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Pubbl. Mer, 8 Mag 2019

È violenza privata impedire il passaggio e la chiusura di un cancello per diversi giorni

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Cristina Monteleone


Il soggetto che sosta con la propria autovettura nei pressi del cancello del vicino, così da impedire a quest´ultimo di accedere alla sua proprietà e di chiudere il cancello delimitante il suo fondo, è responsabile del delitto di violenza privata (art. 610 cod. pen.)


Sommario: 1. Premesse generali; 2. Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art.392 cod. pen.); 2.1 Preteso diritto; 2.2 Violenza sulle cose; 3. Il delitto di violenza privata (art. 610 cod. pen.); 4. Discrimine tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni e violenza privata; 5. Cassazione Penale n. 40482/2018; 5.1 Vicenda; 5.2 Decisione; 6. Riflessioni critiche.

1. Premesse generali 

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione si è soffermata sulla linea di discrimine tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 392 cod. pen.) e quello di violenza privata (art. 610 cod. pen.). In particolare, i Giudici della Corte di Cassazione hanno analizzato gli elementi di entrambe le figure di reato, per stabilire quale di esso ricorresse nel caso sottoposto alla loro attenzione. E' opportuno richiamare brevemente gli elementi di ciascuna delle figure delittuose prese in esame dalla Suprema Corte.

2. Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art.392 cod. pen.)

Tale fattispecie di reato sanziona la condotta del soggetto che - ritenenendo di vantare un diritto su una cosa - arbitrariamente compia un atto diretto a realizzare tale diritto, usando violenza su una o più cose.

Il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice va ravvisato nell’interesse dello Stato ad impedire che i privati utilizzino la violenza quale mezzo di risoluzione delle controversie tra di loro sorte1. Tale figura di reato - collocata tra i delitti contro l'amministrazione della giustizia - intende tutelare: da un lato, la pace sociale che verrebbe ad essere turbata dai presunti titolari di un diritto, i quali decidano di dare attuazione a quest'ultimo ricorrendo all'uso della coazione, non autorizzata da un provvedimento dell'autorità giudiziaria; dall'altro lato, il monopolio della giurisdizione, il quale attribuisce all'autorità giudiziaria il potere di risolvere le controversie sorte tra i privati.

Il delitto in oggetto si pone come reato comune, attesa la mancanza di alcuna particolare qualifica richiesta al soggetto agente.

Per costante giurisprudenza, infatti, la figura delittuosa ex art 392 cod. pen. può essere  commessa, oltre che da colui che assume di essere il titolare del diritto, anche da un soggetto che agisce in sostituzione del titolare del diritto, quale il negotiorum gestor.

Ai fini della configurabilità del reato, infatti, non è richiesta l’apparente titolarità del diritto che si assume violato, bensì che il soggetto agisca come se fosse il titolare del diritto e ne eserciti le facoltà.

L’elemento soggettivo richiesto per la sua configurabilità è il dolo specifico ossia la coscienza e la volontà del soggetto attivo del reato di compiere un atto di violenza contro una cosa, al fine di soddisfare un diritto di cui si ritiene essere titolari. 

La consumazione del reato è ravvisabile nel momento in cui il presunto titolare del diritto usa violenza su una cosa, al fine di soddisfare il proprio diritto. Si è ritenuta ammissibile la configurabilità del tentativo, qualora l'evento non si verifichi.

La suddetta figura di reato è procedibile a querela di parte. Non  si ritiene ammissibile il reato di ragion fattasi in forma ommissiva, in quanto è richiesta al soggetto agente la tenuta di un comportamento commissivo (ossia una condotta finalizzata alla trasformazione, danneggiamento o mutamento della destinazione della cosa, al fine di realizzare un diritto del quale si assume essere titolare).

Elementi salienti della figura di reato sono: il preteso diritto del quale il titolare assume di essere il titolare, la violenza - finalizzata alla realizzazione del diritto contestato - usata dal presunto titolare di un diritto.

2.1. Preteso diritto

Per l’integrazione del suddetto reato, è richiesto che il soggetto agente agisca nella convinzione di tutelare un suo diritto esistente.

Affinchè sussista il delitto di cui all’art. 392 cod. pen., non è richiesta la fondatezza o meno del diritto del quale il soggetto agente vanta di essere titolare, bensì è necessario che tale diritto possa costituire oggetto di contestazione giudiziaria. 

E' necessario, altresì, che tra il soggetto attivo ed un altro soggetto sia sorta una contestazione2, di fatto o di diritto, in ordine alla presunta titolarità di un diritto.

2.2. Violenza sulle cose

Ulteriore elemento necessario ad integrare la fattispecie di reato è l’esercizio -  da parte del soggetto attivo del reato - di violenza su una cosa.

La violenza richiesta per l’integrazione del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non comprende la mera vis diretta eventualmente a impossessarsi della cosa contesa ma richiede che la forza esercitata dal soggetto attivo sia diretta a danneggiare, trasformare o mutare la destinazione della res contesa3.

Non ricorre il requisito dell'arbitrarietà della condotta, attesa la legittimità dei comportamenti qualora:

1. il titolare del diritto usi violenza per mantenere il possesso attuale del bene (violenza manutentiva)4;

2. il titolare recuperi il possesso del bene, subito dopo lo spoglio (violenza reintegrativa).

3. Il delitto di violenza privata (art. 610 cod. pen.)

L’art. 610 cod. pen. punisce la condotta di colui che - con l'uso di violenza o minaccia -  costringa taluno a fare, omettere o tollerare qualcosa.

Il momento consumativo del delitto è da rinvenirsi nel momento in cui la persona offesa subisce una coartazione della propria volontà, in conseguenza della condotta illecita tenuta dal soggetto agente.

Secondo la giurisprudenza, il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è la libertà dell'individuo molestato, intesa sia quale autodeterminazione.

Avuto riguardo alla nozione di violenza, si è soliti distinguere tra la cd. violenza propria, ossia la forza fisica esercitata contro una persona e la cd. violenza impropria, nel quale ricomprendere qualunque mezzo idoneo a comprimere la volontà dell'uomo5.

L'elemento soggettivo richiesto è il dolo generico ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno a fare, omettere o tollerare qualche cosa.

Il reato è procedibile d'ufficio. Secondo una parte della dottrina, è ammissibile il delitto di violenza privata in forma omissiva. 

4. Discrimine tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni e violenza privata

La distinzione tra le due figure delittuose è da ravvisarsi nella strumentalità della violenza alla realizzazione di un preteso diritto. Tale elemento è presente nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, mentre è assente nel reato di violenza privata.

In tale ultimo illecito, infatti, la condotta violenta del soggetto agente non è finalizzata al soddisfacimento di un apparente diritto.

5. Cassazione Penale n. 40482/2018

5.1. Vicenda

Il ricorrente impugnava la sentenza emessa dalla Corte di Appello territorialmente competente con la quale era stato ritenuto responsabile del reato di violenza privata, per avere impedito al vicino la chiusura del cancello che permetteva all’imputato l’esercizio di un diritto di servitù di passaggio sul proprio fondo.

Secondo la prospettazione difensiva, la condotta dell’imputato non era idonea a integrare il requisito della violenza richiesto dall’art. 610 cod. pen., atteso il ruolo passivo avuto dall’imputato che si era limitato a sostare nei pressi del varco d’ingresso del vicino al fine di impedire la chiusura del cancello di quest’ultimo.

Ulteriore motivo di censura al provvedimento impugnato era costituito dalla mancata derubricazione del delitto di violenza privata nel più mite reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 cod. pen.).

La violenza esplicata dall’imputato, infatti, si poneva come necessaria e idonea a contrastare lo spoglio attuato dall’odierna persona offesa e diretto a privare il ricorrente del possesso della anzidetta servitù di passaggio.

L’imputato, infine, lamentava il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche nonostante le modalità concrete del fatto addebitatogli ne imponessero il riconoscimento in regime di prevalenza.

5.2. Decisione

La Suprema Corte ha dapprima richiamato l’indirizzo giurisprudenziale formatosi riguardo il requisito della violenza nel delitto di violenza privata. Secondo tale orientamento, l’elemento della violenza è integrato anche dalla cd. violenza impropria, ossia l’utilizzo di qualunque mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione altrui6.

Il Supremo Collegio ha rilevato che la condotta del ricorrente anche se priva dei caratteri della violenza in senso stretto integri il requisito della violenza del delitto di cui all’art. 610 cod. pen.

A titolo esemplificativo, la Corte ha richiamato alcuni casi integranti il delitto di violenza privata e aventi ad oggetto un comportamento ostruzionistico esplicatosi nel frapporre un ostacolo all’esercizio di un diritto della persona offesa (ossia la condotta di colui che sosti con la propria autovettura nel parcheggio riservato ai disabili e, pertanto, impedisca la concreta fruizione di tale spazio riservato agli aventi diritto7; ossia il comportamento di colui che parcheggi il proprio autoveicolo innanzi ad un fabbricato, così da bloccare il passaggio e impedire, alla persona offesa, l’accesso a detto edificio8;  ossia il comportamento di colui che pone la sua persona innanzi ai macchinari industriali così da impedire agli operai di utilizzare detti macchinari e quindi di lavorare9).

La Corte di Cassazione ha ritenuto che ricorra il delitto di violenza privata qualora l’esplicazione di attività costrittiva non corrisponde al contenuto del possibile esercizio del potere giurisdizionale10.

Nel caso di specie, peraltro, la Suprema Corte ha evidenziato che la formazione del giudicato civile sull’esercizio del diritto di servitù di passaggio escludano la possibilità che l’imputato possa rivolgersi nuovamente all’autorità giurisdizionale competente.

I giudici del Supremo Collegio, infine, hanno ritenuto esente da censure il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

A seguito dell’entrata in vigore della l. 24 luglio 2008, n. 125, infatti, il solo stato di incensuratezza dell’imputato non è sufficiente ai fini del predetto riconoscimento delle circostanze ex art. 62 bis cod. pen.

La Suprema Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso proposto dall’imputato e conseguentemente lo ha condannato al pagamento delle spese processuali.

6. Riflessioni critiche

Con la pronuncia testè esplicata, la Suprema Corte si è allineata ai precedenti giurisprudenziali consolidatisi, in ordine agli elementi del delitto di violenza privata. I giudici della Suprema Corte, inoltre, hanno richiamato copiosa casistica che, sebbene non abbia identità con il caso di specie, presenta un elemento in comune con quest'ultimo: l'intralcio di un passaggio di altrui proprietà. Uno degli elementi, infine, che ha condotto la Corte di Cassazione a ritenere l'imputato responsabile del reato di cui all'art. 610 cod. pen. è stata l'impossibilità di adire l'autorità giudiziaria, atteso il giudicato già formatosi in precedenza sulla medesima questione (sussistenza del diritto di servitù di passaggio).

Note e riferimenti bibliografici

1. Cassazione penale, sez. VI, 7 marzo 1986, n. 8547.

2. Cassazione penale, sez. VI, 4 dicembre 2015 - 5 febbraio 2016, n. 4879.

3. Cassazione penale, sez. VI, 1 luglio 1983 - 30 luglio 1983, n. 7172.

4. Cassazione penale, sez. VI, 19 aprile 2001, n. 20277.

5. Garofoli, Compendio di diritto penale - parte speciale, Nel diritto editore, IV edizione, p. 521.

6. Ex multis Cassazione penale, sez. V, 29 settembre 2015 - 2 febbraio 2016, n. 4284.

7. Cassazione penale, sez. V, n. 17794/2017.

8.  Cassazione penale, sez. V, n. 8425/2013.

9. Cassazione penale, sez. V, n. 48369/2017.

10. Cassazione penale, sez. VI, 12 febbraio 2013 n. 21197.