Analisi comparata dei beni comuni nel sistema common law
Modifica paginaCon la presente relazione si traccia in chiave ricostruttiva una analisi dell’istituto dei beni comuni nel sistema common law, effettuando una successiva ricognizione comparativa con gli ordinamenti a cultura codicistica.
Sommario: 1. Analisi strutturale del sistema common law; 2. Caratteristiche strutturali del sistema civil law; 3. L’istituto del trust nel sistema ordinamentale italiano; 4. Il trust nel sistema a cultura codicistica. Quali prospettive?
1. Analisi strutturale del sistema common law
Con la presente relazione si traccia in chiave ricostruttiva un'analisi dell’istituto dei beni comuni nel sistema common law, effettuando una successiva ricognizione comparativa con gli ordinamenti a cultura codicistica.
Prima di procedere ad analizzare gli elementi strutturali dell’istituto de quo nel sistema common law, anche attraverso un esame generale dei beni reali, in via preliminare si tracciano gli elementi identificativi di tale ordinamento, soffermandosi a una esposizione descrittiva anche del diritto di proprietà.
Il sistema common law affonda le sue radici genetiche all’indomani della conquista normanna dell’Inghilterra nel 1066.
Punto di partenza è il superamento della codificazione come esigenza di raccogliere varie norme giuridiche, e nel contempo di inquadrare le varie fattispecie attraverso una risoluzione pratica e consuetudinaria.[1]
Nel caso di specie, si tratta di un sistema che si basa su un diritto consuetudinario e giurisprudenziale, nel quale la regolamentazione del rapporto non è determinata dalla norma emanata dal legislatore, ma dalle sentenze formulate dal giudice che creano un indirizzo uniforme e organico attraverso l’attività decisionale.[2]
In sostanza il common law nasce e si forma nelle aule del tribunale finalizzato a una risoluzione pratica della vertenza, dove vi è l’assenza di leggi astratte e generali, e dove invece le regole vengono dettate dal giudice per risolvere una fattispecie concreta; un diritto che non viene creato dal giudice ma è dedotto ed astratto dal comune sentire.
Sul piano strutturale analogamente agli altri ordinamenti, pilastri fondanti del sistema sono legge, dottrina e giurisprudenza, ma con mutazioni fondanti diverse rispetto agli ordinamenti a cultura codicistica.[3]
Il presente intervento esula da una analisi descrittiva ed articolata del sistema common law, perché con il relativo lavoro in un’ottica comparata si vuole analizzare, come innanzi precisato, l’istituto dei beni comuni, evidenziando che comunque la ricognizione in via generale dell’ordinamento suddetto è comunque prodromica all’oggetto del presente lavoro.
Si è già parlato in via generale degli aspetti fondanti del sistema common law, ma in questa sede preme evidenziare lo “stare decisis”, ossia l’obbligo per il giudice, chiamato a decidere una controversia, di non discostarsi dal precedente scaturito dalla decisione di un caso analogo.
La regola del precedente vincolante assegna un ruolo fondamentale al formante giurisprudenziale.[4]
In tale contesto il richiamo alla disposizione normativa ha un approccio formalista, consistente nel prediligere l’interpretazione letterale, la cosidetta literal rule, [5]favorita dallo stile casistico e dettagliato in cui è redatta la legge, che deliberatamente vuole lasciare poco spazio ad un’interpretazione di ampio respiro.
L’evoluzione che negli ordinamenti civil law è iniziata dagli anni 70, evita la secca contrapposizione fra civil law e common law e li considera come due aspetti di una medesima grande tradizione giuridica occidentale.[6]
Questo non significa che i due ordinamenti hanno una composizione organica, anche perché permangono differenze importanti.
La presente analisi finalizzata a ricostruire l’istituto dei beni comuni nel sistema common law si muove in un contesto di un sistema aperto, legato alla discrezionalità concessa al giudice nella ricerca di regole di diritto concretamente applicabili in presenza di casi dubbi, nella natura giurisprudenziale del sistema stesso, e nell’assenza di codificazioni a carattere nazionale.
Fatta questa doverosa premessa, la disciplina della proprietà nei moderni sistemi di common law affonda le sue origini nelle situazioni di appartenenza che erano alla base del periodo medievale e di quello successivo nel quale si è verificata la crisi del sistema feudale stesso; nell’attuale contesto la law of property fonda le sue basi nella c.d. doctrine of estates.[7]
Il concetto di estates va inteso quale bene immateriale che conferisce al titolare il diritto di trarre delle utilità dalla cosa e che può consistere con la simultanea presenza di altri estates a capo di differenti soggetti.
In sostanza al regime proprietario nel sistema common law manca il concetto di pienezza del diritto e dello ius escludendi omnes alios.
Tenendo come esempio il sistema britannico, il law of property affonda le sue origini nel 1925 e costituisce la base della disciplina moderna della proprietà in Inghilterra, inquadrabile come timido e parziale tentativo di codificazione della law of property.[8]
Nel caso di specie vengono limitati il numero dei legal estates sui beni immobili riconoscendosi solo due legal estates: free simple absolute in possession ed il term of years absolute.
A ulteriore conferma di quanto appena affermato, preme sottolineare che accanto ai legal estates, vi sono i c.d. equitable interest, che finiscono per rendere più complessa la doctrine of estates.
Gli elementi fondanti della disciplina proprietaria in linea generale nei paesi common law, ruotano intorno a due soggetti centrali: il “freeholder” ed il “leaseholder”.[9]
“L’estate” di cui è titolare il freeholder è illimitato, potenzialmente eterno e non è sottoposto ad alcuna condizione, include il diritto di godere del possesso del bene e può essere trasferito liberamente a terzi; il freeholder rimane titolare del fee simple absolute in possession anche nel caso in cui conceda il bene ad un laeseholder.
In tale regime si crea un sistema di obbligazioni molto vicino al contratto di locazione nel civil law, dove gli interessi proprietari sul bene possono avere il contenuto più vario.
Nel restatement of proprerty del 1936 vengono elencati i quattro elementi costituenti la property: rights, privileges, poker ed immunities.[10]
In tale contesto, il concetto di appartenenza è riconosciuto dalla legge dello Stato e non corrisponde a un diritto naturale preesistente con caratteristiche determinate a priori.
Tale atteggiamento prende origine dalla peculiarità che la law of property ha assunto nel mondo giuridico anglossassone sin dalle origini.
La property in Inghilterra, infatti, intesa in un’accezione ampia, più che come rapporto giuridico tra un soggetto e una cosa, è concepita piuttosto come diritto che ha ad oggetto delle utilità che a loro volta si riflettono su una cosa corporale, le quali utilità coincidono con gli estates.[11]
In tale contesto, quindi era pacifico, non ammettendo problemi di ammissibilità teorica, che più soggetti fossero titolari di diversi estates anche su una stessa cosa, ben potendosi adattare gli estates sulla cosa ai vincoli che le parti avessero voluto apporvi nell’esercizio della propria autonomia privata.
Al contrario, nei paesi civil law la proprietà è intesa sin dalle codificazioni ottocentesche come diritto assoluto su una res, recuperando in pieno la tradizione romanistica che vuole il ius possidendi come ius utendi ed abutendisulla res stessa.
In tale rappresentazione ordinamentale, anche sul piano teorico era pressoché impossibile concepire uno smembramento ed una partecipazione della situazione proprietaria, proprio in considerazione dell’unicità della res e con l’assolutezza del diritto proprietario.[12]
La trasversalità del diritto sulla cosa nei sistemi anglosassoni è pacificamente ammesso e tutelato.
Il trust in linea generale negli ordinamenti common law, inteso quale istituto proprietario, quindi, opponibile anche ai terzi, e non quale rapporto obbligatorio, acquista la piena giustificazione anche sul piano teorico.
L’appartenenza del bene, infatti, non è piena, assoluta e perpetua, essendo piuttosto il titolare della stessa un mero gestore del bene per l’interesse e il vantaggio di un terzo.[13]
La proprietà formale del trustee non è più fonte di arricchimento del patrimonio, ma piuttosto una fonte di obblighi a carico del proprietario vincolato, in cambio di un corrispettivo. Consequenzialmente il trustee non può liberamente disporre del bene, né i terzi possono considerare quel bene come facente parte del loro patrimonio, quale garanzia generica dei creditori.
Tale trasversalità dei diritti sulla cosa ha una giustificazione anche di ordine pratico, tenuto conto che l’ordinamento inglese prevede, come innanzi detto, l’esistenza di due corti: Common law ed Equity che determinano la presenza di due posizioni consistenti in capo a due distinti soggetti il settlor ed il trustee, che a loro volta fanno riferimento a due distinte corti giudiziarie.[14]
Nel caso di specie, il peculiare diritto di proprietà di cui è titolare il trustee, determina che è funzionale a soddisfare l’interesse di un differente soggetto e che, quindi, non entra a far parte del patrimonio generico del trustee stesso, e come tale non può essere aggredito dai creditori.
2. Caratteristiche strutturali del sistema civil law.
Ben diversa è la concezione della proprietà nei moderni sistemi giudici di civil law, che recuperando la tradizione romanistica e all’indomani della rivoluzione francese appare caratterizzata, analogamente a tutti i diritti reali da due elementi strutturali fondanti: il numerus clausus e la tipicità, in virtù dei quali tutti i diritti reali da una parte sarebbero solo ed esclusivamente quelli previsti dal codice civile (numerus clausus), e dall’altra dovrebbero avere necessariamente le caratteristiche tipiche, previste ex ante dalla legge e non determinabili autonomamente dai soggetti, in virtù dell’autonoma volontà negoziale.[15]
Tale concezione trova le sue radici nell’emanazione del Codice Napoleonico, dove tutti i diritti reali, compresi il diritto di proprietà dovevano essere previsti e codificati direttamente dal legislatore, al fine di evitare condizioni di appartenenza dal contenuto minore rispetto al pieno diritto di proprietà.
In tale conteso il contenuto di tali diritti è numerus clausus in quanto tipizzati dall’ordinamento, proprio per garantire quell’ampiezza e pienezza dei diritti che consentissero di concepire ed inquadrare gli stessi quale espressione dell’autonomia e libertà individuale, non modificabile da accordi negoziali.[16]
È pacifico che le caratteristiche dei diritti reali sono basate sui seguenti punti: pienezza, assolutezza, autonomia, esclusività, unitarietà, perpetuità ed elasticità.
Tali elementi strutturali li rendono incompatibili con qualsiasi limite che in astratto potrebbe essere determinato dall’autonomia privata.
In sostanza vi è un rapporto diretto ed esclusivo tra il proprietario e la cosa oggetto della signoria.
L’unitarietà del diritto configura un’area di autonomia insindacabile in capo al titolare rispetto al rapporto con la cosa oggetto della sua signoria.
In maniera specifica negli ordinamenti civil law la pienezza e l’assolutezza del diritto di proprietà ha comunque radici molto antiche, che risalgono alla tradizione romanistica e che consiste nella inerenza diretta del diritto su una cosa corporale, determinando la sua opponibilità ad altri soggetti.[17]
Nel caso di specie, il diritto di proprietà ha ad oggetto una cosa, e l’inerenza di tale rapporto inibisce gli altri consociati di astenersi dall’interferenza con la situazione proprietaria.
Altrettanto tipiche dell’ordinamento civil law sono l’elasticità e la perpetuità del diritto di proprietà, con la possibilità della proprietà di restringersi se gravata da un altro diritto reale minore e di riespandersi non appena tale diritto si estingua.
Negli ultimi anni si è andato consolidando nel settore degli studi giuridici il primato del common law sulle teorie continentali di civil law.
Peraltro, la crisi finanziaria mondiale e le conseguenti tensioni sui bilanci degli Stati nazionali ha posto il problema di quantificare economicamente anche i beni pubblici.
Una ipotetica collocazione economica dei beni pubblici può aprire la strada a regimi proprietari diversi da quello della proprietà pubblica, in funzione del recupero della valorizzazione delle risorse economiche e una ulteriore riconsiderazione delle stesse.
3. L’istituto del trust nel sistema ordinamentale italiano.
In tale contesto si è fatto strada l’istituto del trust anche nei sistemi civil law.[18]
Il legislatore italiano con la legge 112/16 ha emanato un cambiamento di prospettiva, ricollocando la prospettiva esistenziale delle persone con disabilità all’interno di una cornice di piena cittadinanza e inclusione sociale.
Tale legge rivolta a favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia della persona con disabilità ha previsto la presenza dell’istituto del trust come strumento che garantisce una protezione legale tramite un rapporto fiduciario tra chi dispone di un bene e lo affida a un soggetto che deve amministrarlo in suo nome.
In sostanza siamo alla presenza di un negozio fiduciario, dove la condizione, nel caso che ci occupa, è determinato da un disagio sociale del soggetto e dalla sua appartenenza alla comunità come condizione prodromica alla tutela.
Va detto che sia l’istituto del trust e i vincoli di destinazione (articolo 2645-ter cc) come i fondi speciali, già esistevano nel nostro ordinamento. La sostanziale novità risiede appunto nelle maggiori agevolazioni fiscali ossia detrazioni sulle spese sostenute per sottoscrivere polizze assicurative e contratti a tutela delle persone con disabilità grave, ed esenzioni e sgravi su trasferimenti di beni, e costituzione di strumenti di protezione legale.
Nel caso di specie attraverso un’analisi ricognitiva si sta facendo strada nel contesto ordinamentale italiano di tradizione prettamente codicistica, la tendenza di prevedere schemi pattizi simili al trust che recuperando l’istituto della fiducia romanistica, consentono di applicare l’autonomia contrattuale al diritto di proprietà.
Il concetto di trust, dove la sua tradizione letterale significa “fiducia, affido” consente di strutturare in vario modo e per infinite ipotesi “posizioni giuridiche” basate su legami fiduciari.
In realtà, non esiste un rigido ed unitario modello di trust, ma possibili schemi che è possibile costruire in vista di una finalità ultima da raggiungere.
Con la legge 112/2016 si è volto creare una condizione di tutela per le persone disabili attraverso la creazione di un rapporto negoziale. Un rapporto che per parte della dottrina configura in una posizione mediana tra una obbligazione e una proprietà speciale o intestazione qualificata.
In realtà, il percorso di creare percorsi proprietari atipici nasce dall’esigenza di sopperire alla mancanza di una situazione proprietaria flessibile.
Il problema della necessaria tipicità o meno del diritto di proprietà e degli altri diritti reali, era stato già affrontato nella prima metà del ventesimo secolo da autorevole dottrina, che in più ripresa aveva stigmatizzato l’impossibilità di una concezione unitaria del diritto di proprietà.[19]
Si veda in tal senso la dottrina del Pugliatti il quale aveva elaborato la teoria in forza del quale la proprietà non sarebbe unitaria, ma comprenderebbe diversificate forme di manifestazione.
L’approccio della corrente positivistica era comunque limitata a regolamentare ed interpretare la disciplina che comunque il legislatore, con l’emanazione di norme positive aveva fornito alla proprietà.[20]
Analizzare l’istituto dei beni comuni nel sistema common law può fare da grimaldello a percorsi diversi e differenti da quelli teorizzati dal legislatore.
In sostanza la questione non è interpretare i diritti reali in chiave positivistica cioè come disegnati dal legislatore, ma se tali argomentazioni sono inderogabili, lasciando lo spazio ad un superamento di una concezione unitaria in favore di situazioni più elastiche.
In questa sede si vuole evitare una analisi interpretativa degli istituti dei diritti reali, ed in modo particolare del diritto di proprietà, limitando l’intervento in chiave comparativa, per poi indicare linee di intervento.
In sostanza l’approccio comparativo che viene effettuato ha comunque una lettura ambiziosa: una volta cristallizzati i principi del common law, si tende di immaginare un percorso attuativo nei paesi a cultura codicistica partendo proprio da una analisi positivista degli istituti e dalla loro introduzione.
4. Il trust nel sistema a cultura codicistica. Quali prospettive
Si è già detto della pienezza ed esclusività del diritto di proprietà nei paesi a cultura codicistica, ma comunque rimangono spazi di intervento qualitativamente intensi.
Precedentemente si è analizzato il sistema common law e le sue implicazioni in materia di diritti reali e del diritto di proprietà alla luce del concetto di beni comuni, effettuando in chiave comparativa le differenze genetiche con il sistema civil law.[21]
Adesso, partendo da un esame comparativo, si tende di delineare un percorso giuridico, che consenta di immaginare un modo diverso in cui il diritto di proprietà possa essere diversamente utilizzato, attraverso anche una estensione degli istituti tipici dell’ordinamento dei paesi a cultura anglo sassone.
Leggendo l’art. 832 del Codice civile italiano, non traspare quella conseguenza logica e necessaria dell’assolutezza del diritto di proprietà.
È proprio l’art. 832 c.c. che fissa dei limiti all’esercizio di tale diritto, tenendo conto della funzione sociale della proprietà di cui l’art. 41 Cost e fermo restando le disposizioni normative di cui all’art. 844 in materia di immissioni.
L’assenza dell’aggettivo “assoluto” nella disposizione dell’art. 832 c.c. va letta come scelta di allontanarsi dalla concezione assolutistica della situazione dominicale, venendo incontro ai principi della teoria dell’abuso del diritto, in virtù della quale nessun diritto nemmeno quello di proprietà è illimitato, e ricercando sempre un equilibrio che trova nel principio di solidarietà un elemento cardine nel sistema, così come enucleato dall’art. 2 della Carta Costituzionale.[22]
In senso astratto e generale nessun diritto può essere considerato privo di limiti e quindi assoluto.
Dalla lettura peraltro dell’art. 833 c.c. sul divieto degli atti di emulazione, vengono posti dei limiti all’esercizio del diritto dominicale.
Su questo punto l’indirizzo uniforme della dottrina e della giurisprudenza è sotteso in chiave oggettiva a cristallizzare il pregiudizio a terzi.[23]
Nel caso di specie la teoria dell’abuso del diritto pone dei limiti ben precisi alla concezione del diritto di proprietà, vincolando l’autonomia decisionale del titolare del diritto dominicale per preservare la posizione giuridica di altri soggetti.
In tale contesto, ciò che si vuole evidenziare è che la previsione di detti limiti costituiscono ex ante le condizioni giuridiche sui cui costruire percorsi alternativi, anche perché i limiti alla pienezza e all’esclusività del diritto di proprietà, minano nelle fondamenta il riconoscimento dell’assolutezza di tale diritto.
Precedentemente, si è discusso dell’ordine pubblico economico, della crisi che negli ultimi anni ha investito i mercati, lasciando lo spazio a situazioni di appartenenza economica e giuridica atipiche.
Va da sé che comunque la possibilità di dar vita a diritti reali atipici, porrebbe il problema della certezza e della sicurezza dei traffici, e quindi del sistema pubblicitario di conoscenza di tali istituti erga omnes.
La rigenerazione dell’istituto dei beni comuni effettuata dall’economista Elinor Ostrom, che tende ad inquadrarli come risorse di uso collettivo, sicuramente può costituire una valvola di studio e di analisi, anche a carattere risolutivo dei problemi macro economici.[24]
Secondo la dottrina “dell’analisi economica” il valore economico e sociale di un bene è destinato a trovare applicazione soprattutto relativamente al regime giuridico dei “beni comuni”, cioè dei beni caratterizzati dalla non rivalità(l’uso da parte di un soggetto non impedisce l’uso da parte di altri) e dalla non escludibilità (ogni soggetto ha diritto di accesso all’utilizzo del bene).[25]
Finora tali caratteristiche, per questo tipo di utilizzo, erano tout court applicabili solo al regime giuridico della proprietà pubblica che attraverso gli istituti del demanio e del patrimonio indisponibile consentiva un utilizzo erga omnes.
Tale principio era già ancorato alla tradizione giuridica romanistica che a tale scopo prevedeva la categoria delle res extra commercium, res inalienabili e di uso collettivo e a carattere generale.
Si è già detto precedentemente che la crisi finanziaria dei mercati mondiali ha posto il problema di un miglior utilizzo dei beni pubblici, ma soprattutto la sua quantificazione in chiave economica.
In sostanza, l’effetto della crisi ha evidenziato la necessità di indicare nei bilanci statali il valore economico di tali beni.
Attraverso una rigida analisi economica, si apre la possibilità di svincolarsi da una definizione classica e tradizionale della proprietà privata, per introdurre l’applicazione di regimi proprietari diversi da quelli della proprietà pubblica, in funzione del recupero della possibilità di una loro valorizzazione economica e di una riconsiderazione in termini di risorse collettive.[26]
Su questo punto è interessante analizzare diverse correnti di pensiero tra chi propone di trasformare tutti i beni pubblici in beni comuni, in confronto a quella impostazione dottrinaria che vuole inserire l’istituto del trust di tradizione anglo sassone, nel sistema nazionale, attraverso una forma di amministrazione fiduciaria diretta alla conservazione, tutela e valorizzazione di beni diversi dalla proprietà pubblica.[27]
In quest’ottica il trust di derivazione anglo sassone ha la capacità di preservare la risorsa e di utilizzarla in modo migliore attraverso criteri di economicità ed efficienza.
Peraltro, l’applicazione e l’introduzione dell’istituto del trust nel contesto ordinamentale nazionale, come da legge di natura apripista n. 112/2016, consente di svincolare il rapporto politico dalla gestione del bene, come avviene per la proprietà pubblica, e di creare un rapporto di natura fiduciario, finalizzato ad un equo e paritario utilizzo della risorsa.
Inoltre, l’introduzione dell’istituto del trust nell’ordinamento nazionale consentirebbe di impedire ai creditori, cioè ai creditori del trust di soddisfarsi sui patrimoni personali del settlor e del trustee, realizzandosi una perfetta separazione patrimoniale.[28]
Si evidenzia che il trust pur provenendo da un diverso sistema giuridico e pur basandosi su una formulazione del tutto diversa, sta ricevendo grossa attenzione nei paesi civil law, lasciando ampi spazi di intervento per la sua regolamentazione.
Il suo utilizzo potrebbe consentire l’adozione di adottare schemi contrattuali atipici di regolamentazione del diritto di proprietà.
Eventuali limitazioni al suo utilizzo sono legate alla problematica relativa all’ammissibilità di diritti proprietari atipici, non consentendo alle parti di raggiungere proprio quel regime di opponibilità, a cui l’istituto vorrebbe aspirare, rappresentando uno dei prevalenti vantaggi offerti dal trust.
Parte della dottrina è concorde nell’evidenziare che il vantaggio principale conseguibile attraverso il trust discende proprio dalla qualificazione dello stesso come rapporto diretto tra property law-like, consentendo in tal modo un’organizzazione del proprio patrimonio che sia opponibile ai terzi.[29]
In sostanza, vi sono gli spazi per giungere ad un riconoscimento di uno schema contrattuale atipico, attraverso una situazione proprietaria flessibile, utilizzando proprio gli strumenti normativi offerti dal sistema delle obbligazioni e contratti, ben regimentate nel nostro ordinamento.
Note e riferimenti bibliografici
[1] G. CRISCUOLI, Introduzione allo studio del diritto inglese, Roma, 2006 p.171
[2] G.CRISCUOLI, ult.op.cit. p.170ss
[3] A. GAMBARO, Il diritto di proprietà, Milano 2005 p.140ss
[4] M.COMPORTI, Diritti reali in generale, in Trattato di diritto civile e Commerciale CICU-MESSINEO(a cura di), p. 216
[5]M.COMPORTI ult.op.cit p.2010ss
[6] G. CRISCUOLI, Introduzione allo studio del diritto inglese, Roma, 2006 p.171
[7] G.CRISCUOLI ult.op.cit. p. 170ss
[8] A.LUMACA, G.MOSCO Sistemi giuridici comparati, Roma 2006, p.30ss
[9] A.LUMACA, G.MOSCO ult.op.cit, p.30ss
[10] A.LUMACA, G.MOSCO ult.op.cit p.20ss
[11] A.GAMBARO La proprietà nel common law anglo-americano, Roma 1992 p.45 ss
[12] A.GAMBARO ult.op.cit p.45 ss
[13] A.GAMBARO ult.op.cit.p.45 ss
[14] U.MATTEI, La proprietà in Trattato di diritto civile, R.SACCO (diretto da), Roma 2015, p.24 ss
[15] U.MATTEI, ult.op.cit, p.24 ss
[16] U.MATTEI, ult.op.cit, p.24 ss
[17] M.COMPORTI, Diritti reali in generale, in Trattato di diritto civile e Commerciale cit.p. 216
[18] M.COMPORTI, ult.op.cit p.210ss
[19] U.MATTEI, La proprietà in Trattato di diritto civile, cit. p.24 ss
[20] U.MATTEI, ult.op.cit p.24 ss
[21] G. CRISCUOLI, Introduzione allo studio del diritto inglese, cit p.171
[22]G. CRISCUOLI, ult.op.cit p. 20 ss
[23]F.BENATTI, Le forme della proprietà, Studi di diritto comparato, Roma 2010 p.2 ss
[24] F.BENATTI, ult.op.cit p. 25 ss
[25] U.MATTEI, La proprietà in Trattato di diritto civile, cit. p.24 ss
[26] U.MATTEI, ult.op.cit. p.24 ss
[27] R.ARGENZIANO, Il trust. Aspetti caratteristici della gestione degli investimenti immobiliari, Roma 2008 p.8 ss
[28] R.ARGENZIANO, ult.op.cit, p. 8 ss
[29] R.ARGENZIANO, ult.op.cit.p.8 ss