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Pubbl. Mar, 7 Mag 2019

Il peso dell´emergenza terrorismo sui diritti fondamentali e il problema della loro tutela: il caso dell´Italia

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Lorenzo Mariani


Non manca dottrina critica verso la evoluzione in senso via via più repressivo che l’ordinamento italiano ha conosciuto nella lotta all´emergenza terroristica. Ciononostante, il legislatore e la giurisprudenza perseguono nella tendenza alla retrocessione del momento punitivo e all´allentamento delle garanzie processuali per alcuni reati.


Sommario. 1. Evoluzione storica delle norme italiane sulla lotta al terrorismo e analisi dottrinale del loro impatto sui diritti fondamentali. – 2. Il caso Abu Omar: cenni sul concetto di extraordinary rendition. – 3. Il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano. Un lungo calvario con un esito deludente? – 4. La più recente legislazione in tema di terrorismo e il suo impatto sulle garanzie processuali e il diritto alla privacy. – 5. Conclusioni.

1. Evoluzione storica delle norme italiane sulla lotta al terrorismo e analisi dottrinale del loro impatto sui diritti fondamentali.

Nel precedente articolo[1] abbiamo avuto modo di osservare l’approccio del Legislatore della dottrina e della giurisprudenza al tema dell’emergenza in un ordinamento costituzionale particolare come quello italiano, il quale difetta di una esplicita emergency clause. Per inquadrare le limitazioni ai diritti fondamentali dovute specificamente alla legislazione in materia di emergenza terroristica, è conveniente trarre spunto da una analisi di alcuna dottrina[2] che parte dalle norme antiterrorismo più risalenti (legge n. 152 del 22/05/1975; decreti-legge n. 59 del 21/03/1978 e n. 625 del 15/12/1979, convertiti rispettivamente in legge n. 191 del 18/05/1978 e in legge n. 15 del 06/02/1980) per giungere alle più recenti (D.L. n. 144 del 27/07/2005, convertito in legge n. 155 del 31/07/2005, e D.L. n. 7 del 18/02/2015 convertito in legge n. 43 del 17/04/2015).

A ogni periodo sono ascrivibili interventi che interessano la fattispecie criminosa nella sua interezza: elementi costitutivi e accidentali, misure limitative delle libertà individuali e sanzioni premiali, senza contare (in particolare per quanto riguarda le disposizioni più recenti) la sensibilità mostrata dal legislatore alle nuove tecnologie, che se da un lato facilitano il diffondersi del terrorismo in rete, dall’altro potrebbero indurre il decisore politico a instaurare una pericolosa vigilanza protettiva sul web.[3]         

L’introduzione nell’ordinamento penale della “finalità terroristica” si ha col decreto legge 59/1979, emanato nei giorni immediatamente successivi al rapimento di Aldo Moro.  Antecedentemente, l’articolo 270 c.p. del Codice Rocco aveva previsto la reclusione da cinque a dodici anni per “chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza, o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti dello Stato”. Questa disposizione fu un caposaldo del periodo fascista e venne usata per mettere sotto accusa, arrestare, incarcerare e confinare per anni comunisti, socialisti e anarchici.

Un'analisi della norma suggerirebbe che le associazioni finalizzate a imporre la dittatura di una classe sociale fossero un riferimento, appunto, all’ideologia comunista, mentre quelle volte alla soppressione violenta dell’ordinamento si riferissero al pensiero anarchico. La finalità di questa disposizione era di natura chiaramente politica, poiché diretta alla repressione di movimenti sociali di contestazione.[4] 

Il nuovo concetto di “finalità terroristica”, invece, consiste in un intento criminoso diretto a destituire lo Stato, la cui significatività è tale da rendere autonoma la condotta di reato dalla sua iniziale fattispecie di appartenenza. Si veda ad esempio il sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo (art. 289 bis c.p.), il delitto agli attentati di pubblica utilità (art. 420 c.p.) o l’attentato alla vita o alla incolumità di una persona, sempre nelle medesime finalità, (art. 280 c.p.).          

La risposta all’esigenza di tipizzare l’elemento psicologico è stata affrontata solo in un secondo momento, quando il legislatore ha formulato una definizione stipulativa della espressione “condotte con finalità di terrorismo”. Il suo silenzio a riguardo, secondo la dottrina in esame[5], aveva costituito un ostacolo alla separazione dei poteri e alla certezza del diritto, portando la discrezionalità del giudice a espandersi oltre ragionevolezza. Così la finalità terroristica si è risolta nelle definizioni indicate dall’art. 270 sexies cod. pen.[6], introdotto dal decreto-legge n. 144 del 27/7/2005.  

Aver dato sostanza al proposito criminoso, però, non sarebbe sufficiente, se si considera che l’intento criminoso rende illecita una condotta altrimenti lecita o muta la sua qualificazione giuridica, sarebbe stato quantomeno opportuno che il legislatore imponesse la sua deducibilità da circostanze obiettive. Invece, la dottrina afferma che il diritto penale in materia di terrorismo ha ceduto alle tentazioni dell’incriminazione per tipo di autore, così che il giudice sia costretto a desumere l’intento del crimine non da elementi oggettivi, in quanto assenti nel precetto normativo, ma dal modo di essere dell’imputato o dalla sua appartenenza a etnie o fedi religiose: ne consegue che lo stesso fatto possa diventare reato o condotta lecita a seconda di chi la ponga in essere. In tal modo il legislatore avrebbe compiuto due errori.[7]

In primis, avrebbe disatteso il principio costituzionale del divieto di discriminare in base alla razza o alla religione: ricavare il presupposto criminoso non da un fatto, ma dal modo di essere del presunto reo significa trattare le persone in modo diseguale, in contrasto con l’articolo 3 c.1 della Costituzione, andando così a creare due destinatari del precetto penale, ossia la “maggioranza” dei consociati, protetta dalla presunzione di innocenza, e le minoranze, tenute a provare la loro non colpevolezza, visto che il professare una certa fede o appartenere a una certa razza diventa indizio di volontà intenzionalmente diretta a uno scopo terroristico.

Il secondo errore del legislatore sarebbe il fatto che la finalità terroristica, implicita nel comportamento del presunto terrorista, rilevi anche come attributo connotativo della condotta. Si pensi a chi organizza viaggi all’estero per finalità terroristiche, dove il fatto del semplice organizzare si riempie di disvalore giuridico in quanto consapevolmente preordinato a inviare foreign fighters (art. 270 quater-1, D.L. 7/2015) nei territori occupati dall’ISIS. La norma incriminatrice non richiede elementi materiali sicuri da cui desumere l’intenzione criminosa che rimarrebbe dunque affidata all’illimitata discrezionalità del giudice, il quale si baserà sul comportamento e sul modo di essere del sospettato. Va inoltre aggiunto che in tema di terrorismo, il legislatore si sarebbe mostrato poco attento al principio di tassatività del reato (art. 25 Cost.), necessario per garantire al cittadino la possibilità di sapere con precisione quale sia il precetto da rispettare, in modo da poter decidere se adeguarsi ad esso o trasgredirlo; nonché per evitare che l’insufficiente determinatezza del precetto affidi al giudice la qualificazione delle condotte lasciate in bianco dal legislatore.

Gli attentati dell’11 settembre portano il legislatore ad adeguarsi alla nuova emergenza del terrorismo internazionale introducendo nuove figure di reato, nonché nuovi strumenti investigativi che si traducono in forme di controllo delle comunicazioni interpersonali.[8] Si tratta di misure a carattere preventivo che si svolgono a prescindere da un procedimento giudiziario. Ad esempio, viene disposta l’organizzazione di operazioni sotto “copertura” e si ammettono deroghe al segreto d’ufficio. Di particolare rilievo risulta l’art. 3 della legge n. 438 del 18/10/2001 (che ha introdotto il reato di terrorismo internazionale) che ammette la perquisizione di “blocchi di edifici” consentendo contestualmente di porre il divieto di circolazione alle persone e ai veicoli nelle aree interessate. L’art. 5 del medesimo atto normativo estende la possibilità di effettuare intercettazioni preventive (tanto telefoniche quanto telematiche e ambientali) anche nelle ipotesi di reati con finalità di terrorismo. L’autorizzazione per la disposizione di queste operazioni è richiesta al pubblico ministero e non è previsto che tali misure si limitino ai soggetti indagati, essendo ritenute ammissibili ogniqualvolta sia necessario al fine di acquisire notizie riguardanti la prevenzione dei delitti summenzionati. Le disposizioni relative alla facoltà della polizia giudiziaria di effettuare operazioni sotto copertura (art. 4) allo scopo di acquisire elementi probatori relativi ai reati compiuti con finalità di terrorismo sono confluite nell’art. 8 del D.D.L. A.C.N. 6230 (approvato nel 2006) che accorpa in modo organico le disposizioni riguardanti le azioni in incognito. Con tale provvedimento si è espletata la ratifica della Convenzione e dei Protocolli contro la criminalità organizzata internazionale, adottati dall’Assemblea delle Nazioni Unite rispettivamente il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001.

In virtù di questo nuovo quadro normativo vengono effettuate numerose operazioni volte alla prevenzione e al contrasto di attività terroristiche. Tra questi ne è un esempio l’arresto di venti militanti no-global facenti capo all’organizzazione “Rete Sud Ribelle”, per poi essere assolti per prescrizione del reato emessa in appello il 26 maggio 2006.[9] Nell’ordinanza redatta dalla Procura di Cosenza si contesta ai destinatari dei provvedimenti “la volontà di turbare l’esercizio delle funzioni del Governo italiano, rendendo ingestibile l’ordine pubblico durante il Global Forum Ocse di Napoli nel mese di marzo 2001 e il vertice del G8 a Genova nel luglio del 2001, organizzando e provocando scontri di numerosi manifestanti con le forze dell’ordine” nonché persino la creazione di “una vasta e pericolosa associazione sovversiva”, ossia un “blocco meridionale” o “blocco rosso”, che avrebbe agito con metodi violenti assieme ai “black bloc” durante i vertici internazionali dei rappresentanti di Governo degli Stati più industrializzati.

Da segnalare anche la modifica apportata all’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario in materia di carcere duro, in ragione della quale viene estesa l’applicazione di tale regime di detenzione, pensato per gli esponenti più pericolosi della mafia, a terroristi e trafficanti di esseri umani.[10]         
La legge 438/2001 porta ad una nuova formulazione dell’articolo 270 bis c.p., già sottoposto in precedenza a più interventi legislativi. Approvata alla luce della nuova emergenza  del terrorismo internazionale, oltre a prevedere la reclusione da sette a quindici anni per chiunque “promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”, essa (in presenza di casi di “associazione a delinquere” e cospirazione politica”) autorizza le forze dell’ordine a effettuare perquisizioni senza mandato per motivi di particolare necessità e urgenza, nonché ad attuare arresto preventivi di quarantott’ore (più ulteriori quarantotto di libertà vigilata), nel corso dei quali si è privati del diritto di difesa e assistenza legale.[11]

Nella primavera del 2003, in un contesto internazionale segnato dalla situazione afghana e irachena, il Presidente del Consiglio italiano dichiara con decreto lo “stato di emergenza in relazione alla tutela della pubblica incolumità nell’attuale situazione internazionale”.[12] Lo stesso giorno viene approvata l’ordinanza n. 3275 che, in virtù della legge n. 225/1992, prevede “disposizioni urgenti di protezione civile”. Già nel ’92 erano stati sollevati dubbi[13]sulla costituzionalità della figura del commissario per l’emergenza, legittimato ad agire in deroga alle leggi vigenti; i provvedimenti del marzo 2003 sollevano questioni afferenti ai requisiti di motivazione, delimitazione temporale e proporzionalità, considerati indispensabili dalla giurisprudenza costituzionale nei casi di emergenza.[14] Nonostante l’art. 5 della legge 225/1992 imponga di segnalare con precisione la “natura” e la “qualità” delle situazioni che devono essere collegate alla portata e alla durata temporale delle misure adottate[15], in tale occasione il Governo si limita ad addurre a giustificazione della dichiarazione d’emergenza il fatto che la situazione diffusa di crisi internazionale determinata dal conflitto bellico in Iraq comporti profili di maggiore gravità dei rischi per l’incolumità pubblica e privata.          

Gli attentati di Londra del 7 luglio 2005, nonché le intimidazioni rivolte al Governo italiano dai terroristi islamici, portano ad un nuovo intervento dell’Esecutivo: viene emesso un decreto legge che introduce misure di sicurezza contro il terrorismo, rafforzando gli strumenti già presenti nell’ordinamento e potenziando i meccanismi di controllo e indagine.[16] Il “Pacchetto Pisanu” viene convertito in legge il 30 luglio 2005[17]: si compone di 19 articoli e si concentra sulla sfera della riservatezza e sulle situazioni giuridiche soggettive degli stranieri e degli immigrati, andando così ad incidere particolarmente sulla libertà di movimento, di privacy e di trattamento dei propri dati. Infatti, vengono  introdotte nuove regole sull’immigrazione, le quali prevedono il rilascio di permessi di soggiorno per scopi di natura investigativa nel caso in cui, nel corso di operazioni di polizia o di indagini o di un procedimento relativi a delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, vi sia esigenza di garantire la permanenza nel territorio dello Stato dello straniero che si sia offerto di collaborare con l’autorità giudiziaria o con organi di polizia. È prevista la possibilità, per il prefetto, di disporre l’espulsione amministrativa immediata di un soggetto per motivi collegati a esigenze di prevenzione del terrorismo interno e internazionale. L’espulsione può essere revocata o sospesa nel caso in cui si renda necessario acquisire notizie utili per evitare la realizzazione di attività terroristiche.

Inoltre, si prevedono nuove e rilevanti prerogative che ampliano la possibilità di azione dei servizi di intelligence e si estende la possibilità di effettuare intercettazioni preventive. Vengono, inoltre, istituite unità di polizia giudiziaria “interforze” specializzate, simili a quelle adottate per i sequestri di persona, appositamente create per le indagini in materia di terrorismo.[18] Viene, inoltre, disposta la conservazione di dati essenziali relativi alle comunicazioni telefoniche e telematiche e le misure amministrative utili e necessarie per assicurare il controllo di luoghi o attività sensibili per l’esercizio di attività terroristiche (ad esempio gli internet point), le attività di volo e quelle inerenti in qualsiasi modo agli esplosivi.

[19]In questo contesto si inseriscono anche le attività di stretto controllo per armi ed esplosivi e le sanzioni relative all’indebito addestramento finalizzato alla costruzione o all’uso di esplosivi. Vengono inoltre incrementati i controlli di sicurezza relativi allo svolgimento di attività aeronautiche.[20 ]Viene inoltre prevista una procedura di identificazione per chiunque acquisti tessere telefoniche prepagate, nonché un particolare regime di autorizzazioni per gli esercizi pubblici che offrono servizi di comunicazione e telematici. La durata dell’accompagnamento per l’identificazione di persone sospette viene estesa fino a ventiquattro ore nei casi più complicati. Vengono aggiornate anche le regole relative alle procedure di fermo e arresto e all’identificazione delle persone sospettate: è ad esempio stabilita la possibilità di effettuare accertamenti biologici “a basso livello di intensività”, attraverso il prelievo di piccoli campioni di DNA utili al fine di individuare con certezza gli individui soggetti a indagine. Il dettato dell’articolo 497 bis c.p. viene modificato così da sanzionare il possesso e la fabbricazione di documenti falsi con la reclusione da uno a quattro anni, con pena aumentata da un terzo alla metà per chi produce materialmente o firma il documento falso. Infine, degna di nota è l’introduzione del quarto comma dell’articolo 414 c.p., secondo il quale nel caso in cui le attività di istigazione o apologia previste dall’articolo stesso riguardino delitti terrorismo o crimini contro l’umanità, la pena sarà aumentata della metà.[21]         

Secondo alcuna dottrina[22], questa normativa antiterrorismo si presenta come meno invasiva rispetto a quella introdotta in altri Paesi come gli Stati Uniti, il Canada o il Regno Unito. Tuttavia, alcuni interventi sembrerebbero volte più a inasprire la disciplina dell’immigrazione e a realizzare un monitoraggio delle comunicazioni interpersonali che si svolgono quotidianamente nel Paese al fine di cogliere elementi utili per il perseguimento e la sanzione di attività criminose che (nella maggioranza dei casi) hanno poco a che fare col terrorismo. Parziale conferma di tale tendenza sarebbe il decreto-legge 181/2007 (c.d. “decreto sicurezza”), emesso in seguito all’episodio di violenza perpetrata da un cittadino romeno contro la quarantacinquenne Giovanna Reggiani, nel quartiere romano di Tor di Quinto.

Il decreto-legge in parola, imponendo l’espulsione immediata dei cittadini comunitari responsabili di crimini ritenuti gravi, è oggetto di critiche trasversali, simbolo di un conflitto politico e giuridico mai risolto tra libertà e sicurezza. Ne consegue la decisione di non convertire il decreto in legge, preferendosi ideare un testo ex novo. Il nuovo provvedimento[23]introduce la novità della espulsione immediata dei cittadini comunitari non solo per motivi di pubblica sicurezza, ma anche al fine di prevenire il terrorismo. Si tratta, di fatto, di una proroga al decreto Pisanu, la cui disciplina transitoria scade proprio nel 2007. In particolare, questa nuova disciplina apporta alcune modifiche al decreto legge 27 luglio 2005 n. 144: il comma 2 viene sostituito in modo da prevedere che il decreto di espulsione sia immediatamente esecutivo anche qualora sia sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato, e che l’esecuzione del provvedimento sia disposta dal questore e sottoposta a convalida da parte del tribunale in composizione monocratica secondo quanto disposto dall’art. 13, comma 5 bis, del decreto legislativo n. 286 del 1998.[24]      

Degna di nota è inoltre la posizione assunta dalla Corte Costituzionale in merito all’espulsione degli stranieri emessa per motivi di pubblica sicurezza.[25]Qui la Corte chiarisce il rapporto tra norme antiterrorismo, legislazione in materia di immigrazione e diritto di eguaglianza[26], sostenendo la legittimità delle misure straordinarie introdotte per garantire la pubblica sicurezza.

Nel caso in esame, il ricorrente chiedeva l’annullamento del decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno sulla base di un suo presunto coinvolgimento in un gruppo fondamentalista islamico connesso alla rete del terrorismo internazionale: fatto che rendeva la permanenza dell’imputato sul suolo italiano pericolosa per la sicurezza nazionale. L’appellante contestava il contrasto di alcune disposizioni della legge n. 155/2005 con gli artt. 3, 25 e 113 della Costituzione, riguardanti il diritto di uguaglianza e i diversi profili del giusto processo. La difesa riteneva che il provvedimento di espulsione dovesse essere sospeso fino a che non fosse stato possibile analizzare gli elementi sulla cui base il decreto era stato emesso, ossia prove coperte dal segreto di Stato per ragioni di sicurezza.[27]L’Avvocato di Stato affermava invece che le norme antiterrorismo contestate fossero perfettamente coerenti con la Costituzione: infatti l’articolo 10 della suddetta prevede l’adeguamento dell’ordinamento giuridico interno con il diritto internazionale, il quale dispone in capo a ogni Stato il diritto di espellere stranieri giudicati pericolosi per la sicurezza nazionale.

Il Giudice delle leggi sposa quest’ultima posizione, rigettando il ricorso e confermando la costituzionalità della legislazione antiterrorismo italiana.[28]         

2. Il caso Abu Omar: cenni sul concetto di extraordinary rendition.

Come è stato più volte affermato anche nei precedenti articoli[29], la dimensione nazionale della lotta al terrorismo si interconnette inevitabilmente con una dimensione, ben più ampia, costituita da rapporti di cooperazione tra più nazioni.

Questo livello internazionale è spesso almeno in parte avvolto nel mistero[30], ma i suoi effetti sull’ordinamento giuridico e sugli equilibri di potere interni al nostro Paese hanno talvolta avuto un certo risalto mediatico. Ne è un esempio la vicenda dell’imam di Milano, Hassan Mustafa Osama Nasr (meglio noto come Abu Omar). Indagato dalla procura di Milano per il sospetto di essere coinvolto in organizzazioni terroristiche islamiche, il 17 febbraio del 2003 viene prelevato di fronte alla sua abitazione milanese, trasportato alla base militare di Aviano per poi essere trasferito in Egitto, dove viene detenuto e sottoposto a torture. Il caso Abu Omar è un tipico esempio di extraordinary rendition attuata dai servizi segreti statunitensi.[31]

Essa consiste nella cattura di un sospetto terrorista in un territorio esterno agli Stati Uniti, o comunque da un campo di battaglia riconosciuto come l’Afghanistan o l’Iraq, e il suo trasferimento forzato in un altro Paese al fine di essere interrogato e spesso torturato.[32]

È stato puntualizzato[33]che “extraordinary rendition” è una definizione errata, dato che nel diritto internazionale “rendition” indica il possibile risultato di una regolare procedura di estradizione attuata contro una persona accusata di un crimine, con tutte le garanzie di un due process of law. Ciò rappresenta esattamente quanto le extraordinary rendition non sono: la dottrina in parola non esita a definire il termine un eufemismo per “rapimento”, “sequestro” o “sparizione forzata”.

Sarebbero identificabili almeno tre tipi[34] di extraordinary rendition: il rimpatrio forzato di una persona verso il suo Paese di nazionalità e conseguente detenzione in tale luogo (come nel caso in esame); il trasferimento verso un Paese fuori dalla giurisdizione statunitense e di cui il soggetto non ha nazionalità; il trasferimento di una persona in un territorio posto al di fuori del territorio statunitense, ma su cui gli USA hanno giurisdizione, ad esempio le prigioni segrete della CIA in Europa dell’Est o la famigerata base di Guantánamo, situata sul territorio cubano, ma posta sotto giurisdizione degli Stati Uniti. La questione dei detenuti di Guantánamo e degli enemy aliens in generale, nonché della giurisdizione statunitense sul suo territorio, sarà affrontata nel dettaglio nei prossimi articoli sul tema della tutela dei diritti nella lotta al terrorismo.        

Abu Omar viene rilasciato una prima volta dopo un anno e denunciava le violenze sofferte; viene nuovamente arrestato in circostanze poco chiare e liberato definitivamente nel febbraio 2007. Nel 2006, la procura di Milano apre un’inchiesta cui segue il rinvio a giudizio di ventisei agenti della CIA, nonché di esponenti di vertice dei servizi segreti italiani, tra cui il direttore del Sismi Niccolò Pollari.[35]Si apre uno scontro tra poteri che ovviamente vede contrapporsi la tutela dei diritti individuali e le esigenze di pubblica sicurezza; il culmine si aggiunge con l’intervento della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi relativamente a cinque conflitti di attribuzione tra Poteri dello Stato, ossia tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e le diverse autorità giudiziarie coinvolte nella vicenda (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano; Giudice delle indagini preliminari e giudice monocratico della IV sezione penale del Tribunale di Milano).[36]

Oggetto principale del conflitto è il segreto di Stato che, secondo il Governo Italiano, è stato violato nel corso delle indagini da parte della magistratura milanese sul sequestro. La pronuncia della Corte arriva nel marzo del 2009: vengono in parte accolte le istanze governative e cassati i ricorsi della magistratura.[37]In particolare, viene accolto in parte il ricorso presentato nel 2007 dall’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, che accusa i procuratori Pomarici e Spataro di aver violato a più riprese il segreto di Stato nell’espletamento delle indagini su Abu Omar, “bruciando” la copertura di agenti e strutture dei servizi italiani. Infatti, non spettava alle autorità giudiziarie porre a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio, nonché del decreto che dispone il giudizio, i documenti acquisiti attraverso la perquisizione effettuata il 5 luglio 2006 e successivamente inviati all’autorità giudiziaria, con parziali omissioni dei dati coperti da segreto di Stato; né potevano le suddette autorità impiegare come fondamento la richiesta di svolgimento dell’incidente probatorio e con essa tanto l’ordinanza che lo aveva disposto quanto il relativo verbale di acquisizione della prova del 30 settembre 2006.

Contestualmente, la procura di Milano viene accusata di aver violato le prerogative di secretazione del Governo anche con l’acquisizione di documenti informativi riguardanti l’identità di ottantacinque membri del Sismi; con l’intercettazione delle utenze cellulari in loro uso e l’acquisizione di elementi relativi alla struttura e alle logiche di funzionamento del Sismi, non direttamente interessanti l’indagine sul sequestro ma afferenti i rapporti con agenti stranieri.[38]     

Il primo grado del processo si conclude il 4 novembre 2009, con l’emissione da parte del Tribunale di Milano di una sentenza di condanna nei confronti di ventitré agenti della CIA, tra cui Robert Seldon Lady (capocentro della CIA a Milano) e i due funzionari del Sismi Pio Pompa e Luciano Seno, entrambi accusati di favoreggiamento. Viene invece riconosciuta l’immunità consolare all’ex capo della CIA in Italia, Castelli, e ad altri due agenti. Per Pollari e l’ex funzionario di stato del Sismi Marco Mancini, viene dichiarato il non luogo a procedere in quanto non giudicabili per via del segreto di Stato. Tutti i colpevoli sono stati condannati a pagare un risarcimento pari a un milione di euro ad Abu Omar; è stata inoltre disposta una provvisionale di 500.000 euro a favore di sua moglie.[39]

In merito al processo, il Procuratore Spataro ha affermato: “La verità dei fatti è quella ricostruita dalla Digos e dalla procura di Milano nel corso delle indagini. Sono stati condannati tutti gli autori americani del sequestro di Abu Omar. Quanto agli ex funzionari del Sismi, la sentenza dimostra che c’erano gli elementi per incriminarli.[40]

3. Il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano. Un lungo calvario con un esito deludente?

Il caso Abu Omar ricade, seppur indirettamente, nell’ambito del rapporto tra l’ordinamento italiano e il fenomeno della tortura. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984 è in vigore per la Repubblica italiana dall’ 11 febbraio 1989, in seguito al deposito dello strumento di ratifica nel 12 gennaio dello stesso anno. La ratifica era stata preceduta dalla legge di autorizzazione del 3 novembre 1988 n. 498, la quale conteneva l’ordine di esecuzione per le norme già esaustive e pertanto direttamente introdotte nell’ordinamento nazionale[41].

L’ordine di esecuzione era peraltro insufficiente al rispetto dell’obbligo convenzionale, nonché del nucleo essenziale della Convenzione. Questo tanto perché veniva attribuito al divieto di tortura natura di norma consuetudinaria (anche così interpretando il divieto occorrerebbe pur sempre operare un adattamento ordinario che si traduca per l’ordinamento italiano nella previsione del reato specifico di tortura), quanto per il fatto che il combinato disposto degli articoli 1 e 4 della Convenzione stessa obbliga gli Stati a legiferare affinché qualsiasi atto di tortura (così come il tentativo di praticarla o qualunque complicità o partecipazione a tale atto) sia espressamente e immediatamente contemplato come “reato nel diritto penale interno” e in conformità alla definizione di tortura prevista all’art. 1 della Convenzione. Per giunta, il secondo paragrafo dell’art. 4 della Convenzione in esame prevede l’obbligo per ogni Stato parte di stabilire per il reato in questione pene adeguate in considerazione della sua gravità.[42]

L’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento del nostro Paese ha avuto una storia lunga e caratterizzata da molteplici tentativi effettuati tramite disegni di legge, finalizzati all’adattamento alla Convenzione. Infatti, Come si legge nella Relazione ad uno di questi progetti (n. 1483/S), non si potevano ritenere sufficienti per il rispetto dell’obbligo internazionalmente assunto gli artt. 606 (arresto illegale), 607 (indebita limitazione di libertà personale), 608 (abuso di autorità contro arrestati o detenuti), 609 (perquisizione e ispezione personali arbitrarie) del Codice Penale; mentre nel reato di percosse e di lesioni personali manca la specificità dell’elemento soggettivo tipico della tortura.

La proposta di legge prevedeva dunque l’introduzione di un art. 593 bis del seguente tenore: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di fare pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale. È raddoppiata se ne deriva la morte. Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente”.

Inoltre, il 28 luglio del 2000 il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge recante “Norme in materia di tortura ed altri trattamenti crudeli, disumani e degradanti”, il quale in realtà era finalizzato non all’introduzione del reato specifico di tortura, quanto piuttosto alla previsione di aggravanti per delitti non colposi contro la persona. Pertanto, l’obbligo previsto dalla Convenzione di prevedere uno specifico reato di tortura non sarebbe stato soddisfatto.

In qualsiasi caso, la ripresa nell’aprile del 2004 di un dibattito in aula per l’approvazione di quella proposta di legge n. 1438, ormai risalente al 1999, fece riemergere l’orientamento secondo il quale la tortura necessiti di essere reiterata per configurarsi, nonostante l’articolo 1 della Convenzione non faccia menzione di questo elemento. Ciò ha portato alla sospensione del dibattito e alla riassegnazione della proposta di legge alla Commissione II Giustizia il 27 aprile 2004.[43]        
Per quanto concerne i trattamenti crudeli, disumani o degradanti, essi sono contemplati dall’articolo 16 della Convenzione in esame, che li considera concettualmente distinti dalla tortura pur non imponendo agli Stati firmatari l’obbligo di prevedere una norma ad hoc al fine di vietarli. Ciò non osterebbe comunque alla determinazione di un obbligo per il nostro ordinamento, essendo la Convenzione self executing per quanto riguarda l’imposizione del divieto di tali atti.[44]     

L’inserimento nell’ordinamento italiano di norme che puniscano direttamente e specificamente la tortura e i trattamenti inumani o degradanti si è avuto, a quasi 30 anni dalla ratifica della Convenzione, soltanto con la legge 110/2017, “Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”: essa ha introdotto nel Codice Penale gli articoli  613 bis (Tortura) e 613 ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). È stato osservato[45]che i lavori parlamentari sulla legge in parola avevano subìto una accelerazione per via delle due sentenze della Corte EDU Cestaro v. Italia e Bartesaghi, Gallo et al. v. Italia, relative alle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz di Genova nel 2001.[46

Queste pronunce hanno contribuito a porre lo Stato italiano nella condizione di non poter più indugiare sull’argomento e ad adeguarsi ai suoi obblighi internazionali. Ciononostante, non sono mancate le critiche alla formulazione del reato di tortura, giudicata profondamente divergente da quella prevista dalla Convenzione da alcuni osservatori come il Presidente della Commissione per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa.[47]

La dottrina48] ha definito “a disvalore progressivo” la nozione di tortura accolta dall’articolo 613 bis c. p., posto che il legislatore ha inglobato nel nuovo reato sia il fenomeno della tortura comune, commissibile da chiunque, sia quello della c.d. “Tortura di Stato”, collocata -  discutibilmente -  nel secondo comma della medesima disposizione. Il primo comma punisce con la reclusione da quattro a dieci anni chiunque, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che comunque si trovi in condizioni di minorata difesa, ma solo se il fatto è commesso con più condotte o se lo stesso può definirsi trattamento inumano e degradante.   

Il riferimento alla persona offesa come colui che è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di quest’ultimo impongono l’accertamento della sussistenza di un rapporto qualificato, quale elemento implicito e idoneo ad imporre obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della vittima.   
La locuzione “privato della libertà personale”, invece, sembrerebbe riferirsi all’obbligo costituzionale sancito dall’art. 13 co. 4 Cost., relativo all’habeas corpus e quindi alla limitazione della libertà in forza di un provvedimento giurisdizionale.        
Lascia invece perplessi l’espressione “minorata difesa” per via dei suoi contorni sfumati che potrebbero lasciare spazio alla discrezionalità del giudice. Si tratta di una locuzione già conosciuta nel diritto penale, ma solo come circostanza del reato in grado di incidere sulla quantificazione della pena in virtù di caratteristiche personali dell’offeso, e mai sull’an della responsabilità penale.[49] Una diversa configurazione giuridica del fatto, a seconda che lo esso venga commesso a danno di un giovane privo di particolari “debolezze” psico-fisiche o di un soggetto più anziano e malandato, sarebbe quantomeno in violazione dell’art. 3 Cost.,  dato che le pratiche di tortura debbono venire condannate in termini assoluti, in ragione delle caratteristiche obiettive della condotta.[50]

Il secondo comma, invece, punisce la tortura perpetrata da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio che, abusando delle proprie prerogative, contravvengono agli obblighi istituzionali connessi alla funzione. La vera lacuna di tutela rintracciabile nel nostro ordinamento penale riguardava proprio questo tipo di tortura, intesa come tortura giudiziaria, punitiva o discriminatoria: si tratta di ipotesi esplicitamente censurate dalla Convenzione del 1948, il cui articolo 1 non solo fa riferimento, sul versante soggettivo, al “public official or other person acting in an official capacity” ma richiede la presenza del dolo specifico di estorcere una confessione, punire qualcuno per un fatto commesso o che si ha il sospetto che abbia commesso, oppure di perseguire una finalità discriminatoria.[51]

La dottrina in parola ha definito pregevole la descrizione della condotta nella parte in cui aggiunge il requisito dell’abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti la funzione, poiché tiene conto del fatto che i pubblici agenti sono legittimati all’utilizzo della forza, se proporzionata e necessaria per l’espletamento delle proprie funzioni.[ 52]   
La dottrina si è anche interrogata sul senso, per niente chiaro, dell’inciso al comma 3 dell’articolo 613 bis c.p.: “il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti”.

È stato evidenziato come le sofferenze in questione non corrispondano alle “acute sofferenze fisiche” e “verificabile trauma psichico”, quali eventi alternativi descritti dal primo comma dell’articolo di cui sopra: al contrario, costituirebbero un quid minus che potrebbe avere il paradossale effetto di qualificare la detenzione stessa come tortura. Volendo ascrivere un qualche significato alla frase in questione, si è proposto di considerarla elemento sintomatico a favore della ricostruzione dei fatti commessi dal soggetto qualificato in chiave di fattispecie autonoma di reato.[53]  

Non sono mancate critiche[54] anche al modo in cui è stata formulata la descrizione della condotta, dato che il legislatore – forse in cerca di una soluzione di compromesso e comunque fuorviato da un’apparente scarsa conoscenza delle varie forme di tortura – ha caratterizzato la reiterazione delle condotte come requisito modale espresso, così da fare configurare la fattispecie di cui all’art. 613 bis c.p. come reato abituale.   
Allo stesso modo, risulta infelice l’inserimento della proposizione “se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona” nell’articolo 613 bis, così da configurare i trattamenti inumani e degradanti non come fattispecie di reato a sé stante, ma come modalità alternativa della condotta di cui all’articolo in questione, nonostante quanto già detto sugli obblighi derivanti dalla Convenzione. Per giunta, questa scelta impone all’interprete di effettuare giudizi di valore che dovrebbero essere appannaggio esclusivo del legislatore.[55]       

Come già accennato, il legislatore ha deciso di non attenersi alla formulazione indicata dall’articolo 1 della Convenzione, il quale fornisce una definizione di tortura connotata dalla presenza dell’avverbio “intenzionalmente”, oltre che da un requisito finalistico della condotta consistente nell’agire con l’obiettivo di ottenere informazioni o confessioni, di punire la vittima colpevole o sospettata di un determinato comportamento, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o su un terzo, ovvero per qualunque altro motivo di discriminazione. Dal testo del disegno di legge è stata infatti rimossa non solo la previsione del dolo specifico, ma anche il termine “intenzionalmente”, valutato invece con favore da una parte della dottrina, che lo riteneva elemento forte di tipizzazione, idoneo a distinguere deliberate pratiche di tortura da semplici lesioni, minacce o violenza privata, anche se letto in chiave strumentale per raggiungere fini ulteriori.

Altra dottrina[56]invece ritiene che la sua assenza possa costituire un dato positivo relativamente ai casi in cui le torture vengano commesse con tecniche che non lasciano tracce evidenti sul corpo o comunque in assenza di testimoni, così da rendere difficile raccogliere prove sufficienti, per dimostrare tale elemento psicologico. La stessa contesta, però, l’eliminazione del dolo specifico, soprattutto se si tratta di punire l’abuso o comunque l’uso distorto dei poteri da parte del pubblico ufficiale. Infatti,57] in tali casi la finalità sarebbe coessenziale al fatto, dato che la tortura risiederebbe proprio nei rapporti tra autorità e cittadini, a simbolo della distorsione con cui si esercita un potere connesso proprio alla funzione.        

In definitiva, la dottrina qui esaminata asserisce che [d]opo quasi 30 anni di gestazione ci si poteva aspettare di più dal nostro legislatore, ma senza dubbio le intense pressioni internazionali, soprattutto a seguito delle pronunce della Corte EDU, nonché l’ansia di trovare compromessi con le opposte forze politiche, hanno inciso sulla qualità della legislazione.” Ciò che rappresenta però un vero paradosso – prosegue la dottrina – è il fatto che le disposizioni ora esaminate, nonostante la loro elaborazione sia stata spinta e influenzata dagli eventi della scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, sarebbero inapplicabili a quegli stessi comportamenti.

L’ansia di “criminalizzazione ad ampio raggio” che ha mosso il Legislativo ha finito per consegnarci una legge costellata di lacune nella determinatezza, le quali finiscono per costringere il giudice a scelte valoriali definitorie dei contenuti dell’articolo 613 bis c.p. [58]

4. La più recente legislazione in tema di terrorismo e il suo impatto sulle garanzie processuali e il diritto alla privacy.

Oltre alla legge sul delitto di tortura (non specificamente prevista nell’ottica della lotta al terrorismo, ma indubbiamente destinata a riguardarla, vista la tendenza degli Stati democratici ad affrontarla riducendo e relativizzando tutti i diritti e le garanzie fondamentali) negli ultimi due anni sono state approvate misure emergenziali che hanno modificato gli strumenti con cui il nostro Paese combatte o previene fenomeno del terrorismo islamista globale, incarnato oggi dallo Stato Islamico.

Infatti, la legge di conversione al decreto delle 7/2015, recante “misure urgenti per il contrasto al terrorismo […]”, approvata definitivamente con voto di fiducia al Senato il 15 aprile 2015, interviene su più fronti[59]: aggiunge figure delittuose o aggravanti a quelle già conosciute, ripropone il modello della black list con la variante della rilettura giudiziaria e introduce una disciplina derogatoria alla legge sulla privacy in alcune circostanze.

Tali nuovi reati sono stati ampiamente trattati nel primo articolo di questo ciclo sulla tutela dei diritti nella lotta al terrorismo[60], pertanto ci si limita ad aggiungere che il decreto in esame introduce l’aggravante speciale della circostanza che il reato sia commesso con l’uso di strumenti informatici o telematici, omettendo ancora una volta – secondo la dottrina in esame – l’accertamento in concreto se l’effettivo aumento della pericolosità della condotta sia dipeso o meno dall’uso della rete. Questo indurrebbe a ritenere che il legislatore abbia valutato come disvalore sociale il semplice uso di Internet, a prescindere dal suo intento criminoso, il che accosta l’aggravante ai reati di pericolo presunto.

Un aspetto interessante del decreto in esame è la disposizione che prevede la compilazione di black list per i siti “in odore” di terrorismo, riproponendo lo schema già usato per la pedopornografia. In quest’ultimo caso, però, la redazione delle liste era affidata alla discrezionalità insindacabile del Ministero degli Interni: queste venivano poi trasmesse agli internet service providers (ISP) affinché fossero rese esecutive, pur in assenza di un preventivo vaglio giudiziario.

A differenza che nella legge sulla pedopornorafia, l’articolo 2 del D.L. in esame prevede la necessaria intermediazione di un giudice che, secondo la dottrina[61], avrebbe in realtà un ruolo ben poco valorizzato, al punto che si potrebbe dubitare di una sua effettiva verifica sulla attendibilità della lista. Dovrebbe infatti essere la Costituzione a imporre al giudice di attivarsi in ragione del fatto che la materia della libertà di manifestazione del pensiero è coperta da riserva di giurisdizione, il cui rispetto sostanziale esige che l’atto concretamente impositivo dei limiti alla libertà competa a un organo del potere giudiziario. Un atto può dirsi imputato a un soggetto quando questi ne possa decidere il contenuto sostanziale, non essendo sufficiente che l’autore si limiti alla mera verifica della sua legittimità estrinseca e formale. Senza contare che il rispetto sostanziale della riserva avrebbe imposto al legislatore di conversione di attribuire un termine congruo al giudice, in modo da consentirgli una rilettura ponderata della lista.

Altra dottrina[62]ha sostenuto che imporre agli ISP solo la rimozione dei contenuti di illeciti già individuati come tali lascerebbe impunite condotte atipiche, ma comunque idonee a diffondere il “panico collettivo”. In risposta[63], è stato detto che affidare ai privati (tali sono gli ISP) il compito di accertare nuovi illeciti avrebbe significato violare la natura costituzionalmente pubblica della funzione giurisdizionale.       

Altro ambito toccato dal decreto in parola è la tutela della privacy. In questo caso, il vizio di legittimità deriverebbe in un rispetto solo apparente della gerarchia delle fonti, sostanzialmente disattesa dal decreto.[64]Infatti, l’art. 7 del decreto riscrive l’art. 53 del codice della privacy (decreto legislativo 196/2003)[65]. La disposizione introduce un’ipotesi di delegificazione atipica. Il tipo di atto delegificato non è infatti un regolamento del Governo, ma un decreto del Ministero degli Interni. L’istituto giuridico più vicino sarebbe dunque la delegificazione, anche se in difformità dal modello tipico di cui è esempio l’art. 17 c. 2, legge n. 400/1988.

Il decreto, in sostanza, ricorre alla delegificazione per regolare la materia della privacy (coperta da riserva di legge relativa) a vantaggio di alcuni soggetti e in vista dell’espletamento di determinate funzioni. L’art. 7, in particolare, aprirebbe a una delegificazione in favore di un decreto ministeriale, cioè di un atto di terzo grado nella gerarchia delle fonti. In tal modo si annacquerebbe il principio di gerarchia perché l’effetto abrogativo delle norme primarie verrebbe fatto dipendere dall’entrata in vigore di un atto monocratico, privo delle garanzie di legittimità proprie dell’atto collegiale di Governo.[66]

Per quanto invece riguarda il contenuto della deroga, la dottrina in esame sostiene che la sequenza di norme – peraltro meramente riproduttiva del previgente articolo 53 D. Lgs. n. 196/03 – difficilmente passerebbe un test di costituzionalità relativamente alla conformità con principi di proporzionalità e necessarietà. Infatti, da un lato queste norme comprimono fortemente il bene protetto; dall’altro, il sicuro danno alla privacy non è sufficientemente compensato da un sicuro vantaggio alla sicurezza. Infatti, i principi generali in tema di dati esigono che essi vengano trattati per il tempo necessario all’esercizio della funzione e nei limiti della stretta pertinenza alla funzione stessa.

Il decreto in esame[67]ignora una regola basilare nel momento in cui accomuna funzioni che sarebbe stato opportuno lasciare distinte. Infatti, una cosa è la fase delle indagini che, se privata della segretezza, non porterebbe ad alcun esito; un’altra è quella accertativa giudiziaria – seppur in prevenzione – la quale già vede attenuato il segreto a vantaggio della trasparenza istruttoria e processuale. Completamente diverso è poi il momento repressivo, ormai non più assistito dalle garanzie delle due fasi precedenti. Questo punto avrebbe dovuto essere rivisto in sede di conversione alla luce dei principi di pertinenza del dato alla funzione, ex art. 11 d. lgs. 196/2003.

La dottrina critica anche l’argomento “comunitario” per cui la disciplina del novellato art. 53 sarebbe conforme alla Direttiva n. 1995/46, il cui articolo 13 faceva riferimento ad una “facoltà” degli Stati di adottare disposizioni legislative atte a limitare la portata degli obblighi e dei diritti previsti dall’art. 6 della Direttiva in questione qualora ciò fosse stato necessario per la sicurezza dello Stato. Tale disposizione, commenta la dottrina[68], stabiliva una facoltà per lo Stato, anziché un obbligo; inoltre l’art. 53 del decreto azzera del tutto gli obblighi posti in difesa dei titolari dei dati: insomma usa la facoltà accordata alla Direttiva non per mediare tra sicurezza e privacy ma per spostare il bilanciamento completamente verso la sicurezza.

Pertanto, sarebbe stato necessario prevedere che l’esonero dell’osservanza delle norme riguardasse solo il periodo strettamente necessario alle indagini, mentre per fase accertativa e repressiva del reato andavano mantenute le norme del regime ordinario.

5. Conclusioni

Il presente articolo ci ha dato modo di osservare alcuni esempi del "peso" che la legislazione sulla lotta al terrorismo, sia passata che recente, ha esercitato ed esercita sulla tenuta dei diritti fondamentali nell'ordinamento giuridico del nostro Paese. Come abbiamo visto, all’interno della dottrina non sono mancate voci critiche nei confronti della evoluzione in senso via via più repressivo che l’ordinamento italiano ha conosciuto nella lotta all’emergenza terroristica. Ciononostante, il legislatore e - in alcuni casi - la giurisprudenza perseguono nella tendenza alla retrocessione del momento punitivo e nell’allentamento delle garanzie processuali per determinate condotte.

Nei prossimi articoli sul tema della tutela dei diritti fondamentali nella lotta al terrorismo internazionale, avremo modo di analizzare il tema dell'emergenza (terroristica e non solo) come affrontato dalle Costituzioni di altre due nazioni: la Francia e gli Stati Uniti d'America. Saranno così evidenziate le vistose differenze tra questi ordinamenti e quello del nostro Paese, con la contestuale occasione di indagare le deroghe ai diritti fondamentali che la legislazione antiterrorismo vi ha imposto. 

Note e riferimenti bibliografici

[1] L. Mariani, Emergenza e legislazione emergenziale nel silenzio delle norme costituzionali italiane, in Riv. Cammino Dirit., 3,19.

[2] G. De Minico, op. cit., pp. 169-ss.

[3] G. De Minico, op. cit., p. 170.

[4] C. Bassu, op. cit., pp. 136, 136 nota 92, 137.

[5] G. De Minico, op. cit., p. 171.

[6] Per una analisi dettagliata del contenuto di questo articolo, si rimanda a quanto già detto in L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima), in Riv. Cammino Dirit., 1, 19, para. 3.

[7] G. De Minico, Costituzione, Emergenza e Terrorismo, Jovene, 2016, pp. 172-175.

[8] C. Bassu, Terrorismo e Costituzioni: Percorsi Comparati, G. Giappichelli Editore, Torino 2010, p. 140.

[9] C. Bassu, op. cit., p. 141.

[10] M. Ruotolo, Quando l’emergenza diventa quotidiana. Commento alle modifiche agli artt. 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario, in Studium Iuris, n. 4, 2003, pp. 417-428.

[11] C. Bassu, op. cit., pag. 138.

[12] In Gazzetta Ufficiale del 29/03/2003.

[13] C. Bassu, op. cit., pp. 141-142.

[14] Ad es. sentenze nn. 8/1956 e 127/1995.

[15] U. Rescigno, Sviluppi e problemi nuovi in materia di ordinanze di necessità e urgenza e altre questioni in materia di protezione civile alla luce della sentenza n. 127 del 1995 della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale, 1995, pp. 2185-ss.

[16] D.L. 27 luglio 2005, n. 144, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale.

[17] Legge 31 luglio 2005, n. 155, in Gazzetta Ufficiale, 1/08/2005, n. 177.

[18] Art. 5, legge n. 155/2006.

[19] C. Bassu, op. cit., p. 143.

[20]Artt. 6, 7, 7 bis, 8, 9 bis legge n.155/2005.

[21] C. Bassu, op. cit., p. 144.

[22] C. Bassu, op. cit., p. 145.

[23] D.L. n. 249/2007, “misure urgenti in materia di espulsioni e di allontanamenti per terrorismo e per motivi imperanti di pubblica sicurezza”, in Gazzetta Ufficiale del 2 gennaio 2008, n. 1.

[24] C. Bassu, op. cit., p. 145, nota n. 118.

[25] Sent. n. 432/2007.

[26] C. Bassu, op. cit., pp. 146-147.

[27] A. Morrone, Il nomos del segreto di Stato tra politica e Costituzione, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2009, consultabile sul sito di Forum Costituzionale

[28] C. Bassu, op. cit., p. 146.

[29] Si vedano le strategie adottate dalla Comunità Internazionale per combattere il fenomeno – anche in relazione alla figura dei foreign fighters - nonché l’impatto della giurisprudenza dei tribunali internazionali sulla definizione di terrorismo in L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima) ed L. Mariani Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte seconda), entrambi in Riv. Cammino Dirit., 1, 19.

[30] V. nota 22.

[31] S. M. Millar, Extraordinary Rendition, Extraordinary Mistake. United State Policy on Torture and Antiterrorism Measures, in Foreign Policy in Focus, 2008.

[32] F. Messineo, ‘Extraordinary Renditions’ and State obligations to Criminalize and Prosecute Torture in the Light of the Abu Omar Case in Italy, in Journal of International Criminal Justice, n. 5, 2009, p. 1024.

[33] F. Messineo, op. cit., p. 1024 nota 6.

[34] F. Messineo, op. cit., p. 1025.

[35] Rapporto di Amnesty International Italia, Abu Omar: ruolo e responsabilità dell’Italia.

[36] Ricorsi alla Corte Costituzionale nn. 2, 3 e 7/2007; nn. 14 e 20/2008.

[37] Sentenza Corte Costituzionale 11 marzo 2009, n. 106.

[38] C. Bassu, op. cit., p. 148 nota 127.

[39] C. Bassu, op. cit., p. 148 e 148 nota 129.

[40] Dichiarazione riportata da L. Fazzo in Abu Omar, Usa “Delusi” per la condanna della CIA. Il Sismi è “ingiudicabile”, in Il Giornale, 5/11/2009.

[41] C. Fioravanti, Divieto di tortura e ordinamento italiano: sempre in contrasto con obblighi internazionali?, in Quaderni costituzionali, Fascicolo 3, settembre 2004, p. 561.

[42] C. Fioravanti, op. cit., p. 562.

[43] C. Fioravanti, op. cit., p. 563-564, 564 nota 33. 

[44] C. Fioravanti, op. cit., pp. 564-465.

[45] I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Diritto penale contemporaneo, 7-8, 2017, p. 155.

[46] F. Viganò, La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, in Diritto penale contemporaneo, 9 aprile 2015;
F. S. Cassibba, Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola ''Diaz-Pertini'', in Diritto penale contemporaneo, 27 aprile 2015.

[47] I. Marchi, op. cit., p. 156.

[48] I. Marchi, op. cit., p. 157.

[49] F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati. Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, in Diritto penale contemporaneo, 25/09/2014, pag. 12.

[50] I. Marchi, op. cit., p. 158.

[51] I. Marchi, op. cit., p. 158 nota 6.

[52]T. Padovani, audizione avanti alla Commissione della camera dei Deputati, 22 ottobre

2014, resoconto stenografico, pp. 6-7, consultabile sul sito della Camera

[53] I. Marchi, op. cit., pp. 159-160.

[54] I. Marchi, op. cit., pp. 161-163.

[55] I. Marchi, op. cit., pp. 162-163.

[56] I. Marchi, op. cit. pp. 164-165.

[57] T. Padovani, resoconto stenografico dell’audizione avanti alla Commissione della camera dei Deputati, 22 ottobre 2014, p. 6.

[58] I. Marchi, op. cit., p. 166.

[59] G. De Minico, op. cit., p. 187.

[60] L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima), in Riv. Cammino Dirit., 1, 19 para. 3

[61] G. De Minico, op. cit., p. 191.

[62] A. Ciancio, La libertà d’informazione, Internet ed il terrorismo internazionale, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, a cura di Antonio Ruggeri, vol. I, Giappichelli, Torino 2016, p. 607.

[63] G. De Minico, op. cit., p. 194, nota 50.

[64] G. De Minico, op. cit., p. 195.

[65] Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante “Codice in materia di protezione dei dati personali”, in Gazetta Ufficiale n. 174 del 29/07/2003.

[66] G. De Minico, op. cit., p. 197.

[67] G. De Minico, op. cit., p. 198.

[68] G. De Minico, op. cit., p. 199.