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Pubbl. Mer, 24 Apr 2019

La colpa medica. L´art. 590 sexies c.p.: un punto di arrivo o un doveroso inizio?

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Maria Erica Gangi
Avvocato


Un´analisi della colpa medica quale arteria della colpa professionale: l´art. 2236 c.c. precursore della responsabilità del sanitario.


Sommario: 1. Inquadramento sistematico: brevi considerazioni circa l’elemento soggettivo del reato; 2. La colpa medica quale arteria della colpa professionale; 3. Dalla regola civilista al Decreto Balduzzi: prima espressione autoctona di “colpa lieve” in ambito penale; 4. Inidoneità del Decreto Balduzzi e conseguente emersione della Legge Gelli  - Bianco: il martoriato art. 590 sexies c.p.; 5. Il Supremo Consesso traccia il perimetro di applicazione della scusante penalistica.

1) Inquadramento sistematico: brevi considerazioni circa l’elemento soggettivo del reato

La corretta trattazione della tematica oggetto di odierno studio richiede l’analisi di questioni preliminari che meglio ne consentano l’inquadramento sistematico.

Va subito precisato come la colpa medica si inscriva nel più ampio ambito della colpa professionale, disciplina questa il cui orpello normativo per eccellenza è sempre stato – a buon diritto –individuato nell’art. 2236 c.c. che, nel disciplinare la responsabilità del prestatore d’opera, con riguardo ad attività particolarmente complesse, la ritiene sussistente soltanto nel caso di dolo o colpa grave escludendola, pertanto, in ipotesi di colpa lieve.

La querelle che per lungo tempo ha animato sia dottrina che giurisprudenza ha riguardato la esportabilità di detto principio anche alla materia penalistica.

Pare opportuno, prima di entrare nel merito della questione, svolgere talune considerazioni preliminari in tema di colpa che, unitamente al dolo, costituisce l’elemento soggettivo del reato, così come plasticamente statuito a norma dell’art. 43 c.p.

In punto va detto che affinché l’ordinamento possa validamente dispiegare la propria risposta sanzionatoria quale conseguenza ad una condotta criminosa è necessario che sia positivamente soddisfatta l’indagine oggettiva, ossia la ricerca degli elementi che compongono il fatto di reato; altresì deve trattarsi di condotta antigiuridica, dunque violativa di una norma giuridica che tuteli principi cardine del nostro ordinamento; parimenti deve essere una condotta colpevole, ossia rimproverabile all’agente secondo quanto chiosato dal Giudice delle Leggi con gli arresti del 1988 (Sentenze nn. 364 e 1085): in dette occasioni è stato ricercato il fondamento del principio di colpevolezza, valorizzato e domiciliato nell’art. 27 Cost. talché perché un soggetto possa essere sanzionato per le conseguenze derivate dalla di lui condotta è necessario individuare un coefficiente di responsabilità, seppur minimo, di modo da scongiurare ipotesi di responsabilità oggettiva in virtù delle quali il soggetto sarebbe chiamato a rispondere per il solo nesso materiale tra la condotta e l’evento senza nessun accertamento circa quello psicologico.

Da tali premesse è agevole comprendere l’imprescindibile ruolo che la ricerca dell’elemento psicologico assume nel nostro sistema penale. In punto va riconosciuto che il dolo – quale rappresentazione e volontà – costituisce il criterio di attribuzione della responsabilità per eccellenza, vedendo nella colpa la c.d. eccezione avendosi tale imputazione qualora siano rinvenibili determinati presupposti.

Circa la colpa questa è, innanzitutto, mancanza di volontà: si connota, dunque, per la presenza preliminare di un dato negativo, altresì, sotto il profilo positivo, è violazione della regola cautelare (elemento oggettivo) unitamente alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento (elemento soggettivo), accertamento questo funzionale ad evitare che sia sufficiente la sola violazione del precetto per costituire un’ipotesi di imputabilità; invero ove ciò fosse consentito si creerebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva occulta stigmatizzata dal doveroso rispetto del principio di colpevolezza.

Ulteriore distinguo attiene al caso in cui la regola cautelare sia codificata in apposito dato normativo: legge, regolamento, disciplina talché da aversi colpa specifica; diversamente, qualora manchi la predetta codificazione la violazione dei generali doveri comportamentali individuati nella negligenza, imprudenza e imperizia, darà seguito alla c.d. colpa generica.

Ruolo nevralgico nell’accertamento della colpa è svolto dalla regola cautelare, chiamata a distinguere l’ambito del penalmente irrilevante da quello rilevante, terreno di elezione ove essa è chiamata ad operare è lo svolgimento di attività pericolose ma socialmente utili quindi ammesse e governate dall’ordinamento, tra esse certamente rientra l’attività medica. Caratterizzate dal c.d. rischio consentito per cui l’ordinamento giammai potrebbe coerentemente ammettere e tollerare lo svolgimento di date attività e tuttavia imputare all’agente tutte le conseguenze nefaste da esse derivate; ne discende che colui che svolga la predetta attività in ossequio alla regola cautelare andrà esente da responsabilità per la verificazione di conseguenze lesive che pur si sarebbe potuto prevedere. La regola cautelare è, pertanto, chiamata a ridurre il rischio circa quelle conseguenze che pur possono verificarsi stante la pericolosità dell’attività svolta.

Conclusioni non aderenti a quanto sin qui analizzato vanno fatte circa le attività a base totalmente illecita: in esse non v’è alcuna regola cautelare da osservare atteso che l’ordinamento impone un generale dovere di astensione dal realizzare date condotte, in dette ipotesi il giudizio di colpa richiederà unicamente l’accertamento dell’elemento psicologico della stessa.

Soddisfatta l’indagine circa l’elemento oggettivo, l’interprete è chiamato a svolgere ulteriore analisi afferente la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nonché l’accertamento della natura consequenziale tra l’evento verificatosi e quello che la stessa norma cautelare aveva l’obiettivo di impedire.

In merito al c.d. elemento psicologico della colpa è opportuno precisare come esso vada condotto attraverso un processo di sostituzione tra l’agente concreto e quello modello da ricercare ed individuare non alla luce di criteri di estrema saggezza e competenza ma quale individuo dotato di senno e oculatezza; all’uopo l’interprete potrà dotarsi di taluni parametri rinvenibili nelle competenze gnoseologiche dell’agente, nell’attività svolta, nella connessione tra questa e la condotta per cui è causa, ovvero se sia autonoma rispetto alla prima o se, viceversa, si tratti di condotta connessa all’attività propria, all’età anagrafica dell’agente concreto oltreché allo stato di salute complessivo dello stesso; sono, questi, tutti canoni – tra essi alternativi – il cui studio può meglio consentire la elaborazione circa la prevedibilità ed evitabilità dell’evento quale conseguenza della propria condotta[1].

2) la colpa medica quale arteria della colpa professionale

Stante le considerazioni testé svolte e ricostruito il ruolo capillare che la regola cautelare riveste per l’accertamento della imputabilità a titolo di colpa è possibile meglio trattare la questione oggetto di studio e sul punto ricondurre, correttamente, l’attività medica nel novero delle c.d. attività pericolose, a base lecita, che siano connotate da rilevanza sociale per cui ammesse e veicolate dall’ordinamento.

Come detto in apertura della presente trattazione la colpa medica può definirsi species del più ampio genus della colpa professionale.

Dato normativo primario dalla cui analisi procedere è l’art. 2236 c.c. che – come sopra precisato – esclude la responsabilità in caso di colpa lieve con riguardo alle attività/prestazioni complesse e/o di difficile esecuzione talché, in casi di tal fatta, il prestatore d’opera è chiamato a rispondere per dolo o colpa grave[2].

Atavico il dibattito circa la applicabilità di detta norma anche nella materia penale.

Sul punto due gli orientamenti contrapposti.

Leggendo l’orientamento favorevole ad esportare la regola di cui all’art. 2236 c.c. anche in ambito penale si veda che ruolo cruciale era svolto dal principio di sussidiarietà proprio del diritto penale chiamato ad intervenire con i propri strumenti sanzionatori unicamente in caso di inadeguatezza delle risposte, differenti, che l’ordinamento avrebbe saputo offrire.

Ne discendeva che una condotta – connotata da colpa lieve – che non fosse idonea a configurare un’ipotesi di responsabilità in sede civile, giammai avrebbe potuto costituire reato, quindi punibile, in ambito penale.

Una tale conclusione avrebbe portato seco la mortificazione dello strumento penale come extrema ratio potendo, al più, ammettersi il contrario ovvero che un illecito civile non venga trattato come reato.

Tuttavia ammettere la non punibilità della colpa lieve portò taluni Autori a temere il verificarsi un importante vuoto di tutela, timori questi che, invero, vennero sconfessati dal provvido intervento del Giudice delle Leggi[3] che con un arresto dei primi anni ’70 ebbe modo di precisare come la colpa di cui tratta la norma civilistica in commento non debba essere intesa quale colpa tout court ma riferita eminentemente alla imperizia lieve, ovvero all’errore afferente la mera esecuzione della regola cautelare; dovendo, invece, continuare a ritenersi non scusabile la negligenza e l’imprudenza quali criteri di individuazione e scelta della regola da seguire.  

Così letta la previsione di cui all’art. 2236 c.c. appariva meno problematica e più coerente con il sistema penale in un’ottica in cui la sola colpa scusabile – idonea a costituire un’esenzione di responsabilità penale – sarebbe stata quella conseguente ad imperizia lieve la cui scusabilità trovava la propria ragione giustificativa nella particolare difficoltà della prestazione da rendere.

Si introdusse un importante principio di diritto per cui tanto più complessa è la prestazione, quanto più l’errore meramente esecutivo può essere giustificato.

Nonostante l’autorevole pronunciamento della Corte Costituzionale altra Giurisprudenza, inaugurando un orientamento che tutt’oggi appare prevalente, fu di segno opposto.

Si ritenne, invero, la non esportabilità della previsione civilistica in una sede quale quella penale che conosceva la completezza e unitarietà della disciplina sulla colpa talché sarebbe risultato del tutto inidoneo e superfluo ricorrere a canoni di interpretazione analogica non richiesti.

Del resto – evidenziò detto orientamento – il codice penale conosce già un distinguo tra colpa lieve e colpa grave e ve n’è traccia nell’art. 133 c.p. laddove precisa che il Giudice nell’applicare la pena debba tenere conto ai fini della determinazione, tra gli altri aspetti, anche della intensità del dolo o del grado della colpa.

Il predetto riferimento normativo mostra, dunque, una padronanza circa la dicotomia di cui sopra che, tuttavia, rileva ai soli fini del quantum, non anche dell’an; precisazione questa che deve essere letta come sintomo di irrilevanza circa l’an afferente una bipartizione tra colpa lieve e grave.

Evidenziata, in seno a detto formante, la completezza ed esaustività della disciplina in materia di colpa tale da rendere superflua una interpretazione analogica dell’art. 2236 c.c., tuttavia si riconobbe l’innegabile pregio giuridico di detta disposizione sì da attribuire alla stessa carattere di regola scientifica cui aderire e da seguire.

In ambito penale, in presenza di situazione particolarmente complessa, l’agente sarebbe andato esente da responsabilità in caso di imperizia lieve da tradurre come “non colpa”: veniva quindi connotata diversamente quella che in sede civilistica era ritenuta colpa lieve.

3) Dalla regola civilista al Decreto Balduzzi: prima espressione autoctona di “colpa lieve” in ambito penale

Il quadro dottrinario e ancor più giurisprudenziale così composto fu destinato a subire ulteriori modifiche e riscritture guardando alla colpa medica la cui trattazione necessita dello studio degli interventi normativi che su essa si sono avuti sino a portare alla recente introduzione dell’art. 590 sexies del c.p. il cui testo è ictu oculi apparso complesso e di difficile ricostruzione interpretativa.

Preliminarmente va dato atto di come, a buon diritto, la disciplina medica sia riconosciuta quale vexata quaestio, attributo questo giustificato dalla complessità degli interessi in gioco, tutti, parimenti meritevoli di tutela.

A stagioni alterne la giurisprudenza – in assenza di incontrovertibile dato normativo – ha teso a dare maggior considerazione alla professione del sanitario qualificandola come summa e intoccabile; ne discendeva che lo stesso sarebbe stato chiamato a rispondere sotto il profilo civilistico unicamente a titolo extracontrattuale con conseguente maggior favore in tema di onere della prova. In un secondo momento, aderendo alla teoria del contatto sociale qualificato, si ritenne il medico non il quisque de populo, ma soggetto competente cui il paziente avrebbe affidato la propria vita; ergo avrebbe dovuto rispondere a titolo contrattuale talché colui che agiva in giudizio per ottenere tutela risarcitoria avrebbe dovuto esclusivamente provare il titolo del proprio diritto spettando al sanitario il più gravoso onere probatorio.

Un quadro composito in cui v’è da tutelare il paziente, i di lui familiari titolari di interessi supremi, ma, ugualmente, merita considerazione l’attività medica che prima dell’intervento normativo del 2012 si era ancorata nella forma della medicina difensiva per cui scopo ultimo del sanitario non sarebbe soltanto la cura del paziente ma l’agire senza rischi di incorrere in processi sulla propria responsabilità, civile e penale, con conseguente ingessamento della professione medica e della ricerca ad essa intimamente connessa.

È questo il quadro in cui si inscrive il primo getto riformista avutosi con il D. L. 158/2012 che all’art. 3 c. 1 escludeva la responsabilità penale del sanitario per colpa lieve riscontrabile ogniqualvolta lo stesso avesse rispettato le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nonché le linee guida[4].

Disposto normativo, questo, che sul fronte giurisprudenziale, pressoché all’unanimità, venne inteso come esenzione di responsabilità in caso di scelta di linee guida in concreto rivelatesi inadeguate sebbene non vi fossero ragioni macroscopiche che inducessero a non adottarle.

Il D. L. 158/2012 – noto anche come Decreto Balduzzi – che codifica la c.d. colpa lieve e la traduce in una forma di imperizia lieve attinente alla inadeguatezza delle linee guida prescelte; da qui si introdusse un ulteriore problema interpretativo ovvero se detta esenzione di responsabilità avesse riguardato soltanto l’imperizia o anche la negligenza e l’imprudenza.

Ad una prima tesi restrittiva che stigmatizzava queste ultime talché da ritenerle sempre punibili, fece seguito una differente tesi, poi affermatasi, a cui va il merito di aver evidenziato il contenuto delle linee guida: non soltanto riferite a protocolli di perizia ma anche a regole di diligenza, dunque anche la negligenza e l’imprudenza si sarebbero potute scusare.

È un corredo interpretativo che traccia un regime di maggior favore con cui si guarda alla colpa medica per cui il sanitario sarebbe andato esente in caso di scelta errata del protocollo purché non vi fossero ragioni per discostarsene.

Innegabile il pregio di detto intervento normativo, tuttavia rimanevano taluni punti oscuri, in specie in merito alla definizione delle linee guida tanto discusse e ai criteri di accreditamento delle stesse, taciuti dal Decreto Balduzzi sì da contrastare con il principio di tassatività e determinatezza.

       

4) Inidoneità del Decreto Balduzzi e conseguente emersione della Legge Gelli - Bianco: il martoriato art. 590 sexies c.p.

Si rese, ordunque, necessario un ultroneo intervento normativo che si ebbe con il varo della L. 24/2017 nota anche come Legge Gelli – Bianco, con essa si abrogò l’art. 3 c. 1 del Decreto Balduzzi e  si introdusse nel codice penale l’art. 590 sexies[5], qualificabile come causa di giustificazione spendibile in favore del sanitario il quale può non essere chiamato a rispondere del reato di morte o lesioni personali in ambito sanitario qualora figurino i tre presupposti dalla norma sanciti.

È necessario che si tratti di evento conseguente ad imperizia, che siano state adottate le linee guida e che esse siano risultate adeguate al caso clinico proposto al vaglio medico.

La trattazione della colpa medica, oggi, pertanto, necessita dello studio circa le complessità connesse ed emergenti dall’articolo in commento che hanno provocato incidenti reazioni – sia in dottrina che in giurisprudenza – per giungere alla elaborazione del principio di diritto, avutosi in seno alle SS.UU del Spremo Consesso con la Sentenza Mariotti[6], rispetto al quale, tuttavia, sono emersi non pochi dubbi circa la conformità col dato normativo.

Un’analisi precisa e didascalica richiede di ripercorrere le tappe che hanno portato al quadro odierno[7].

Ruolo primario venne svolto dalla Sentenza Tarabori[8], in essa la Cassazione stigmatizzò i requisiti richiesti dall’art. 590 sexies c.p. tacciati di drammatica incompatibilità: non sarebbe stato mai possibile aversi un’ipotesi di imperizia ove si fossero seguite le linee guida richieste dal caso concreto.

Pertanto imperizia sempre inesistente se le linee guida fossero state osservate.

Tuttavia detta incompatibilità ben avrebbe potuto esser superata ove si fosse ammessa l’impropriatezza del linguaggio legislativo: lo stesso, invero, erratamente avrebbe fatto riferimento al nesso eziologico richiesto tra imperizia e rispetto delle linee guida, piuttosto si sarebbe dovuto ritenere applicabile la non punibilità del sanitario in quei giudizi ove si fosse fatta “questione di imperizia” purché vi fosse stata la prova di aver rispettato le linee guida e non vi fossero state ragioni per discostarsene.

Un principio di diritto che, successivamente, venne inteso dalle SS. UU inadeguato stante l’innegabile carattere abrogans che lo stesso rendeva alla norma penale il cui carattere innovativo veniva, irrimediabilmente, svalutato e quasi assottigliato a mera ovvietà.

 Un ultroneo contributo giurisprudenziale fu fornito da altro arresto avutosi con Sentenza Cavazza[9] in essa si adottò un’interpretazione trasversalmente opposta a quella tracciata dalla precedente: piena compatibilità tra i requisiti richiesti per la validità della causa di giustificazione.

L’imperizia cui il legislatore si riferiva era quella, sia grave che lieve, afferente il momento esecutivo delle linee guida medesime, non anche la fase di scelta; si introdusse l’imperizia c.d. in executivis e non anche in eligendo, continuata a ritenere sempre punibile poiché non riguardante criteri esecutivi ma di diligenza e prudenza nella individuazione del protocollo corretto da adottare.

Il principio di diritto elaborato fu, dunque, quello di giustificare e scusare la condotta del sanitario che avesse ben scelto le linee guida da applicare ma che le avesse eseguite male, tuttavia sarebbe andato esente da responsabilità sia in caso di errore grave che lieve, interpretazione cumulativa che si spiegò stante l’assenza di un riferimento normativo di segno contrario.

Principio che, tuttavia, venne sin dal suo apparire connotato per contrasto costituzionale con gli artt. 3 e 32 Cost.

Il pregio della questione rese necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione che con Sentenza n. 8770/2017 stigmatizzarono i due precedenti orientamenti in specie connotando il carattere anticostituzionale del secondo (Sent. n. 50078/2017) nella misura in cui – unificando l’imperizia lieve e grave – dimostrava di contrastare con il principio di uguaglianza, invero le altre professioni conoscevano ipotesi di responsabilità per colpa grave, scusata soltanto, stante il predetto orientamento, nell’attività medica.

Quanto elaborato da ultimo dal Supremo Consesso fu un principio di diritto che mostrò di aderire maggiormente all’orientamento nato in seno alla Pronuncia n. 50078/2017, seppur epurato dal riferimento alla imperizia grave, tale per cui la causa di giustificazione va applicata nel solo caso di imperizia lieve riscontrabile nella fase esecutiva delle linee guida.

Per completezza va dato atto di quanto chiosato dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto il sanitario punibile a titolo di colpa per imperizia nella errata scelta delle linee guida o per imperizia circa la  individuazione (errata) del caso clinico ai protocolli medici; ancora punibile nel caso di negligenza o imprudenza che abbiano determinato il sorgere dell’evento nefasto, mutando, con detta specifica, il diverso orientamento sopra esposto, certo più favorevole, maturato sotto la vigenza del Decreto Balduzzi.

5) Il Supremo Consesso traccia il perimetro di applicazione della scusante penalistica

Per rispondere ad esigenze di completezza espositiva meritano di essere trattate talune questioni che sono state oggetto di adeguata puntualizzazione nella parte motiva della Sentenza in commento[10].

Di fatto, con il principio di diritto così elaborato, veniva riconosciuta la dicotomia tra imperizia lieve e grave; sul punto, tuttavia, la stessa Cassazione ha avuto cura di chiosare che nessuna novità era stata introdotta.

Era del resto distinguo già noto al sistema penale in forza di quel formante interpretativo che ravvisò nell’art. 2236 c.c. una regola di esperienza fruibile de relato, seppur indirettamente, quale canone applicativo delle prestazioni complesse e circa le cui questioni critiche sopra si è ampiamente discusso.

Altresì lo stesso Legislatore aveva dato modo di conoscere la ripartizione in colpa lieve e colpa grave: il D.L. 158/2017 di cui sopra aveva giustappunto escluso la responsabilità penale del sanitario in caso di colpa lieve; sarebbe pertanto, quella tracciata con la Sentenza n. 8770/2017, una interpretazione oltreché sistematica in segno di continuità rispetto ad una impronta normativa già apparsa.

A fortiori, i lavori preparatori sulla stesura finale dell’art. 590 sexies c.p. consegnano un importante dato lessicale: il riferimento alla imperizia grave che, se presente, non avrebbe potuto invocarsi la causa di giustificazione; a nulla vale che il predetto riferimento fosse stato epurato dal testo definitivo dovendo, comunque, nella ricostruzione interpretativa della norma, riportarsi e affidarsi alla intentio originaria del Legislatore.

Ciononostante le precisazioni addotte dal Supremo Consesso non andarono esenti da critiche.

Attenta Dottrina ebbe cura di evidenziare l’evidente discrasia che vi fosse tra il dato testuale dell’articolo in commento e il principio di diritto elaborato: non v’era uniformità, per quanto la stessa Corte precisò che l’unico limite cui l’interprete deve soggiacere è quello di cui all’art. 12 delle Preleggi ossia il significato letterale delle parole, essendo preclusa, unicamente, una interpretatio contra legem non anche praeter legem come quella fornita.

Invero, volgendo attenzione alla lettera della Legge parrebbe che – in assenza di differente previsione – l’imperizia scusabile dovrebbe essere quella tout court intesa non soltanto quella lieve, ne discende che, così ricostruita, quella elaborata dalla Giurisprudenza di legittimità sarebbe una interpretazione contraria al dato normativo originario.

Stante le criticità connesse e individuate sarebbe auspicabile – come autorevole dottrina ha evidenziato – che il Giudice delle Leggi ponesse il sigillo di costituzionalità sulla norma in commento atteso che la situazione oggi vigente appare quanto mai controversa: l’imperizia trova, invero, duplice tutela ponendosi sotto la scure della disciplina di cui all’art. 2236 c.c. scusabile se lieve talché il prestatore d’opera è responsabile solo in caso di colpa grave o dolo, principio che non è proprio della colpa medica ma spendibile per la più ampia colpa professionale che non richiede linee guida e/o protocolli ma, unicamente, che si tratti di attività di difficile esecuzione; nonché valente quale causa di giustificazione in materia penale se attribuibile alla fase meramente esecutiva delle linee guida.

Inequivocabile, dunque, che solo il varo Costituzionale possa essere idoneo ad apportare chiarezza ad una materia alquanto districata e di difficile interpretazione. 

Note e riferimenti bibliografici

[1] G. Marinucci – E. Dolcini; Manuale di Diritto Penale; Giuffré Editore; Sesta Edizione.

[2] M. Di Pirro Manuale di Diritto Civile; Simone Editore; III Edizione.

[3] Sentenza Corte Costituzionale n. 166/1973.

[4] “La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria tra antichi dubbi e nuovi problemi” a cura di B. Romano, Pacini Giuridica, Collana Sanità – Diritto ed Economia.

[5] R. Garofoli; Compendio di Diritto Penale Parte Speciale; VI Edizione Nel Diritto Editore.

[6] Sentenza Cassazione Sezioni Unite n. 8770/2017.

[7] “Un distillato di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del medico” di P. Piras in Diritto Penale Contemporaneo.

[8] Sentenza Cassazione Penale n. 28187/2017.

[9] Sentenza Cassazione Penale n. 50078/2017.

[10] Per un approfondito studio si leggano i contributi del Dott. P. Piras in DPC.