) chiedere la parte restante dei canoni a titolo di penale; c) chiedere la restituzione del natante.

In particolare, dalle motivazioni della Sentenza in commento si evince che la clausola in questione così disponesse: “nell’ipotesi in cui la risoluzione del Contratto si verifichi successivamente alla consegna del Natante, l’Utilizzatore sarà tenuto all’immediata restituzione del Natante alla Concedente, nelle medesime condizioni in cui si trovava all’atto della consegna, fatto saldo il deterioramento derivante da un uso diligente, nel luogo e secondo le modalità dettate dalla Concedente stessa. Quanto eventualmente versato dall’Utilizzatore prima della decorrenza del leasing finanziario come pure i Canoni di leasing pagati relativi a periodi già decorsi al momento della risoluzione saranno legittimamente trattenuti dalla Concedente; inoltre, a titolo di penale a norma dell’art. 1382 cod. civ., l’Utilizzatore dovrà versare alla Concedente l’equivalente della totalità dei Canoni di leasing ancora dovuti, salvo maggior danno. L’Utilizzatore riconosce che, data la natura strettamente finanziaria del Contratto e dell’attività della Concedente, l’avversarsi di uno degli eventi su previsti a cui consegua la risoluzione per inadempimento o per applicazione della condizione risolutiva produrrebbe un danno ingente alla Concedente, da valutarsi tenendo conto delle considerazioni su espresse; pertanto l’Utilizzatore rinuncia a qualsiasi diritto, azione ed eccezione in tema di riduzione della penale”. 

La società utilizzatrice, dopo aver adempiuto buona parte dei pagamenti, si rendeva morosa per diversi canoni. In virtù del fatto che il natante veniva trovato nel possesso effettivo del fideiussore, la concedente decideva di querelare quest’ultimo per appropriazione indebita, attivando una procedura penale che avrebbe comportato il sequestro probatorio dell’imbarcazione.

Nelle more del procedimento penale, successivamente al sequestro, la società concedente, tramite una diffida ad adempiere, risolveva di diritto il contratto di leasing e attivava un procedimento monitorio presso il Tribunale di Milano, chiedendo al fideiussore il pagamento dei canoni ancora dovuti fino all’ultima rata del prezzo e trattenendo quelli già versati. Il procedimento penale nel frattempo veniva archiviato ed il natante veniva restituito alla concedente.

La società debitrice, non essendo più in possesso del bene mobile registrato, spiegava opposizione a decreto ingiuntivo invocando, fra le varie eccezioni, la nullità della clausola penale e, alla luce della causa in concreto del contratto posto in essere, l’applicazione dell’art. 1526c.c. Quest'ultima norma, se applicata, avrebbe dovuto comportare in capo alla concedente l’obbligo di restituire i canoni già riscossi, detratto un equo compenso commisurato all’avvenuto godimento del natante.

L’opponente portava avanti la sua tesi forte di una giurisprudenza consolidata della Cassazione, ma anche alla luce del fatto non trascurabile che la società opposta, nelle more del giudizio, aveva riottenuto coattivamente il possesso del bene e lo aveva venduto a terzi sulla base di una stima del valore dell’imbarcazione, quest'ultima postuma ed unilateralmente predisposta. In via gradata, l’opponente chiedeva la riduzione della clausola penale per manifesta iniquità, ed in via riconvenzionale chiedeva il risarcimento del danno derivante dal fatto che svariati beni personali del fideiussore presenti sulla barca erano andati dispersi.

In prima udienza, il giudice negava la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo in virtù della applicazione dell’art. 1526 c.c. invocata dalla debitrice opponente, lasciando transitare il giudizio alla fase istruttoria.

Nelle more del giudizio, durato ben cinque anni, oltre a mutare l’Organo Giudicante interveniva la L. 124/2017 che, fra le varie norme, disegnava per la prima volta una compiuta disciplina in materia di leasing finanziario. In virtù del subingresso della citata disciplina nel panorama normativo civilistico, il Tribunale di Milano, con la Sentenza 2807/2019 che qui si commenta, statuiva che “la risoluzione del contratto di leasing n. 30118144\01, non può essere assoggettata alla disciplina di cui all’art. 1526 c.c., perché: 1. Il leasing è contratto con causa finanziaria, assolutamente differente dalla vendita con riserva della proprietà (e solo a quest’ultima fattispecie che si applica la disciplina di cui all’art. 1526 c.c.); 2. La disciplina della risoluzione del contratto di leasing è dettata dall’art. 17 delle condizioni generali del medesimo contratto, secondo canoni di legittimità che non consentono il ricorso, o estensione per analogia, a norme dettate per fattispecie contrattuali diverse; 3. l’inapplicabilità al leasing della disciplina di cui all’art. 1526 c.c. è supportata anche dal superamento della distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento, per effetto della Legge 28.12.2015 n. 208 – Legge di stabilità 2016 – sul leasing abitativo e, della L. 4.8.2017 n. 124, art. 1); laddove la L. 4.8.2017 n. 124, all’art. 1, comma n. 138, prevede che “ In caso di risoluzione del contratto per l'inadempimento dell'utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell'utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore a norma del periodo precedente.”  È di chiara evidenza che, con l’intervento della Legge di cui sopra, la risoluzione dei contratti di leasing è oggi disciplinata espressamente, per cui non può più farsi riferimento all’art. 1526 c.c., che veniva, in precedenza, preso in considerazione solo per estensione analogica; si rileva poi, che, nel caso che qui ci occupa, trova piena applicazione la L. n. 124/2017 perché l’art. 11 delle Preleggi consente la immediata applicazione della riforma.

In virtù delle sopraindicate motivazioni, il Tribunale rigettava l’opposizione ritenendola non fondata e, oltre a rigettare la riconvenzionale ritenendola non provata, condannava la società debitrice al pagamento della intera differenza di prezzo ancora dovuta, oltre interessi e spese di lite.

Gli argomenti spesi al punto 1 e 2 delle suddette motivazioni possono provocare, come vedremo, più di qualche dubbio alla luce della teoria della causa in concreto, così come portata avanti dalla pregressa giurisprudenza. La conclusione di cui al punto 3, secondo la quale “nel caso che qui ci occupa, trova piena applicazione la L. n. 124/2017 perché l’art. 11 delle Preleggi consente la immediata applicazione della riforma.”, invece, appare forse non adeguatamente motivata e ci introduce la problematica dello ius superveniens, di non agevole soluzione.

Al fine di analizzare la questione nel dettaglio, occorre fornire al lettore il quadro di partenza dato dai precedenti giurisprudenziali favorevoli alla applicazione dell’art. 1526 c.c. e dalla successiva normativa intervenuta nel 2017.

2. L’art. 1526 c.c. alla luce della causa in concreto: fu vera applicazione analogica? 

Prima che intervenisse la legge 123/2017 la Cassazione si esprimeva favorevolmente alla applicazione della norma di cui all’art. 1526 c.c., considerata riequilibratrice delle prestazioni restitutorie in tutti i casi in cui fosse venuto in rilievo un c.d. leasing “traslativo”, ovvero un contratto di leasing manifestamente finalizzato alla vendita rateizzata del bene. Veniva invece esclusa tale possibilità nell’ipotesi in cui si fosse trattato di un c.d. leasing “di godimento”, ovvero un contratto primariamente finalizzato alla locazione del bene concesso in leasing, in cui l’acquisto della proprietà sarebbe intervenuto solo successivamente ed eventualmente, in seguito all’esercizio di un’opzione di acquisto espressamente prevista del contratto, con conseguente pagamento di una maxi-rata finale. [1]

La suddetta distinzione non ha un valore puramente teorico ma rivela importanti conseguenze di carattere pratico. In primo luogo, il diverso termine prescrizionale: quinquennale in caso di azione tendente al recupero dei canoni di locazione, ex art. 2948, co.3, c.c., decennale per le domande finalizzate alla restituzione del prezzo, secondo la regola generale dell’art. 2946c.c; in secondo luogo, ed è questo l’argomento che ci occupa, il regime giuridico delle restituzioni è governato dall’art. 1458c.c. per le somme parificabili ai canoni periodici di locazione, secondo il quale restano ferme le prestazioni già eseguite, mentre trova applicazione lo specifico art. 1526 c.c. per le somme costituenti quote parti del prezzo. Secondo tale ultima norma, in caso di vendita con riserva di proprietà “se la risoluzione del contratto ha luogo per l’inadempimento del compratore il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno[…].    

Il criterio interpretativo per distinguere le due ipotesi contrattuali era quello della “causa in concreto” del contratto, ovvero lo scopo ultimo concretamente perseguito dalle parti mediante l’operazione negoziale di fatto posta in essere.[2] Grazie a questa teoria, detta anche della “funzione economico-individuale della causa”, prima la dottrina e poi la giurisprudenza avevano superato la rigida visione della causa in astratto, meglio conosciuta come teoria della “funzione economico-sociale”, la quale vedeva la causa dell’operazione negoziale unicamente nella apparente rubricazione del contratto in una delle tipologie previste astrattamente dal legislatore,[3] quale garante della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, senza che si potesse andare ad analizzare quale scopo pratico i contraenti avessero effettivamente perseguito. La ricerca del risultato finale materialmente voluto dalle parti è una operazione ermeneutica che rende più efficiente la sussunzione del caso concreto in una fattispecie negoziale piuttosto che in un’altra, o anche in più fattispecie combinate fra loro.

Appare, pertanto, scorretto parlare di “applicazione analogica” dell’art. 1526 c.c., dovendosi invece intravedere nell’operazione interpretativa descritta dalla pregressa giurisprudenza in materia di leasing una semplice opera di sussunzione del caso specifico in una ipotesi normativa (direttamente applicata) piuttosto che in un’altra, seguendosi i criteri di interpretazione del contratto dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c. e alla luce della teoria della “causa in concreto”.

La giurisprudenza, infatti, non ha applicato l’art. 1526 c.c. perché non ha rintracciato la normativa sul leasing nell’ordinamento, essendo costretta a colmare la lacuna con una disciplina diversa ma analoga, bensì, a prescindere dalla atipicità del contratto, ha applicato il regime giuridico della vendita con riserva di proprietà semplicemente perché effettivamente, con il leasing “traslativo”, era quella la concreta operazione negoziale posta in essere dalle parti. [4]

Né poteva trarsi argomento contrario dalla diversa previsione dell’art. 72quater della legge fallimentare che uniforma gli effetti risolutivi delle due ipotesi negoziali, dovendosi ritenere che quella norma, come chiarito anche dalla stessa Suprema Corte, era stata dettata per il particolare contesto fallimentare, ove le menzionate esigenze di riequilibrio non erano sussistenti. [5]

Sul punto, però, la stessa Cassazione ci fornisce interessanti occasioni di riflessione. Essa afferma che l’art. 72quater L.F. trova applicazione solo nel caso in cui il contratto di leasing sia pendente alla data della dichiarazione di fallimento, e che, per contro, laddove si sia anteriormente risolto, occorre distinguere a seconda che si tratti di leasing di godimento o traslativo, potendosi solo in quest’ultimo caso applicare in via analogica l’art. 1526 c.c., con la necessità per il concedente, per poter essere ammesso al passivo dell’utilizzatore fallito, di proporre una domanda che risulti comprensiva di tutte le richieste nascenti da quella disposizione. La Suprema Corte, quindi, distingue fra contratto ancora in vita o già risolto al momento del fallimento, distinzione che può essere utile fissare per affrontare la tematica dello ius superveniens.

3. La normativa intervenuta con la L. 123 del 2017

La normativa attualmente in vigore, dopo aver dettato una disciplina generale in tema di contratto di leasing (senza alcun cenno alla distinzione giurisprudenziale fra leasing “di godimento” e leasing “traslativo”), prevede alcune disposizioni specifiche per il caso di inadempimento dell’utilizzatore finalizzate a tutelare maggiormente i diritti di credito del concedente, senza provocare per ciò solo un arricchimento ingiustificato e sproporzionato dello stesso ed evitando che quest’ultimo possa ottenere più di quanto effettivamente gli spetti.   

In particolare, nell’ipotesi in cui l’utilizzatore compia un inadempimento di non scarsa importanza, il concedente potrà scegliere di far valere tale inadempimento come causa di risoluzione del contratto, così provocando l’obbligo, in capo all’utilizzatore, di restituire il bene nonché di conseguire la restante parte del prezzo, al netto degli interessi sui canoni a scadere. Di contro, mediante la previsione di un meccanismo “marciano” previsto all’art. 1, co. 138, il legislatore ha predisposto la tutela dell’utilizzatore tramite l’obbligo di restituire a quest’ultimo quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene secondo i valori di mercato, previa adeguata stima dello stesso tramite la nomina di un perito, quale terzo arbitratore scelto fra una rosa di soggetti contemplata nel contratto e pattuita da entrambe le parti.[6] Residueranno somme da versare in favore del concedente solo se, una volta effettuata la vendita al prezzo così stimato, l’importo conseguito dovesse risultare inferiore al credito ancora dovuto.

È evidente che con il suddetto patto marciano, previamente concordato fra le parti, il legislatore si sia preoccupato di dettare una disciplina specifica della fase patologica del contratto di leasing, forgiando una normativa che potesse garantire i diritti di entrambe le parti, evitando la violazione dei principi basilari esistenti in tema di esecuzione forzata. Questi ultimi, infatti, prevedono che il creditore possa giovarsi dell’intera garanzia patrimoniale del debitore (art. 2740 c.c.) senza trarre, però, vantaggi ulteriori rispetto a quelli che sono i suoi diritti di credito (emblematici gli artt. artt. 2744 c.c. e 510, ult. co., c.p.c.). Questa legge, quindi, è finalizzata a governare la crisi del rapporto negoziale ed il regime delle restituzioni, da doversi eseguire in seguito alla avvenuta risoluzione del contratto.

Occorre allora chiedersi innanzitutto se, alla luce della L.124/2017, sia effettivamente venuta meno la distinzione giurisprudenziale fra “leasing traslativo” e “leasing di godimento”; in secondo luogo, è lecito domandarsi quale disciplina deve applicare il giudice se, nelle more del giudizio, interviene una normativa di nuovo conio dalla portata così dirompente.

Circa la prima questione, vi è da constatare che il legislatore, pur coniando una lex specialis rispetto alle norme del codice civile, non ha preso posizione sulla suddetta distinzione, negandola o affermandola, motivo per cui dovrebbe valere il noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit taquit. Ad ogni buon conto, le argomentazioni del Tribunale sul leasing finanziario sono rivolte al contratto atipico non ancora disciplinato - in spregio alla teoria della causa in concreto - relegando il problema della normativa sopravvenuta nello spazio di un argomento ad abundantiam, quando, esso rappresenta forse il nodo più grande da sciogliere.

4. La questione dello ius superveniens

Circa l’efficacia della legge nel tempo, la regola generale è quella prevista dall’art. 11 delle disp. prel. al codice civile, il quale prevede che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Letta a contrario, dalla norma si ricava il principio sintetizzabile nel brocardo latino tempus regit actum, in virtù del quale il fatto, l’atto o il rapporto sono regolati dalla legge in vigore nel momento in cui essi vengono posti in essere.[7]

Quando a venire in rilievo non è un mero atto giuridico ma un “rapporto”, come può essere, appunto, quello contrattuale, ci si imbatte in un fenomeno duraturo che può essere regolato anche da una legge che sia sopravvenuta, purché il rapporto sia ancora pendente. Ecco che allora, per poter capire quale disciplina applicare in caso di sopravvenienza di una nuova legge modificativa di un rapporto negoziale, occorre capire quando un rapporto può dirsi effettivamente ancora “pendente”, ed in particolare se può definirsi tale un rapporto ancora sub iudice.

Al primo interrogativo è possibile dare una risposta che, ad un esame sommario della più moderna giurisprudenza, è possibile sintetizzare nel principio in virtù del quale "la legge nuova può applicarsi ad un rapporto giuridico sorto anteriormente, purché esso non abbia ancora esaurito i suoi effetti e si tratti di norma diretta a regolare non il fatto o l'atto generatore del rapporto, ma gli effetti di essi".[8]

Secondo un diverso orientamento, che può definirsi minoritario, invece, sono applicabili immediatamente ai rapporti pendenti solo quelle norme aventi una portata interpretativa[9], che già in generale derogano al citato art. 11 perché non innoverebbero l’ordinamento giuridico.

Per la tesi prevalente, quindi, deve trattarsi non di una modifica normativa afferente al fatto costitutivo del rapporto (nel caso di specie, il contratto di leasing), ma di una innovazione afferente agli effetti derivanti dal rapporto già costituitosi. Tale formula, secondo autorevole dottrina, limitando l'applicabilità immediata a quelle leggi sopravvenute che disciplinano solo gli effetti del rapporto dedotto in giudizio, lascia aperte una serie di questioni che vengono risolte di volta in volta dal giudice, in base alle circostanze del caso concreto.[10]

Tendenzialmente, è possibile affermare che fra gli “effetti del rapporto” siano ricomprese le prestazioni di carattere restitutorio derivanti dalla risoluzione del contratto, quale fatto estintivo dello stesso. Tuttavia, anche a tal proposito è necessario operare una sottile distinzione fra azione di risoluzione per inadempimento ex art. 1453c.c. e la risoluzione di diritto, la quale si verifica in caso di diffida ad adempiere, ex art. 1454c.c. e per scadenza del termine essenziale ex art.ex art. 1457c.c.[11] La prima è rivolta ad ottenere la risoluzione del contratto per via giudiziale. Il giudice si pronuncerà sulla gravità dell’inadempimento (art. 1455 c.c.) ed emetterà una pronuncia costitutiva della risoluzione del contratto e degli effetti che da essa derivano. Nel caso della risoluzione di diritto, invece, al momento della instaurazione del giudizio la risoluzione del rapporto è già avvenuta per volontà unilaterale di una delle parti. Di conseguenza, il giudizio è rivolto unicamente alla verifica della vicenda risolutiva e il giudice, in questo caso, emetterà una pronuncia di mero accertamento di un fatto estintivo già compiutosi.

5. Conclusioni: più ombre che luci nella soluzione adottata per il caso specifico.

Nel caso oggetto della pronuncia del Giudice milanese la società concedente aveva già risolto di diritto il contratto. Per di più, attivando il procedimento penale poi archiviatosi, alla data della proposizione della domanda era già riuscita ad ottenere anche la restituzione del natante e a rivenderlo a condizioni unilateralmente predisposte.

Pertanto, alla luce della teoria della causa in concreto – che non è possibile accantonare riducendo i precedenti orientamenti giurisprudenziali ad una mera esigenza di applicazione analogica – dovendosi applicare l’art. 1526c.c.ai rapporti ormai esauriti in luogo dell'art. 1458c.c., per i motivi precedentemente esposti, forse sarebbe stata più corretta la soluzione opposta. Ciò anche alla luce del fatto che la nuova normativa prevede la riallocazione del bene previa stima di un terzo arbitratore la cui nomina sia stata concordata nel contratto. Il perito così nominato dovrebbe calcolare il valore del bene al momento della successiva rivendita e l’effettivo importo da stralciare sul prezzo complessivo, diversamente conseguito.

Nulla nel caso di specie era stato pattuito fra le parti, né era stato comunque posto in essere dalla concedente.

Note e riferimenti bibliografici

E.BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955

G. FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965

F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1971

R. CAPONI, In tema di Ius superveniens sostanziale nel corso del processo civile: orientamenti giurisprudenziali, Foro it., 1992

C.M. BIANCA, Diritto Civile, vol. III - Il contratto, Milano, 2000

F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, ESI, Napoli, 2009

R. GIOVAGNOLI, Giurisprudenza civile 2014, Giuffrè, VIII ed., 2014

G. CHINE – M. FRATINI – A. ZOPPINI, Manuale di diritto civile, VII ed., Roma, 2016

F.CARINGELLA – D. DI MATTEO, Lezioni e Sentenze di diritto civile, DIKE, 2019

[1] Cass. Civ. nn.2538/2016, 6578/13, 12415/2012, 19732/11, 13418/2008.

[2] G. FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965; C.M. BIANCA, Diritto Civile, vol. III - Il contratto, Milano, 2000, II ed., pp. 447 e ss.; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, ESI, Napoli, 2009, pp. 807 e ss. Per alcune significative applicazioni giurisprudenziali cfr. R. GIOVAGNOLI, Giurisprudenza civile 2014, Giuffrè, VIII ed., 2014, fra le quali si evidenzia, in particolare, Cass. n.10490/2006 quale prima sentenza che applicò la suddetta teoria.

[3] Per la teoria della causa quale funzione “economico-sociale”  cfr. E.BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, pp. 166 e ss.; F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1971, p.172.

[4] Ciò nonostante, si esprime ancora in termini di “applicazione analogica” Cass. Civ. 18326/2018.

[5] L’art. 27quater, co.2, L.F. così recita: “in caso di scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l’eventuale differenza fra la maggior somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale; per le somme già riscosse si applica l’art. 67, terzo comma, Lett. a)”.  

[6] F.CARINGELLA – D. DI MATTEO, Lezioni e Sentenze di diritto civile, DIKE, 2019, pp. 248 e ss.

[7] L’unica deroga è data dall’art. 2 del codice penale con riferimento al diverso principio del favor rei, giustificato a livello costituzionale dall’art. 25Cost. e fatte salve le norme processuali, per le quali si riespande l’operatività dell’art. 11 delle preleggi.

[8] Cass. 3 aprile 1990, n. 2712,  Foro it., Rep. 1990, voce Espropriazione per pubblico interesse, n. 258, Giust. civ., 1990, I, 2034 e Cass. 28 ottobre 1987, n. 7957,  Foro it., 1988, I, 3006 Sul punto, R. CAPONI, In tema di Ius superveniens sostanziale nel corso del processo civile: orientamenti giurisprudenziali, Foro it., 1992, I, p.131.

[9] In questo senso, Cass. 7 febbraio 1981, n. 779, Foro it., Rep. 1982, voce Infortuni sul lavoro, n. 207, Riv. infortuni, 1981, II, 170.

[10] R. CAPONI, op. cit., p.138.

[11] G. CHINE – M. FRATINI – A. ZOPPINI, Manuale di diritto civile, VII ed., Roma, 2