Pubbl. Ven, 23 Ago 2019
Illegittimo il licenziamento di un insegnante a causa del suo orientamento sessuale
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Camilla Della Giustina
Comportamento discriminiatorio: è illegittimo il licenziamento di un insegnante in un organizzazione di tendenza a causa dell´orientamento sessuale. Nota a sentenza, Corte d´appello di Trento n. 14 del 2017.
Sommario: 1. Breve disamina dei fatti; 2. Contenuto pronuncia della Corte d’Appello; 3. Riferimenti giurisprudenziali; 4. Decisione della Corte d’Appello; 5 Il diritto antidiscriminatorio: definizione, fonti normative e natura dell’illecito.
1. Breve disamina dei fatti
Oggetto del presente contributo è la sentenza n. 14/2017 della Corte di Appello di Trento pronunciata a seguito dell’appello proposto contro l’ordinanza del 26/6/2016 del Tribunale di Rovereto. Con detta ordinanza il Tribunale condannava l’istituto Sacro Cuore di Trento al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore della parte attrice avendo accertato la condotta discriminatoria individuale e collettiva posta in essere nei confronti dell’attore.
L’attore, definito XX, proponeva ricorso al Tribunale di Rovereto in quanto il rinnovo del contratto di lavoro a tempo determinato[1] intercorrente tra la parte attrice e l’istituto Sacro Cuore di Trento era subordinato ad una dichiarazione dell’insegnante riguardante il suo orientamento sessuale[2].
2. Contenuto della pronuncia della Corte d’Appello
La disamina del merito effettuata dalla Corte viene preceduta da un’analisi relativa ai principi che disciplinano l’onere della prova. La base normativa sostanziale, anche se frammentata, dei divieti di discriminazione è costituita dai Dlgs. n. 286/98, n. 215/03, n.198/06 e dalla L. n. 67/06, invece, la disciplina della parte processuale si trova nell’art. 28 del Dlgs. n. 150/11. Quest’ultimo articolo prevede che quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti da dati anche di carattere statistico, dai quali si può desumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.
Da questa disposizione risulta difficile rinvenire l’esatta ripartizione dell’onere della prova ma si riferisce all’attuazione di un principio rinvenibile in tutte le direttive contro la discriminazione e ritenute come fondamentali dalla Corte di Giustizia. Alla luce di questo la Corte d’Appello ritiene come essenziale adottare un’interpretazione che risulti essere agevole sotto il profilo probatorio a vantaggio di chi agisce per tutelarsi da una condotta discriminatoria.
La direttiva n. 78/200, in particolare, prevede che: qualora vi sia una presunzione di discriminazione le norme in materia di onere della prova devono essere adattate, che l’onere della prova sia posto a carico del convenuto ed infine che sia a carico del convenuto provare la religione di appartenenza, le convinzioni personali, la presenza di un handicap, l’età o l’orientamento sessuale della parte attrice (art. 31). Sempre la medesima direttiva dispone che sia onere degli Stati membri prevedere la disciplina processuale adeguata in modo conforme ai sistemi giudiziali presenti negli stati stessi. Le fonti normative menzionate richiamano la prova per presunzioni nell’ipotesi in cui la fattispecie discriminatoria non possa essere dimostrata con una prova diretta: l’inversione dell’onere probatorio si deve quindi riferire al ragionamento per presunzioni.
Le presunzioni possono essere definite come le conseguenze che la legge o il giudice tra da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art. 2727 c.c.), si distingue tra presunzioni semplici e legali[3]. Le prime, ex art. 2729 c.c., non trovano la loro fonte dalla legge ma sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale può ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti. Nel ragionamento presuntivo la Corte sottolinea come la presunzione sia il risultato del ragionamento del giudice nell’ipotesi in cui detto ragionamento abbia esito positivo.
La normativa da applicarsi in ipotesi di fenomeni discriminatori prevede l’inversione dell’onere della prova[4] quando la parte che si definisce discriminata riesca a fornire elementi di fatto, desunti anche da elementi di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti o comportamenti discriminatori.
3. Riferimenti giurisprudenziali
La Corte d’Appello si conforma, relativamente al procedimento per presunzioni, a quanto espresso dalla Corte di Cassazione relativamente alla nullità del licenziamento fondato esclusivamente su motivi discriminatori (n. 14206/13).
Per individuare il “fattore discriminazione” la Corte d’Appello fa riferimento a due sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia dell’Ue. La prima, sentenza Chez[5], definiva come discriminatoria la condotta relativa alla collocazione dei contatori del gas a molti metri di distanza solamente nei quartieri della città dove risiedevano i Rom. Sebbene nel caso di specie non si rinvenisse il fattore di protezione, dato che la ricorrente apparteneva alla popolazione Rom, era evidente come, a causa della sua origine, subisse un trattamento da definirsi meno favorevole. Il termine di paragone risultava essere costituito dal fatto che in altri quartieri della città non abitanti in prevalenza da popolazione di origine Rom i contatori del gas fossero stati collocati ad una distanza inferiore rispetto alle abitazioni.
La sentenza Coleman[6] riteneva integrante la fattispecie di discriminazione la condotta assunta dal datore di lavoro, consistente in ripetute molestie, a danno di una donna madre di un figlio disabile e impegnata ad assisterlo. Il principio enunciato dalla Corte di Giustizia prevede come il principio di parità di trattamento ha lo scopo di contrastare qualsiasi ipotesi di discriminazione oggettiva posta in essere nei confronti delle categorie definite protette. L’elemento dirimente è stato rintracciato nel fatto che fosse proprio la disabilità del figlio la causa del trattamento deteriore posto in essere dal datore di lavoro.
4. Decisione della Corte d’Appello
I fatti allegati dalla parte attrice sono stati ritenuti dalla Corte d’Appello come indicativi di una discriminazione, il convincimento di detta corte fa riferimento essenzialmente a:
- La richiesta da parte dell’istituto di informazioni circa l’orientamento sessuale dell’insegnante.
- Aver subordinato la conclusione del contratto al non praticare un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale.
- Ritenere che l’insegnante dovesse intraprendere un percorso di cura al fine di mutare il proprio orientamento sessuale.
L’istituto Sacro Cuore, a contrario, ha ritenuto come l’orientamento sessuale dell’insegnante fosse contrastante in quanto incompatibile e non coerente con il progetto educativo fatto proprio dall’istituto stesso. La parte convenuta ha sottolineato come all’omosessualità risultino essere collegate convinzioni personali contrarie alla concezione morale fatta propria dall’ordine religioso e, a tal fine, richiama due sentenze della Corte EDU (Obst contro Germania[7] e Siebenhaar contro Germania[8]).
La Corte d’Appello ritiene che i precedenti posti alla base della difesa dell’istituto Sacro Cuore siano diversi rispetto al caso di specie e non applicabili per analogia. Alla base di questa affermazione della Corte un ruolo centrale è giocato dal fatto che l’istituto in questione è una scuola paritaria gestita da un ordine religioso, non una comunità religiosa. Secondo aspetto concerne la disciplina alla quale sono soggette le scuole paritarie: i principi di libertà garantiti dalla Costituzione italiana[9]. Poste queste premesse la stessa Corte ritiene che l’orientamento sessuale e la vita privata dell’insegnante non possano possedere una influenza determinante in relazione alla materia insegnata, nel caso di specie educazione artistica, e in relazione al contesto ossia una scuola paritaria gestita da un ordine religioso.
La corte conclude ritenendo che il progetto educativo non implica alcuna adesione confessionale e pratiche di stretta osservanza e l’insegnante non ha mai tenuto condotte professionali infedeli o a che solo incoerenti con il progetto e con l’etica che lo ispira.
5. Il diritto antidiscriminatorio: definizione, fonti normative e natura dell’illecito
Con questo paragrafo si vuole prospettare un breve quadro in relazione all’argomento del diritto antidiscriminatorio[10]. Posto che si tratta di un argomento estremamente complesso ed ampio in questo contesto verrà fornita una breve disamina avente ad oggetto la definizione stessa di diritto antidiscriminatorio, le fonti normative di esso ma anche “le fonti delle” del diritto antidiscriminatorio per concludere con una succinta analisi relativa alla natura dell’illecito derivante dalla condotta qualificata come antidiscriminatoria.
Con l’espressione discriminazione contrattuale si fa riferimento a qualsivoglia comportamento di un soggetto privato dal quale derivi una limitazione, negazione o che renda più gravoso ad un altro soggetto l’accesso a beni e servizi a causa delle qualità personali altrui, come ad esempio, la razza, il colore della pelle, la provenienza, le convinzioni e pratiche religiose, il genere. Questi elementi sono stati definiti come “fattori di rischio” ossia non sono motivi validi ed idonei tali da essere ritenuti determinanti in relazione all’oggetto della prestazione contrattuale. L’ordinamento giuridico servendosi della legislazione antidiscriminatoria persegue lo scopo di reprime questi (pre)giudizi diffusi nei confronti degli appartenenti a dette categorie dato che la conclusione contrattuale non deve essere considerata solamente come atto di autonomia privata ma necessita di essere inserita in un contesto assai più ampio[11].
Questa discriminazione contrattuale, quando posta in essere, risulta idonea a produrre tre effetti[12]:
- La lesione della libertà contrattuale del soggetto discriminato.
- L’eliminazione della possibilità di ottenere un arricchimento individuale per il soggetto discriminato.
- La manipolazione di un corretto funzionamento del mercato.
L’elemento caratterizzante della discriminazione è quello di riservare un trattamento deteriore ad un soggetto a causa della sua appartenenza a una categoria definita come protetta: detto trattamento risulta essere differente rispetto a quello che sarebbe riservato ad un soggetto non appartenente alla stessa categoria. Lo scopo della disciplina, sub-specie tutela, antidiscriminatoria è quello di rendere tipici i fattori di protezione in modo da definire illegittima ogni condotta che sia causata in modo oggettivo dal fattore protetto e prescindendo, quindi, da chi siano effettivamente i soggetti danneggiati[13].
Le fonti normative principali[14] in materia di divieto di discriminazione contrattuale possono sono essenzialmente: il Dlgs n. 286/98, il Testo Unico sull’immigrazione e due direttive europee, la n. 2000/43/CE e la n. 2004/113/CE.
Facendo riferimento al T.U sull’immigrazione si riesce ad estrapolare una definizione idonea a definire la fattispecie in esame: ogni comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni o pratiche religiose (art. 43 comma 1). Questo comportamento sanzionato può sussistere in qualsiasi fase contrattuale quindi sia nella fase delle trattative, sia di conclusione del contratto ma anche nel caso di scioglimento dell’accordo contrattuale stesso[15].
Se questa è la definizione in positivo in relazione a quei comportamenti che rendono applicabile la disciplina antidiscriminatoria, si deve indicare come la direttiva n. 200/43/CE e quella n. 2014/143/CE indichino un ambito nel quale non trova applicazione detta disciplina, e, precisamente quando la disuguaglianza posta in essere e correlata all’origine, al sesso, alla razza sia posta in essere in quanto orientata ad una finalità legittima. Questa finalità legittima ricorre nelle ipotesi in cui per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato (art. 4).
Se queste sono le fonti normative presenti nel territorio italiano ed europeo ci si deve chiedere quale sia il fondamento di queste fonti volte a sanzionare detto comportamento discriminatorio. In primo luogo si è sostenuto che scopo della legislazione antidiscriminatoria sia quello di tutelare la dignità umana: ogni atto discriminatorio sarebbe lesivo di essa e per questo dovrebbe essere considerato illecito e questo a prescindere dalla tutela del corretto funzionamento del mercato[16]. Altra parte della dottrina ha reputato opportuno e corretto ricondurre la normativa antidiscriminatoria all’interno dell’art. 2 Cost. in quanto reputa che un aspetto centrale e fondamentale dell’ordinamento italiano sia dato dalla tutela e dal rispetto dei diritti umani[17]. Altri ancora hanno ritenuto come il cardine possa essere rinvenuto nel principio della pari dignità umana e nella parità di trattamento[18]. Infine vi è chi ha ritenuto che alla base del divieto di discriminazione vi sia il concetto di pari opportunità sostenendo quindi che il principio di uguaglianza possieda anche una dimensione orizzontale[19] e non solo verticale. La dimensione orizzontale emergerebbe nell’ambito contrattuale grazie allo strumento rappresentato dal divieto di discriminazione in quanto quest’ultimo deriva dal principio di uguaglianza proiettato nella dimensione orizzontale[20].
Per quanto concerne la natura dell’illecito derivante dalla condotta discriminatoria posta in essere è possibile rinvenire essenzialmente tre tesi presenti in dottrina.
Secondo una prima corrente dottrinaria la mancata conclusione di un contratto basata esclusivamente su motivi discriminatori potrebbe essere considerata come una modalità non corretta, patologica dell’attività negoziale stessa. Secondo questo orientamento vi potrebbe essere una sorta di somiglianza con gli atti emulativi disciplinati dall’art. 833 c.c.: come gli atti emulativi hanno come unico scopo quello di recare molestia o nuocere ad altri, il rifiuto di concludere un contratto basato su motivi esclusivamente discriminatori avrebbe come unico obiettivo quello creare un pregiudizio alla parte discriminata[21].
Altra tesi[22] rinviene la mancata conclusione contrattuale sorretta solamente da motivi discriminatori come un illecito doloso. In questa ipotesi è necessaria la presenza di due elementi:
- La qualità personale della parte discriminata è l’unico elemento che ha determinato la volontà dell’altro contraente circa la non-conclusione del contratto.
- L’unico scopo del contraente sia quello di porre in essere un trattamento sfavorevole ai danni del contraente discriminato.
Il limite di entrambe le tesi appena esposte riguarda il fatto che entrambe si concentrano sull’aspetto soggettivo dimenticando e trascurando l’aspetto fondamentale della fattispecie ossia la disuguaglianza oggettiva e mancante oggettivamente di giustificazione[23].
Posta questa considerazione la terzi tesi che verrà presa in esame configura la discriminazione contrattuale come responsabilità oggettiva. Seguendo questo filone al fine di capire e valutare l’esistenza effettiva della condotta discriminatoria si effettuerà un giudizio volto a individuare una possibile e valida giustificazione del comportamento discriminatorio. Qualora il comportamento discriminatorio posto in essere non dovesse essere sorretto da una causa di giustificazione e da un corretto bilanciamento degli interessi presenti concretamente nel caso da analizzare, solo a quel punto sarebbe rinvenibile una condotta discriminatoria da sanzionare[24].
Note e riferimenti bibliografici
[1] XX ha dichiarato che era stata rassicurata più volte in relazione al rinnovo del contratto di lavoro nonché al fatto che detto contratto da contratto a tempo determinato sarebbe stato trasformato in contratto a tempo indeterminato.
[2] L’istituto Sacro Cuore era venuto a conoscenza della convivenza dell’insegnante con un’altra donna, fatto che era stato ritenuto dall’istituto come contrario al proprio progetto educativo e formativo.
[3] Sono dettate dal legislatore e hanno la funzione di sollevare il soggetto onerato dal rischio della mancata prova, possono essere relative o assolute. Consolo C., Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume II, Il processo di primo grado e l’impugnazione delle sentenze, Giappichelli, 2015, pag. 301.
[4] Il riferimento è agli art. 2697 c.c. e 115 c.p.c.: il primo concerne l’onere della prova e detta una regola di giudizio per il giudice ossia il non considerare come esistente il fatto non provato e distribuisce tra le parti il rischio della mancata prova. Il secondo prevede che ha l’obbligo di porre a fondamento della sua decisione anche i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. . Consolo C., Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume II, Il processo di primo grado e l’impugnazione delle sentenze, Giappichelli, 2015, pag. 294-295.
[5] Sentenza 16/7/2015.
[6] Sentenza 17/7/2008.
[7] Sentenza del 23/9/10. Il signor Obst, rappresentante quale responsabile delle pubbliche relazioni della comunità religiosa della Chiesa Mormone, aveva contratto matrimonio seguendo i dettami del rito mormone e successivamente aveva intrapreso la procedura di separazione dalla moglie a causa della sussistenza della relazione con un’altra donna. A causa di detto comportamento venne licenziato e scomunicato dalla Chiesa Mormone. Relativamente a questo fatto la Corte Edu ha ritenuto come il ricorrente avrebbe dovuto aver coscienza circa la rilevanza della fedeltà coniugale per il suo datore di lavoro nonché dell’incompatibilità della relazione extraconiugale in relazione ai principi della Chiesa Mormone.
[8] Sentenza del 3/2/11. La signora Siebenhaar era un’insegnante licenziata a causa del contrasto tra i dogmi del suo credo religioso con quelli propri della comunità protestante. In questa circostanza la Corte Edu ritiene che l’autonomia di una confessione o istituzione comprenda la possibilità per questa di valutare i comportamenti dei dipendenti contrastanti con i principi identitari religiosi.
[9] L’art. 21 della Carta di Nizza prevede che la libertà di orientamento culturale e pedagogico che viene riconosciuta alle scuole paritarie non implica anche la libertà porre in essere criteri discriminatori per l’accesso all’attività lavorativa quando si tratta di criteri che non attengono alla qualità della prestazione lavorativa.
[10] Trattandosi di un tema estremamente ampio per maggiori approfondimenti, oltre a tutta la bibliografia citata, vedasi: Santagata Del Castro R., Le discriminazioni sul lavoro nel diritto vivente, Calafà L., Il diritto antidiscriminatorio tra teoria e prassi applicativa, Micolano B., Il diritto antidiscriminatorio nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
[11] Caparezza Figlia G., Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, Edizioni scientifiche italiane, 2013, pag. 55.
[12] Maffeis D., Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, 2017, pag. 42 e ss.
[13] Santoni Rugio R., Il caso della docente di una scuola religiosa: la discriminazione per orientamento sessuale nelle organizzazioni di tendenza, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. n. 4, 2017, pag. 821-822.
[14] Altre fonti normative sono il Dlgs n. 215/2003, n. 216/2003, la L. 67/2006, il Dlgs n. 196/2007.
[15] Ciancimino M., La discriminazione contrattuale: profili rilevanti per la tutela della persona. Note a margine di un recente dibattito dottrinale, in Diritto di Famiglia e delle Persone, fasc. 2, 2018, pag. 667 e ss.
[16] Sitzia L., Pari dignità e discriminazione, Iovene, 2011, pag. 9
[17] Perlingieri P., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Edizioni scientifiche italiane, 2006, pag. 455
[18] Pasetti G., Parità di trattamento e autonomia privata, Cedam, 1970, pag. 16, 41 e 43.
[19] Si tratta della Drittwirkung, la Corte Costituzionale italiana ha precisato in varie occasioni l’efficacia erga omnes di alcuni diritti, tra cui il divieto di discriminazione. Con la sentenza n. 17/1987 la Consulta precisò che il principio di uguaglianza tra lavoratori e lavoratrici, che si esplica nell’ambito del diritto del lavoro con il divieto di discriminazione, possiede un’efficacia generale che produce i propri effetti nei confronti di tutti i cittadini, i quali, di conseguenza sono tenuti a rispettarlo. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte in quanto una dipendente di un’impresa di vigilantes viene licenziata in quanto nessun cliente di detta impresa vuole farsi difendere da una donna. A seguito della pronuncia in esame emerge il seguente scenario: il cliente dell’impresa non può chiedere la risoluzione del contratto per ragioni attinenti a discriminazioni per motivi di sesso e di conseguenza il datore di lavoro non può licenziare la dipendente. Bin R., Pitruzzella G., Diritto Costituzionale, Giappichelli, 2018, pag. 533.
[20] Navarretta E., L’evoluzione dell’autonomia contrattuale fra ideologie e principi, in Quadri fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 1/2014, pag. 635.
[21] Sacco R., De Nova G., Il Contratto volume II, Utet, 2004, pag. 100.
[22] Maffeis D., Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, 2017, pag. 55.
[23] Ciancimino M., La discriminazione contrattuale: profili rilevanti per la tutela della persona. Note a margine di un recente dibattito dottrinale, in Diritto di Famiglia e delle Persone, fasc. 2, 2018, pag. 667 e ss.
[24] Barbera M., Introduzione. Il nuovo diritto antidiscriminatorio: innovazione e comunità, Giuffrè, 2007, pag. XIX-XL.