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Pubbl. Ven, 20 Set 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

La riforma spazzacorrotti al vaglio della Corte Costituzionale

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Marco De Stephanis


La cogenza del principio di irretroattività sfavorevole alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma ”Spazzacorrotti”: i giudici di merito e la Suprema Corte di Cassazione sollevano questione di legittimità costituzionale evidenziando il contrasto tra l´esigenza punitiva statale e le garanzie fondamentali dell´individuo.


Abstract: Il presente contributo tenta di operare una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali che, in breve tempo, hanno offerto soluzioni diverse al problema dell'applicazione retroattiva delle norme attinte dalle modifiche introdotte dalla Riforma "Spazzacorrotti". Nell'arco di pochi mesi (la Legge n.3/2019 è infatti entrata in vigore il 31 gennaio) la giurisprudenza ha fornito diverse interpretazioni che hanno manifestato un vivace contrasto circa la qualificazione giuridica delle norme interessate dalla riforma. Dalla qualificazione sostanziale o processuale di esse deriva un diverso regime di applicazione temporale: come noto, l'applicazione retroattiva delle norme di diritto penale sostanziale è esclusa dall'art.25 Cost, dall'art.2 c.p. e dall'art.7 Cedu, mentre le norme processuali, al contrario, ben possono trovare applicazione anche se non in vigore al momento della commissione del fatto in forza del principio tempus regit actum. In attesa che si pronunci la Corte Costituzionale, adita nel giugno scorso, il contributo si propone di delineare le ragioni sottese agli orientamenti sinora emersi in giurisprudenza.  

Abstract: This contribution attempts to reconstruct the jurisprudence guidelines that, in a short time, have offered different solutions to the problem of retroactive application of the rules deriving from the changes introduced by the “Spazzacorrotti” reform.In a few months (L.3/19 came into force on 31st January) the Courts gave several interpretations showing different points of view regarding the legal rules modified by the reform. In a few months (L.3/19 came into force on 31st January) the Courts gave several interpretations showing different points of view regarding the legal rules modified by the
reform.The substantive or procedural classification of such documents gives rise to a different regime of temporal application: as you know, substantive penal law is not able to be retroactively applied, as provided for into the 25th article of Constitution, into the second article of penal code and the 7th article of CEDU, instead of the procedural one is applied even if came into force after crime's commission, in accordance with the principle tempus regit actum. Pending the pronunciation of the Constitutional Court, seised last June, this contribution aims to outline the reasons underlying the guidelines so far emerged in the jurisprudence.

Sommario: 1. Premessa; 2. L'attuale quadro normativo; 3. L'orientamento giurisprudenziale tradizionale; 4. Le ordinanze che sollevano questione di legittimità costituzionale; 5.La terza via: l'interpretazione convenzionalmente orientata; 6. Conclusioni.

1. Premessa.

L'art. 1 VI comma , lett.b) della L.9 gennaio 2019 n. 3, cd. riforma "spazzacorrotti", ha innovato il tessuto normativo introducendo novità di non poco momento nella risposta sanzionatoria statale alla commissione dei "white collar crimes".

Nella scia di un forte inasprimento delle pene dettato da esigenze di diritto penale punitivo piuttosto che rieducativo, il legislatore ha inserito nel novero dell'art. 4 bis L. 354/1975 un corposo elenco di reati commessi a danno della p.a. con l'effetto di escludere chi li avesse commessi dalla possibilità di usufruire dei benefici penitenziari .

Tralasciando ragioni di merito della novella, l'attenzione dei primi commentatori è stata determinata dall'assenza di una disciplina intertemporale che indicasse il dies a quo della sua applicazione. Ciò rischiava, come poi si è verificato, di porre seri problemi di tenuta costituzionale e convenzionale dell'ordito normativo.

Vengono in rilievo, in tal senso, gli artt. 25, 27 Cost e l'art. 7 CEDU che richiedono il rispetto del principio di legalità formale, in ossequio al brocardo nullum poena nullum crimen sine lege, ma anche sostanziale -suo fondamentale corollario- inteso come prevedibilità della sanzione riconnessa alla commissione di un determinato reato.

Le fibrillazioni della dottrina e dell'avvocatura hanno trovato immediato riscontro nella giurisprudenza di merito che, chiamata ad applicare la novella, ne ha saggiato sin da subito la difficoltà applicativa.

Sono emersi due macro-filoni interpretativi.

Da un lato si pone quella giurisprudenza [1] che  -alla luce del diritto vivente secondo cui le norme concernenti le modalità esecutive della pena avrebbero carattere meramente processuale- afferma che la riforma spazza corrotti debba essere sussunta in tale tipologia di norme e, quindi, la sua applicazione debba essere regolata dal principio tempus regit actum. Di conseguenza, la verifica circa la sussistenza dei requisiti per ottenere eventuali benefici di legge deve essere effettuata alla luce del dato normativo sussistente all'epoca in cui il giudicante è chiamato ad operare tale analisi, senza che possa venire in rilievo la norma in vigore al tempo della commissione del fatto criminoso. Come noto, inoltre, non vi è una norma che indichi, in tali casi, l'atto processuale alla cui adozione deve essere riconnessa l'individuazione del quadro normativo applicabile. Ciò costituisce un ulteriore profilo di frizione nell'interpretazione giurisprudenziale.

Un primo orientamento, infatti, ritiene che tale momento vada individuato nel giorno in cui la sentenza acquista il crisma della definitività, mentre altri sostengono che la fase della esecuzione abbia inizio con l'emissione del decreto di carcerazione sospeso. In tale ultima ipotesi la giurisprudenza, però, ha evidenziato come una siffatta interpretazione rischierebbe di contrastare con il principio di uguaglianza sancito dall'art.3 Cost. nella parte in cui prescrive il medesimo trattamento di situazioni uguali. Come è noto agli operatori pratici del diritto, il rischio è concreto in ragione del fatto che i tempi di emissione del decreto di carcerazione variano in ogni Procura della Repubblica, ma anche in ogni ufficio del singolo sostituto procuratore, a seconda dei carichi di lavoro esistenti. Da ciò potrebbe derivare che, ad esempio, due soggetti condannati per il medesimo reato nello stessoTribunale si trovino l'uno a poter beneficiare di un regime alternativo alla detenzione - avendo ricevuto il decreto di carcerazione sospeso perchè emesso prima della novella-, mentre l'altro veda notificarsi un ordine di carcerazione non sospeso per il solo fatto che esso sia stato emesso in epoca posteriore alla modifica normativa.

Sicchè, preso atto dell'orientamento sostanzialmente univoco del diritto vivente che osta ad una interpretazione difforme, evidenziato tuttavia che una siffatta applicazione contrasta con le garanzie costituzionali e convenzionali, la giursprudenza di merito innanzi citata ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 1 co.6 lett.b) della L. 3/19 e ne ha rimesso la valutazione alla Corte Costituzionale.

A tale orientamento si è aggiunta di recente la prima sezione penale della Suprema Corte [2] che, all'udienza del 18 giugno 2019, ha sollevato d'ufficio «questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 1 co. 6 lett. b) della l. n. 3 del 9 gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis co. 1 l. n. 354 del 1975 il riferimento al delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen.».

 Vi è, invece, chi [3] condividendo la premessa secondo cui la riforma dell'art. 4 bis o.p. ponga norme processuali, ma non la conclusione, afferma che la novella sia costituzionalmente e convenzionalmente legittima e debba applicarsi, in forza del principio tempus regit actum a tutti i procedimenti in corso di esecuzione, ivi compresi quelli in cui la sentenza definitiva sia stata emessa precedentemente l'introduzione della novella.

Tale conclusione non contrasterebbe con le tutele garantite dalla Costituzione e dalla CEDU poichè esse troverebbero applicazione solo allorquando vengano in rilievo norme sostanzialmente penali che tipizzano la fattispecie astratta e ne determinano la pena .

La seconda corrente di pensiero[4], invece, in adesione ad un approccio non meramente formale della valutazione della norma di cui all'art. 656 c.p.p., ne sottolinea l'indubbia valenza sostanziale. 

Dalla sua applicazione, infatti, derivano importanti effetti sul bene primario della libertà personale del condannato soprattutto laddove, per determinati reati, esclude la sospensione dell'ordine di esecuzione pena.

A tale disposizione dunque devono essere estese le guarentigie dell'art. 25 co.2 Cost e 7 CEDU , 2 c.p. con l'effetto che il giudice, secondo una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, deve dichiarare inefficace la norma nella misura in cui si applica ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.

In un quadro così complesso, al fine di comprendere le ragioni giuridiche degli orientamenti esposti , non risulta superfluo un breve richiamo alle norme che attualmente compongono la trama normativa nella quale l'interprete, non senza difficoltà, è costretto ad addentrarsi.

2. L'attuale quadro normativo.

La lett.b) dell'art. 1 co.6 della L.3/2019 ha innovato l'art. 4 bis o.p. introducendo nel catalogo dei reati ostativi alla concessione di benefici penitenziari alcuni reati contro la p.a.. Al primo comma dell'art.4 bis o.p. vengono aggiunti, infatti, i «delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis». Alla condanna per uno o più di tali reati consegue l'impossibilità di accedere ai benefici penitenziari a meno che il detenuto non collabori con la giustizia ai sensi dell'art.58 ter o.p. o a norma dell'art.323 bis c.p..

Tali benefici sono altresì concedibili, ai sensi del comma 1 bis dell'art.4 bis o.p., all'internato che non possa materialmente fornire una utile collaborazione agli investigatori per aver avuto un ruolo residuale nella condotta criminosa o perchè i fatti e i responsabili sono stati integralmente accertati .

I primi commentatori hanno subito evidenziato l'intrinseca irrazionalità del dettato normativo [5] dal momento che per taluni dei delitti indicati la collaborazione può risultare impossibile, trattandosi in alcuni casi di reati monosoggettivi (si pensi al reato di peculato di cui all'art. 314 c.p.) o di reati plurisoggettivi impropri in cui uno degli autori è, al contempo, anche vittima del reato ( il riferimento è alla concussione di cui all'art. 317 c.p.). In tali casi, dunque, l'onere collaborativo può essere utilmente adempiuto solo nella misura in cui si concretizzi in una vera e propria confessione, in violazione del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. e del suo corollario rappresentato dal diritto a non rendere dichiarazioni auto-accusatorie.

La modifica dell'art. 4 bis o.p. ha effetto non solo nei confronti dei detenuti ma anche nei confronti dei condannati per i reati in esso elencati, nella misura in cui osta all'emissione del decreto di sospensione dell'ordine di esecuzione pena in forza del rinvio contenuto nell'art. 656 co. 9 c.p.p..

L'art. 656 co. 5 c.p.p., infatti, prevede che laddove la pena detentiva da espiare, anche se residuo di maggior pena, non sia superiore a 4 anni [6], il pubblico ministero competente emetta decreto di sospensione contestuale all'ordine di esecuzione, onde consentire al condannato, nel termine di 30 gg., di presentare istanza al Tribunale di Sorveglianza volta ad ottenere una delle misure alternative alla detenzione. La ratio della norma è dunque consentire, nel caso di detenzioni di breve durata, al condannato di non subire la più dura delle pene, rappresentata dalla restrizione in vinculis, quando è possibile che l'esigenza punitiva sia soddisfatta con una delle misura alternative prevista dal legislatore.

Ai sensi della lett. a) del comma 9, però, la sospensione dell'esecuzione non può essere disposta allorquando la sentenza di condanna definitiva abbia dichiarato sussistente la responsabilità penale in ordine alla commissione di uno dei reati elencati nell'art. 4 bis o.p..

Il condannato per uno dei reati ostativi succitati, dunque, dovrà necessariamente varcare le soglie del carcere (non potendo più beneficiare della sospensione dell'esecuzione della pena) e potrà accedere alle misure alternative - nel caso in cui collabori o nell'ipotesi di cd. collaborazione impossibile - solo dopo aver trascorso un periodo di osservazione intramuraria, coincidente con il tempo necessario all'esame della richiesta da parte del Tribunale di Sorveglianza competente.

Delineati gli effetti dell'innovazione normativa, ictu oculi peggiorativi della condizione del condannato, l'interprete è costretto a verificare se essi siano conformi, o piuttosto in contrasto, con i limiti previsti dall Costituzione, dalla CEDU e dalle norme primarie dell'ordinamento, nonchè quale sia il termine dal quale tale riforma possa operare.

Come noto, infatti, l'art. 2 c.p. regola il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, sancendo il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole e la retroattività della norma penale favorevole, in deroga al principio secondo cui la legge non può che avere efficacia pro futuro.

L'ambito applicativo di tale disposizione è tradizionalmente ricondotto al diritto penale sostanziale, ovvero alle norme che disciplinano le fattispecie astratte di reato e ne individuano la sanzione.

Le norme di diritto processuale, invece, soggiacciono al principio del tempus regit actum: si applica, cioè , la norma in vigore al momento del compimento dell'atto,anche quando diversa da quella esistente al momento della commissione del fatto di reato,  senza che l'interprete debba valutare il maggiore o minore favore per il reo.

La dottrina e la giurisprudenza si sono, dunque, confrontate con l'annosa questione afferente l'esatto perimetro delle norme penali sostanziali: sono tali solo quelle che descrivono il reato e ne sanzionano la condotta, oppure, facendo leva su un concetto di pena latamente inteso, rientrano nell'alveo applicativo anche quelle che esplicano efficacia indiretta sul bene della vita rappresentato dalla libertà personale dell'individuo?

In assenza di una indicazione normativa, stante l'assenza di norme di diritto intertemporale, la risposta a tali interrogativi è demandata, come sempre più spesso accade, all'attività interpretativa quotidiana della giurisprudenza con un evidente rischio di interpretazioni difformi che andrebbero sempre rifuggite, ma con ancor più vigore quando la materia in rilievo è la libertà personale dell'individuo.

3. L'orientamento giurisprudenziale tradizionale.

L'orientamento giurisprudenziale di gran lunga prevalente prende le mosse da una risalente pronuncia della Suprema Corte [7] la quale, aderendo ad un approccio meramente formalistico, ritiene che le disposizioni che non attengono alla individuazione del reato e alla conseguente pena siano automaticamente sottratte alle garanzie previste dall'art. 25 co.2 Cost. e dall'art.2 c.p.. In parte motiva, infatti, il giudice della nomofilachia si esprime in termini perentori sostenendo che "le disposizioni concernenti le misure alternative alla detenzione, in quanto non riguardano l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma attengono soltanto alle modalità esecutive della pena irrogata, non hanno carattere di norme penali sostanziali, e quindi - in assenza di specifiche norme transitorie - soggiacciono al principio del tempus regit actum e non alla disciplina dell'art.2 c.p. e dell'art. 25 Cost.".

Di tali coordinate interpretative fa uso il Tribunale di Napoli, VII sez., 28 febbraio 2019 nonchè Corte di Appello di Napoli, sez.II, ord. 3 aprile 2019.

I casi sottoposti all'attenzione del giudicante sono sostanzialmente analoghi: la Procura della Repubblica di Napoli, a seguito della interpolazione normativa operata dalla "Spazzacorrotti" provvedeva a revocare il decreto di sospensione  dell'ordinanza di esecuzione pena emesso in conformità alla previgente norma.

La difesa interponeva rituale incidente di esecuzione dinanzi l'Autorità competente al fine di far dichiarare l' illegittimità della revoca disposta dalla Procura con conseguente ripristino della sospensione dell'esecuzione della pena.

Sia il Tribunale che la Corte di appello aderiscono pienamente all'orientamento tradizionale, ritenendo quindi che nel caso di norme afferenti l'esecuzione della pena, il contrasto tra norme successive debba essere risolto alla luce del principio del tempus regit actum.

Tuttavia, proprio in applicazione di esso, sostengono che l'ordine di sospensione fosse stato legalmente disposto in quanto conforme al dettato normativo all'epoca vigente e pertanto "proprio in applicazione del tempus regit actum (richiamato anche nel provvedimento di cui si chiede la revoca) le successive modifche di legge non possono interferire con i provvedimenti di esecuzione con sospensione già emessi".

Argomentando diversamente, secondo la Corte di Appello, si finirebbe proprio con il contrastare il principio di cui si invoca l'applicazione:  "L'opinione contraria, che miri a considerare attinto da illegittimità sopravvenuta l'ordine di sospensione emesso dal pubblico ministero prima del 31 gennaio 2019, finirebbe per travolgere effetti già conclusi prima del nuovo avvento normativo, agendo così con valore irrimediabilmente retroattivo, in spregio al principio sopra ricordato."

Di talchè, individuando quale momento determinante per l'individuazione della disciplina applicabile quello dell'emissione del decreto di sospensione dell'esecuzione della pena, si perviene alla dichiarazione di inefficacia dell'ordine di esecuzione emesso a seguito della revoca della sospensione originariamente disposta.

La soluzione cui si perviene è sicuramente condivisibile in ragione dell'effetto favorevole al condannato.

Vi è da chiedersi, tuttavia, se tale approccio ermenutico sia applicabile anche al di fuori della questione riguardante la revoca della sospensione dell'esecuzione già disposta ai sensi dell'art. 656 c.p.p.

4. Le ordinanze che sollevano questione di legittimità costituzionale.

L'orientamento più risalente è stato sottoposto a serrata critica da parte di chi, non condividendo l'approccio meramente formalistico, ha valorizzato il profilo attinente gli effetti sostanziali della novella, in adesione a quanto richiesto dall'art 7 CEDU, il quale, ai sensi dell'art. 117 Cost., funge da parametro di costituzionalità interposto.

Sostrato concettuale di tutte le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale della "Spazzacorrotti" è rappresentato, infatti, dalla considerazione che il nostro ordinamento deve conformarsi alla concezione di materia penale latamente intesa predicata dalla Corte Edu, con la conseguenza che le garanzie previste dallart.7 CEDU, prima fra tutte la prevedibilità delle conseguenze di una determinata condotta, debbano trovare applicazione in tutti i casi in cui venga in rilievo un trattamento peggiorativo della condizione del condannato.

La Corte [8] si è mostrata riluttante alle distinzioni formalistiche (come è anche successo nella distinzione reato/sanzione amministrativa con la configurazione dei noti criteri Engel) tra norme penali sostanziali e processuali ritenendo che le garanzie desumibili dall'art.7 Cedu trovino applicazione in tutti i casi nei quali venga in rilievo una lesione della libertà individuale, senza distinguere se ciò promani da una norma di carattere processuale o sostanziale.

Scoppola, infatti, aveva richiesto di farsi giudicare con il rito abbreviato all'epoca vigente, in virtù del quale la pena massima irrogabile per il reato contestatogli sarebbe stata la reclusione per una durata di 30 anni. Il codice di procedura penale prevedeva che la pena dell'ergastolo, con o senza isolamento diurno, fosse sostituta, in virtù del rito, con la pena di trent'anni di reclusione.

Sennonchè, nelle more del procedimento, interveniva una norma di interpretazione autentica (l'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000) che stabiliva che l'ergastolo con isolamento diurno sarebbe stato sostituito con il solo ergastolo. Scoppola si è ritrovato così condannato ad una pena più severa di quella prevista al tempo in cui aveva formulato la domanda di accesso al rito alternativo: da qui il ricorso alla Corte di Strasburgo e la condanna della Repubblica italiana per violazione dell'art. 7 CEDU nella parte in cui prevede il divieto di irretroattività della norma con effetti sfavorevoli. In tal caso la Corte, dunque, valorizzava l'effetto in malam partem per l'imputato senza che rilevasse che le conseguenze peggiorative del trattamento sanzionatorio fossero derivate da una norma processuale piuttosto che sostanziale.

La vis expansiva del principio di irretroattività di cui all'art.7 è testimoniata, di poi, dalla pronuncia Del Rio Prada c.Spagna del 2013 in cui la Grande Camera applica tale divieto anche all'orientamento giurisprudenziale sfavorevole.

Ines Del Rio Prada si duoleva, infatti, che il mutamento giurisprudenziale intervenuto circa le modalità esecutive della pena e sul computo dei periodi lavorativi svolti ai fini della rideterminazione della pena da espiare secondo un meccanismo analogo alla nostra "liberazione anticipata", avesse avuto concretamente effetti non solo sfavorevoli, ma anche imprevedibili al momento della condanna, con ciò violando l'art.7 Cedu nella parte in cui richiede la prevedibilità non solo della sanzione penale ma anche delle modalità esecutive della pena.

La Corte, accogliendo il ricorso proposto, ha censurato il mutamento giurisprudenziale intervenuto avendo avuto come effetto principale di prolungare - retroattivamente - il periodo di detenzione della ricorrente sulla base di una interpretazione giursprudenziale inesistente al momento della pronuncia della condanna.

Se questa è l'estensione applicativa che il principio di legalità deve assumere per come interpretato dalla Corte Edu, non può che concludersi che il novellato art.4 bis o.p. , in assenza di una disciplina intertemporale che ne imponga un applicazione solo pro futuro, contrasti con gli artt. 25 co.2 e 117 Cost. e 7 CEDU, nella misura in cui offre al condannato un trattamento deteriore rispetto quello prevedibile al momento della commissione del fatto.  

L'assenza di una disposizione transitoria, inoltre, secondo la Corte di Appello di Lecce, contrasterebbe con l'art.3 Cost. nella parte in cui obbligherebbe a trattare in modo simile situazione dissimili. Con maggior sforzo esplicativo, si evidenzia l'irragionevolezza di una norma che equipara il trattamento sanzionatorio di chi ha commesso il fatto ed è stato condannato prima dell'entrata in vigore della norma, confidando nella sospensione della esecuzione della pena di durata inferiore a 4 anni, con quello di chi ha commesso il fatto dopo la novella conscio della impossibilità di accedere alla sospensione della pena.

Il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ( si rimanda all'ordinanza , ricca ed esaustiva, per l'approfondimento delle questioni qui brevemente riprese) aderisce anch'esso ad un approccio sostanzialista , criticando aspramente la giurisprudenza che si trincera dietro la "truffa delle etichette" senza analizzare il portato essenziale della riforma "Spazzacorrotti" che, senza dubbio, riveste la materia penale. Infatti gli istituti in rilievo non possono essere confinati nella categoria delle modalità esecutive della pena, tralasciando , così, l'effetto che essi hanno di modificare non la mera esecuzione della pena, ma la stessa qualità di essa, tramutandola - sostanzialmente - da pena detentiva a non detentiva.

" Seguendo un condivisibile approccio sostanzialistico, la Corte Edu ha riconosciuto che istituti, pur formalmente non classificati come "penali" e inseriti nel contesto della normativa di matrice penitenziaria, non possono essere considerati alla stregua  di "mere modalità di esecuzione della pena" (e dunque sottratti al principio di irretroattività), qualora incidano su quest'ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa ovvero qualitativa della pena stessa.

È questo il caso delle misure alternative alla detenzione che, attuando il disposto costituzionale laddove esso prefigura un sistema in cui le "pene" devono tendere alla rieducazone del condannato (art.27 co.3 Cost.), ammette la possibile diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, realizzabile, soprattutto in seguito all'introduzione dell'ordinamento penitenziario del 1975, anche in sede esecutiva post iudicatum. " [9].

Ulteriore profilo di incostituzionalità si rinviene nel contrasto tra l'art. 1 co.6 lett.b della legge spazzacorrotti con l'art. 25 co.2 Cost nell'accezione di prevedibilità della sanzione penale che costituisce il nocciolo duro del principio convenzionalmente interpretato. Indipendentemente dalla natura sostanziale o processuale della norma, viene leso l'affidamento che il condannato riponeva nella possibilità che al reato commesso non conseguisse necessariamente la restrizione carceraria. Tale affidamento viene leso dunque con un mutamento delle carte in tavola ad opera del legislatore che ha introdotto una modifica " a sorpresa" nella qualità della sanzione dopo la commissione del fatto: "tale legittimo affidamento non può che comprendere tanto l'an , quanto la tipologia, quanto ancora la dimensione quantitativa della sanzione penale che lo Stato promette di irrogare al colpevole se quel determinato reato verrà accertato " [10]

Alla luce del diritto vivente il quale riconduce le norme concernenti le modalità esecutive della pena alle norme processuali la cui efficacia temporale è regolata dal principio del tempus regit actum, dunque, viene dichiarata non manifestamente infondata e rimessa alla Corte Costituzionale la questione di legittimità riguardante l'art. 1 co.6 lett.b della legge 9 gennaio 2019 n.3,nella parte in cui , modificando l'art. 4 bis o.p. , si applica anche ai reati commessi in data anteriore all'entrata in vigore della predetta norma per contrasto con gli artt.3 , 25 co.2, 27 co.3, 117 Cost e 7 CEDU.

5. La terza via: l'interpretazione convenzionalmente orientata.

Dalla condivisione di tali premesse argomentative prende le mosse un orientamento della giurisprudenza di merito per addivenire ad una soluzione particolarmente efficace senza passare, però, per il vaglio della Corte Costituzionale.

Il Gip  presso il Tribunale di Como [11] investito della questione circa la mancata sospensione di un ordine di esecuzione pena relativo a fatti commessi prima dell'entrata in vigore della novella, propone una soluzione costituzionalmente e convenzionalmente orientata per effetto della quale nega applicazione retroattiva alla norma Spazzacorrotti, sospendendo l'ordine di esecuzione emesso dalla locale Procura.

Premessa del ragionamento giuridico è, come anzidetto, la medesima dell'orientamento sostanzialista: bisogna rifuggire, secondo il Gip, da un approccio meramente formalistico perchè non consente di apprezzare la reale portata dell'isituto in rilievo. 

La norma di cui all'art. 656 c.p.p. sebbene inserita nel codice di rito , combinata con la modifica introdotta nell'art. 4 o.p., ha effetto sostanzialmente penale nel senso che essa lungi dal disciplinare le modalità di esecuzione della pena finisce con il modificare la stessa natura della sanzione. Prima della modifica, infatti il condannato avrebbe potuto scontare la pena senza fare ingresso in carcere giovandosi della sospensione dell'esecuzione per presentare al Tribunale di Sorveglianza istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione. Per effetto della riforma, invece, la pena, o quantomeno una parte di essa, deve essere necessariamente scontata in carcere, con la irrimediabile lesione della libertà personale dell'individuo [12] .

Il Giudicante, dunque, deduce dal reticolato normativo e dagli effetti applicativi un istituto sostanzialmente afflittivo e sanzionatorio cui deve logicamente conseguire l'applicazione delle garanzie costituzionali di cui all'art. 25 co.2 , 117 Cost, 7 CEDU e 2 c.p..

Sin qui, nihil novi sub sole. 

L'elemento di originalità si coglie nella soluzione applicativa pratica che il Gip adotta. Egli, infatti, date le premesse e ritenendo non condivisibile l'orientamento maggioritario, si oppone allo stesso.

Sostiene che, in assenza di una norma di diritto intertemporale e di una formale definizione in senso processualistico dell'istituto, l'unica interpretazione costituzionalmente possibile alla luce del significato che il principio di legalità ha assunto nell'interpretazione della Corte di Strasburgo (sub specie di garanzia di prevedebilità della sanzione penale)  è quella che nega applicazione retroattiva alla novella in esame.

Il Giudice dell'esecuzione, in tal caso, percorre la strada dell'interpretazione convenzionalmente orientata inaugurata dalle note sentenze gemelle 348 e 349/2007 che hanno riconosciuto alle garanzie della CEDU valore di parametro di costituzionale interposto ex art. 117 Cost., in forza del quale la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

L'interprete pertanto, nella risoluzione dei conflitti tra norme primare e costituzionali, deve verificare, preliminarmente, la percorribilità di una interpretazione conformativa il cui unico limite invalicabile è rappresentato dal dato letterale della disposizione.

Nel caso di specie , dunque, la presenza di un diritto vivente di segno opposto, non rappresenta per il Gip un limite alla sua attività interpretativa -costituzionalmente e convenzionalmente orientata- dell'art. 656 co.9 c.p.p. il quale, stante l'assenza di una littera legis  in senso ostativo, deve ritenersi inapplicabile retroattivamente.

È una soluzione condivisibile? 

Secondo la giurisprudenza che ha affrontato successivamente il problema, come visto innanzi, sembrerebbe di no.

Ciò per due ordini di ragioni: in primis è vero che l'art. 7 CEDU funge da parametro di costituzionalità interposto ma è altresì vero che il contrasto con l'orientamento giurisprudenziale prevalente si rinviene nella premessa logico-giuridica del ragionamento, ovvero la natura sostanziale o processuale dell'isituto della sospensione della esecuzione della pena o dei casi di accesso ai beneifici penitenziari. Una interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 656 co.9 c.p.p. e dell'art. 4 o.p., allo stato, appare impossibile considerato che, come ampiamente detto, tali norme sono state considerate a più riprese dalla Cassazione norme processuali.

Come notato acutamente dai primi commentatori [13], sarebbe stato più opportuno, come poi verificatosi successivamente, rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità delle norme in esame che impongono, alla luce dell'interpretazione invalsa in giurisprudenza, un'applicazione lesiva delle garanzie costituzionali e convenzionali dell'individuo. 

Quella operata dal giudice lariano sembra, invero, più che una interpretazione convenzionalmente orientata , una disapplicazione, convenzionalmente giustificata, della norma introdotta dal legislatore.

Egli, in ossequio al noto brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, era sicuramente consapevole della natura processuale dell'istituto e, pertanto, se avesse voluto escludere l'applicazione retroattiva dell'interpolazione legislativa lo avrebbe dichiarato espressamente, come accaduto, ad esempio, con  l'art. 4 co.1 della L. 23 dicembre 2002 n.279 [14].

6. Conclusioni.

La tematica, come visto, è ricca di spunti perchè costituisce la nuova "puntata" dello scontro Corte Costituzionale vs. CEDU che ha impegnato negli scorsi anni il giudice della legalità costituzionale. 

Non può non ricordarsi la lunga vicenda Taricco e Taricco-bis che ha visto confrontarsi la Corte Edu e la Corte Costituzionale sulla natura giuridica, sostanziale o processuale, dell'istituto della prescrizione, oppure il dibattito sviluppatosi attorno la qualifica "sostanzialmente punitiva" della confisca per equivalente prevista dal combinato disposto degli artt.200, 322 ter c.p., condivisa da Corte Cost.1 aprile 2009, n.97 e 20 novembre 2001, n.301.

Un approccio sostanzialista, dunque, ha già avuto modo di consolidarsi in seno alla Corte e questo potrebbe essere l'ennesimo banco di prova per una ermeneutica sempre più attenta alla sostanza degli istituti piuttosto che alle "etichette" in cui viene privilegiato l'angolo prospettico dell'individuo assoggettato alla sanzione penale.

A parere di chi scrive la quaestio iuris più rilevante ai fini che ci occupano e con cui la Corte Costituzionale dovrà confrontarsi è l'indicazione di un criterio univoco per distinguere l'ambito penale sostanziale da quello processuale.

È evidente, infatti, che laddove si dovesse ritenere di aderire all'orientamento che propugna una esegesi convenzionalmente orientata , in forza della quale è sostanzialmente penale tutto ciò che è pertinente al reato e che ha conseguenze restitrittive della libertà del soggetto sottoposto al procedimento penale, l'effetto domino sull'irretroattività di eventuali modifiche peggiorative di altri istituti penitenziari sarebbe facilmente prevedibile. 

D'altro canto, però, l'attuale quadro normativo appare ictu oculi in contrasto con le basilari garanzie del moderno stato di diritto.

Il rispetto del principio pacta sunt servanda osta a che il legislatore cambi le carte in tavola con mutamenti "a sorpresa" non prevedibili non solo al momento della commissione del fatto ma addirittura al momento in cui l'imputato concordi la sanzione con lo Stato. Si pensi a chi , ad esempio il 20 gennaio 2019 (10 giorni prima dell'entrata in vigore della Legge Spazzacorrotti), abbia concordato sulla base della normativa vigente un patteggiamento a 3 anni e 6 mesi, confidando nella certezza di non accedere al carcere tramite la sospensione dell'esecuzione e si ritrovi, invece, ad essere raggiunto da un ordine di esecuzione pena non sospeso, con conseguente restrizione in vinculis.  

Sembra dunque che, per l'ennesima volta, la Corte Costituzionale dovrà armarsi di ago e filo per ricucire la ferita che il legislatore ha causato in una materia che, più della spada del giustizialismo del Leviatano di Hobbes, necessita dell'utilizzo sapiente di un bisturi ben affilato.

Note e riferimenti bibliografici

Fiandaca-Musco - "Diritto Penale Parte Generale", Quinta Edizione, Zanichelli Editore, pagg.84 e segg.

R.Garofoli, "Manuale di Diritto Penale Parte Generale", XIV Ed., Nel Diritto Editore, pag. 200 e segg.

1. Corte di Appello di Lecce, ord. 4 aprile 2019, Tribunale di Napoli-Ufficio GIP ord. 2 aprile 2019, Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ord. 8 aprile 2019.

2. Cass. Pen. sez. u. 18 giugno 2019.

3. Tribunale Napoli, VII sez., 28 febbraio 2019; Corte di Appello di Napoli, sez.II, ord. 3 aprile 2019.

4.  Tribunale Como Ufficio Gip, ordinanza 8 marzo 2019.

5. V. Manes, "L'estensione dell'art. 4 bis ord.pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale" in Dirittopenalecontemporaneo, Fasc. 2/2019.

6. Il precedente limite di 3 anni è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Cost. 2 marzo 2018 n.41.

7. Cass. Pen. SS.UU, 30 maggio 2006, n.24561. In senso contrario, però, la recentissima Cass. Pen. Sez.VI,14/03/19, n.12541 secondo cui "non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l'art.7 CEDU e, quindi, con l'art.117 Cost., là dove si traduce, per il F., nel passaggio - "a sorpresa" e dunque non prevedibile- da una sanzione patteggiata "senza assaggio di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto dell'art. 656 c.p.p., comma 9, lett.a) e art. 4 bis o.p.".

8. Corte EDU, Grande Camera,17 settembre 2009 Scoppola c.Italia.

9. Ord. Tribunale di Sorveglianza Venezia, pag.12.

10. Ord. Trib. Sorv. Venezia, pag.16.

11. Gip tribunale di Como, ordinanza 8 marzo 2019. 

12. Ord. Gip Como pag.7  "nella sostanza la norma di cui oggi si discute non declina una modalità esecutiva ma esclude una dinamica sostitutiva che incide sulla specie di pena, facendola ri-espandere nella sua pienezza di isituto deprivativo della libertà: è pertanto una norma che incide sulla portata della comminatoria e non sulla sola dimensione esecutiva, ovvero, nella sostanza, una norma penale a tutti gli effetti. ".

13. L.Masera , "Le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella cd. legge Spazzacorrotti", in Diritto Penale Contemporaneo, 14 marzo 2019 

14. "1. Le disposizioni di cui all'articolo 1 non si applicano nei confronti delle persone detenute per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale ovvero per delitti posti in essere per finalita' di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico commessi precedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge".