Pubbl. Mer, 17 Apr 2019
Concorso magistratura Bolzano: usura sopravvenuta e rimedi esperibili.
Modifica paginaLa traccia in materia di diritto civile: costo del danaro e fenomeni usurari, con particolare riguardo all’usura sopravvenuta ed ai rimedi disponibili.
Sommario: 1. La disciplina dell’usura; 2. Usura sopravvenuta tra tesi possibilista e teoria negazionista; 3. L’usura sopravvenuta al vaglio delle Sezioni Unite.
1. La disciplina dell’usura.
L’usura si configura in presenza di uno scambio di prestazioni alternative, tipicamente realizzato mediante la conclusione di contratti sinallagmatici, per cui un soggetto presta denaro o altra utilità (si parla di usura pecuniaria nel primo caso e di usura reale nel secondo) facendosi dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, interessi o altri vantaggi usurari. Questo è quanto emerge dal dettato dell’art. 644 c.p., il quale disciplina tale figura di reato distinguendo tra due fattispecie di usura: la prima, quella cd. presunta, che ricorre automaticamente ogniqualvolta si eccede il tasso-soglia di interessi periodicamente fissato ed aggiornato dal Ministro del Tesoro (rectius Ministro dell’Economia e delle Finanze) con proprio decreto sulla base degli indici di cui all’art. 1284 comma 1 c.c.; la seconda, ossia l’usura cd. concreta, che ricorre, invece, quando gli interessi, sebbene inferiori a detto limite, risultino, avuto riguardo alle concrete modalità dell’operazione finanziaria ed al tasso medio praticato per operazioni similari sul mercato, comunque sproporzionati rispetto alla prestazione-base del contratto, quando chi li ha dati o promessi versi in condizioni di difficoltà economico-finanziaria.
Oltre alle due modalità di cui s’è appena detto, l’usura può manifestarsi anche sotto forma di mediazione usuraria: ciò avviene qualora il soggetto agente pretenda, per l’opera di mediazione posta in essere, vantaggi usurari ovvero sproporzionati, sempre tenuto conto, in quest’ultima ipotesi, dello stato di disagio economico e finanziario in cui versa chi di tale prestazione ha usufruito.
In ambito civilistico, un importante riferimento al fenomeno dell’usura lo ritroviamo all’art. 1815 c.c. (contenente la disciplina del contratto di mutuo), il quale prevede che “salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. […] Se sono convenuti interessi usurari, la relativa clausola è nulla e non sono dovuti interessi.” Sebbene la citata disposizione non contenga alcun rinvio espresso al codice Rocco, la dottrina dominante ritiene che tale richiamo debba considerarsi implicito. In tal modo, la previsione appena richiamata diviene il principale strumento di lotta all’usura non solo in materia di mutuo, ma, grazie ad un’interpretazione estensiva, anche con riguardo agli altri contratti di finanziamento.
Ove la norma in questione non possa trovare applicazione (si pensi, in generale, alle ipotesi di usura cd. reale), viene in soccorso quanto prescritto dall’art. 1448 c.c. per quel che concerne l’azione generale di rescissione per lesione.
2. Usura sopravvenuta tra tesi possibilista e teoria negazionista.
La disciplina sinteticamente richiamata è frutto di una profonda e radicale riforma attuata dal legislatore ordinario con la legge n. 108 del 7 marzo 1996, la cui entrata in vigore fece immediatamente sorgere, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, lo spinoso problema interpretativo dell’estensibilità della stessa o meno anche ai contratti di mutuo (o di finanziamento in generale) sorti in epoca anteriore a tale legge ed ancora in corso di svolgimento al momento della sua entrata a regime. A ben vedere, peraltro, lo stesso interrogativo si pone anche per tutti quei contratti che, sebbene stipulati successivamente all’entrata in vigore di detta legge e recanti ab initio tassi inferiori a quelli della soglia d’usura, si ritrovino successivamente a superarla per effetto della caduta dei tassi medi di mercato.
Si discute, pertanto, sull’ammissibilità o meno, nel nostro ordinamento giuridico, del fenomeno della cd. usura sopravvenuta.
Due sono le soluzioni che possono profilarsi nel tentativo di risolvere la questione sottoposta alla nostra attenzione.
Per un primo ed oggi dominante orientamento, la legge antiusura, in difetto di previsione espressa di retroattività, non può operare rispetto ai contratti già in corso. Tale impostazione, pertanto, esclude l’incidenza delle sopraggiunte norme imperative sui contratti di durata, dando alla questione della configurabilità dell’usura sopravvenuta risposta negativa[1]
Diverse sono le argomentazioni che è possibile addurre a sostegno di tale opzione ermeneutica.
In primo luogo, milita a sostegno della suddetta soluzione il riferimento alla natura giuridica del contratto di mutuo ex artt. 1813 e ss c.c.. Invero, la consegna del denaro da parte del mutuante al mutuatario fa sorgere contestualmente l'obbligazione di quest'ultimo a rendere al primo il capitale e gli interessi, in un'unica soluzione o in più rate, secondo un piano di restituzione ad oggetto determinato o determinabile. Ne consegue allora che la dazione di rate di mutuo con interessi divenuti superiori al tasso-soglia, così come individuato alla luce dei criteri di cui alla legge n. 108 del 1996, non costituisce illecito, né penale ex art. 644 c.p., né civile ex art. 1815 c.c., allorché concerne l’esecuzione dell’unica obbligazione restitutoria sorta al momento della consegna del denaro, avvenuta prima dell’entrata in vigore della nuova legge. Ciò comporta l’inapplicabilità dello ius superveniens, anche se di carattere imperativo, ai contratti di finanziamento già in corso.
Una simile lettura è, peraltro, imposta dalla legge di interpretazione autentica n. 394 del 2000, la quale, all’art. 1 comma 1, recita testualmente che “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 c.p. e dell’art. 1815 comma 2 c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.”
Tale esegesi trova poi, a ben vedere, fondamento nell’art. 11 comma 1 delle Disposizioni Preliminari al Codice Civile (cd. Preleggi), il quale fissa il generale principio della irretroattività della legge (“la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”).
Siffatta ricostruzione ha, inoltre, superato indenne il vaglio di legittimità costituzionale operato dalla Consulta con la sentenza n. 29 del 2002: in tale pronuncia il Giudice delle Leggi ha ritenuto che l’art. 1 comma 1 della citata legge di interpretazione autentica, il quale esclude la natura usuraria di interessi originariamente sotto-soglia e divenuti tali solo successivamente per effetto della caduta del tasso medio, non supera le possibilità semantiche della disposizione interpretata e, pertanto, non può riconoscersi ad essa alcun carattere propriamente innovativo.
Ancora, una simile impostazione garantisce, indubbiamente, maggiore certezza dei traffici commerciali e giuridici, tutelata a livello costituzionale dagli artt. 41, 42 e 47, oltre che un più ampio rispetto della volontà dei paciscenti così come cristallizzata al momento della stipulazione del contratto.
Riconoscere cittadinanza all’usura sopravvenuta, inoltre, comporterebbe delle conseguenze come minimo stravaganti sul fronte del diritto penale, poiché si tratterebbe, senza mezzi termini, di riconoscere come reato una fattispecie del tutto priva dell’elemento soggettivo, così svilendo il dettato degli artt. 42 c.p. e 27 Cost.. Il fatto materiale, ossia il superamento oggettivo della soglia imposta per legge nel corso del rapporto contrattuale quale conseguenza del calo dei tassi medi praticati sul mercato finanziario, non sarebbe accompagnato da un corrispondente atteggiamento psicologico dell’agente, cioè la banca, nella quale difetterebbe la volontà di arrecare un precipuo nocumento agli interessi del debitore.
È appena il caso, infine, di notare che l’eventuale messa in discussione, anche a distanza di molti anni, della liceità del tasso di interesse pattuito contrasta frontalmente con il principio di certezza del diritto, in quanto il soggetto mutuante, creditore di interessi convenzionalmente fissati ab origine ad un tasso inferiore alla soglia rilevata al momento della conclusione del contratto, non sarebbe mai sicuro di ottenere quanto legalmente convenuto con il mutuatario/debitore. E ciò in spregio alle regole all'uopo prescritte dalla Associazione Bancaria Italiana (A.B.I.).
Un secondo e minoritario formante giurisprudenziale, per converso, ha affermato l’incidenza della legge in commento sui contratti già in corso[2]. Tale orientamento, dunque, ritiene rilevante, ai fini della predicabilità dell’usurarietà del tasso, la datio degli interessi, ossia il momento funzionale ed esecutivo del contratto.
Anche in questo caso, varie sono le argomentazioni impiegabili a sostegno di una simile soluzione interpretativa.
In primo luogo, essa appare maggiormente rispettosa, rispetto a quella per prima esposta, del canone di ragionevolezza e di eguaglianza contemplato dall’art. 3 Cost.. I sostenitori di tale impostazione, invero, fanno notare che il mancato adeguamento del tasso pattuito alle soglie di volta in volta determinate per legge, realizzerebbe una iniqua quanto ingiusta disparità di trattamento tra i soggetti esclusivamente in ragione del momento, più o meno propizio per essi, di stipulazione dei rispettivi contratti di finanziamento. Un’ermeneusi del genere consentirebbe l’intollerabile (non solo giuridicamente anche per il senso comune) coesistenza nel medesimo momento storico di creditori che ricevono tassi calmierati dalla legge antiusura e creditori che, per il mero caso di aver stipulato il contratto prima della sua entrata in vigore, godono di vantaggi esorbitanti, i quali avrebbero assunto il carattere dell’illiceità se solo avessero trovato la propria fonte in un negozio concluso qualche tempo dopo[3].
In secondo luogo, la riduzione al tasso massimo consentito degli interessi maturati in epoca posteriore alla definizione della soglia usuraria costituisce, a ben vedere, applicazione del criterio ermeneutico generale di conservazione del contratto ex art. 1367 c.c. e di quello di buona fede e correttezza ex art. 1175 e 1375 c.c., i quali impongono al creditore di compiere quanto necessario per permettere l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore, specie quando questi si sia comunque palesato disponibile in tal senso, seppure a condizione di ottenere una rinegoziazione del rapporto. In tal senso, allora, un eventuale fermo rifiuto opposto, al riguardo, ad opera del creditore, riflettendo una chiara repulsione dalla sua sfera della considerazione dei controinteressi del debitore, manifesta un abuso da parte del titolare del diritto di credito, che contraddice il dovere di solidarietà, anche economico-sociale, sancito dall'art. 2 della Carta Fondamentale. Principio, quest’ultimo, che, come statuito da una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che qui giova richiamare (la n. 28056/2008), operando come criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti di un rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altro.
In terza battuta, ragionando in termini penalistici, una simile lettura collima alla perfezione con il dettato dell’art. 644 ter c.p., il quale, nel disciplinare la decorrenza del termine prescrizionale del delitto di usura, identifica il suo momento consumativo nell’ultima riscossione degli interessi e del capitale e non, invece, in quello della loro pattuizione[4]
Punto quarto: siffatta ricostruzione si inserisce senza soluzione di continuità nella sempre più consolidata e recente tendenza di attribuire rilevanza alle sopravvenienze contrattuali, anche a quelle cd. atipiche, ossia non espressamente individuate a priori dalla legge, tra le quali rientra il periodico aggiornamento del tasso-soglia degli interessi.
Ancora, il meccanismo così delineato appare del tutto fedele, argomentando in chiave intenzionalistico-teleologica, alla voluntas del legislatore antiusura, ossia quella di combattere il pernicioso fenomeno nella sua totalità e con il massimo vigore. Di talché, risulterebbero avverse a tale spirito rigoristico limitazioni di natura cronologica.
In aggiunta, il periodico aggiornamento del saggio di interesse costituisce l’immediato precipitato, in ambito pratico, del dettato degli articoli 1284 e 821 c.c., a mente dei quali, da un lato, il tasso è determinato in ragione d’anno, e, dall’altro, i frutti civili, tra i quali sono ricompresi gli interessi maturati sul capitale, si acquistano giorno per giorno.
Per di più, laddove si dovesse effettivamente conferire centralità soltanto al momento della pattuizione, elidendo ogni riferimento a quello proprio della dazione degli interessi, l’organicità e l’unità dell’ordinamento giuridico risulterebbero gravemente pregiudicate. Si entrerebbe, infatti, in conflitto proprio con quella disposizione penale (art. 644 c.p.), preliminarmente assunta quale architrave di tutto l’impianto normativo antiusura e, poi, di fatto, ampiamente disattesa nella parte in cui prevede la punibilità del delitto di usura ove il reo si sia fatto dare (e, quindi, non solo promettere), i vantaggi usurari[5].
Quest’ultimo indirizzo ermeneutico, inoltre, si fonda su una vasta speculazione dottrinale secondo la quale mentre l’usura originaria è penalmente sanzionata dall’art. 644 c.p. e civilmente con la gratuità del mutuo, di contro, quella sopravvenuta assumerebbe rilevanza esclusivamente quale illecito civile, sotto forma ora di nullità, ora di inefficacia[6]. Tale differenziazione di trattamento sarebbe giustificata in ragione del fatto che la disciplina sull’usura è contenuta all’interno di una norma penale incriminatrice che, in quanto tale, non può avere applicazione retroattiva. Nessuno, infatti, può essere punito per un fatto che al momento in cui è stato commesso non era previsto come reato, così come nessuno può essere punito in forza di una norma incriminatrice entrata in vigore dopo la commissione del fatto: nullum crimen, nulla poena sine praevia lege. Il principio di irretroattività si presenta, invero, come un principio generale dell'intero ordinamento, come tale, dunque, espressione di esigenze non esclusive del diritto penale. Mentre in via generale, però, siffatto principio ha il rango di legge ordinaria (art. 11 disp. prel. c.c.) e dunque è legittimamente derogabile dal legislatore ordinario, nella materia penale esso assume dignità costituzionale (art. 25 comma 2 Cost.) e dunque non può mai essere derogato dal legislatore ordinario. Le esigenze sottese al principio di irretroattività assumono, a ragione, un carattere del tutto speciale nella materia penale.
Dall’altro lato, però, non occorre dimenticare che l'art. 2 commi 2 e 3 c.p. evidenzia che anche in materia penale è possibile che la legge abbia efficacia retroattiva: ciò, tuttavia, solo quando si tratti di norma più favorevole al reo rispetto a quella vigente al momento del commesso reato. Questo però, evidentemente, non è il caso dell’usura sopravvenuta.
3. L’usura sopravvenuta al vaglio delle Sezioni Unite.
A calmierare le suddette tensioni interpretative, sono di recente intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte (sentenza n. 24675/2017), le quali, in conformità al primo orientamento innanzi esposto, hanno ripudiato recisamente la tesi dell’illiceità degli interessi divenuti in executivis ultra-legali.
In particolare, nell’articolato quanto cristallino iter motivazionale, il Supremo Consesso muove le distanze da quella dottrina che riconosce cittadinanza nel nostro ordinamento all’usura sopravvenuta sulla scorta dell’assunto secondo il quale essa rileverebbe solo in ambito civile e non anche in quello penale. Fa notare infatti, il giudice nomofilattico, che l’art. 644 c.p. è la sola ed unica disposizione che, nel nostro sistema giuridico, contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità. Anche l’art. 1815 c.c., a ben vedere, nel sanzionare civilmente l’usura, presuppone una nozione di tale concetto definita aliunde: ossia nella norma penale in bianco richiamata, così come integrata dal meccanismo di cui alla l. n. 108/96. Ne consegue allora che non può parlarsi di usura all’infuori dello steccato delimitato dall’art. 644 c.p., così come spiegato dalla legge d’interpretazione autentica del 2001. Al fine di poter validamente esprimere un giudizio di usurarietà, dunque, non può non farsi riferimento al momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente da quello del loro effettivo pagamento: sanzione penale e sanzione civile non possono, in alcun modo, essere scisse. La Corte, in tal modo, realizza un punto di incontro tra diritto civile e diritto penale, mediante una lettura sistematica e coordinata dell’intero quadro normativo in materia[7].
Con la pronuncia in commento, inoltre, sono state definitivamente tacitate quelle voci volte a figurare nel nostro sistema civilistico la categoria, affascinante quanto controversa e sistematicamente inconsistente, della nullità sopravvenuta delle clausole aventi ad oggetto tassi d’interesse divenuti usurari nel corso del rapporto (cd. nullità parziale sopravvenuta), le quali, mediante il meccanismo sostitutivo di cui all’art. 1339 c.c., avrebbero dovuto essere conseguentemente sostituite con altrettante aventi ad oggetto ora il tasso legale ora il tasso soglia pro tempore vigente.
Tale soluzione aveva dato fin da subito adito a molti dubbi e perplessità.
Secondo l’insegnamento tradizionale, infatti, la nullità costituisce un vizio genetico del contratto, che accompagna lo stesso fin dalla sua venuta ad esistenza, di talché si assume come necessariamente contemporanea l’invalidità del medesimo, o di una sua parte, con il momento della sua conclusione.
Per cercare di superare tale impasse, allora, i fautori della teoria della nullità sopravvenuta hanno proposto di riconoscere alla stessa effetti ex nunc, invece che ex tunc, allorquando essa abbia ad oggetto contratti di durata, quali quelli di finanziamento. Peraltro, argomentano detti Autori, quello appena individuato non sarebbe né il primo né l’unico esempio, nel nostro sistema giuridico, di esclusione di effetti retroattivi ad ipotesi incidenti su rapporti di durata: si pensi, a titolo esemplificativo, alla disciplina della condizione risolutiva ex art. 1360 comma 2 c.c.; a quella prevista in materia di recesso unilaterale dall’art. 1373 comma 2 c.c.; o, ancora, a quelle prescritte in tema di risoluzione per inadempimento dall’art. 1458 c.c. e per eccessiva onerosità sopravvenuta dall’art. 1467 c.c.[8].
Tale argomentazione, però, non coglie nel segno (tra i suoi detrattori si cita, tra tutti, Tommasini).
Essa, invero, poggia sull’erroneo assunto secondo il quale la nullità, invece che sull’atto, incida sui suoi effetti e, dunque, sul rapporto da esso regolato. Il ché, evidentemente, fa attrito con i principi generali dettati in materia di validità ed efficacia dei contratti. Da ciò discende la radicale impossibilità di qualificare come invalido un contratto e, al tempo stesso, mantenere in vita gli effetti da questo già prodotti, a meno di non rendersi responsabile di un controsenso.
Come conciliare, però, l’approdo cui si è appena giunti con le diverse ipotesi di nullità che, soprattutto nella legislazione speciale, permettono comunque, ad un contratto nullo, la produzione di taluni limitati effetti? Orbene, la confusione in cui si rischia facilmente di cadere deriva dalla nozione stessa di nullità sopravvenuta. Tale espressione, infatti, secondo la più accorta dottrina, deve essere intesa nei seguenti termini: in tanto è possibile discorrere di sopravvenienza della nullità di un contratto, in quanto quest’ultimo non abbia ancora spiegato i suoi effetti giuridici (Santoro Passarelli). Questa costituisce, a ben vedere, l’unica interpretazione che permette di bilanciare, in modo quanto più prossimo ad equità, la sistematica della nullità successiva con quella della nullità tradizionale.
In tal senso, allora, appare chiaro che si potrà discutere di nullità sopravvenuta solo ed esclusivamente in relazione a fattispecie negoziali ad effetti differiti o facenti parte di un iter a formazione progressiva; non di certo con riguardo a contratti di durata, tra i quali quelli di finanziamento (es: mutuo), caratterizzati dallo sviluppo nel tempo, e fin dalla loro genesi, delle prestazioni che ne sono oggetto.
Peraltro, tale impostazione, se, da un lato, ammette l’applicazione della disciplina di cui all’art. 1419 comma 2 c.c. alla fattispecie dell’usura sopravvenuta, dall’altro, manca d’interrogarsi sull’operatività alla stessa anche del comma 1, il quale recita testualmente che “la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”. Non è infatti peregrino ritenere che la clausola contenente la determinazione degli interessi dovuti rivesta carattere essenziale per il mutuante, cosicché è ipotizzabile che, laddove questi fossero stati più bassi, egli non avrebbe sottoscritto il contratto[9].
Prendendo le mosse da dette considerazioni, parte della dottrina aveva allora sostenuto una tesi diversa, ossia quella dell’inefficacia successiva del contratto (così, Gentili). Essa, sebbene cagionata da fatti sopravvenuti, non adultera la struttura della fattispecie negoziale, incidendo unicamente sul piano degli effetti: proprio in virtù di ciò, appare più confacente a risolvere il contrasto fra norme imperative sopraggiunte e contratto già in essere.
Anche tale ricostruzione dogmatica, tuttavia, è andata, a poco a poco, sgretolandosi.
L’inefficacia, in effetti, non si pone, come propugnato dalla tesi innanzi esplicata, in rapporto di alternatività rispetto all’invalidità (id est: nullità); anzi, al contrario, essa costituisce la principale conseguenza della patologia del contratto: l’una, pertanto, si definisce e si conforma in ragione dell’altra. Parlare di inefficacia come di altro rispetto alla nullità (o all’annullabilità) è assolutamente insensato oltre che fuorviante.
Si espone a severe obiezioni anche un’altra tesi, la quale individuava quale rimedio applicabile alla sopravvenuta usurarietà dei tassi l’esperimento dell’azione di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Ai sensi dell’art. 1467 comma 1 c.c. “nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto”, la quale, in virtù del rinvio operato all’art. 1458 c.c., “non ha effetto con riguardo alle prestazioni già eseguite”. Essa, dunque, non opera retroattivamente, atteso che l’onerosità è sopravvenuta e le prestazioni precedenti rivestono carattere di autonomia. La risoluzione poi, secondo quanto esplicitato dal secondo comma dell’art. 1467 c.c. ed ulteriormente ribadito dal successivo art. 1469 c.c., non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. Infine, in un’ottica deflattiva del contenzioso e nel rispetto del principio di conservazione del contratto, il comma 3 della disposizione interpretanda consente alla parte contro la quale la risoluzione è domandata di evitarla offrendosi di riequilibrare le malferme condizioni contrattuali.
Tale impostazione è stata tuttavia oggetto di svariate critiche.
In primo luogo, è stata evidenziata l’inidoneità dello strumento di cui all’art. 1467 c.c. a tutelare efficacemente gli interessi del mutuatario. La sua attivazione, infatti, comporterebbe il contestuale sorgere, sul debitore, dell’obbligo di riconsegnare al mutuante tutta la somma prestata: onere, quest’ultimo, più che poderoso laddove si tratti di finanziamenti ingenti, oltre che spiccatamente in contrasto con il contrapposto interesse delle parti alla conservazione del negozio. Il mutuatario, in altri termini, finirebbe per mettere in moto un congegno a egli stesso, in molti casi, sfavorevole.
In seconda battuta, le posizioni ostative all’applicabilità del rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta fanno leva sulla natura non imprevedibile e non eccezionale della variazione dei tassi d’interesse in un contratto di durata qual è quello di mutuo. Tale oscillazione ricadrebbe, in molti casi, nell’alea normale di questa tipologia di contratti con la conseguenza che gli effetti da questa scaturenti non possono che ricadere nella sfera del mutuante o del mutuatario, a seconda che ci si trovi al cospetto di finanziamenti a tasso fisso ovvero a tasso variabile[10].
Ancora, milita a sostegno della tesi negazionista in commento il tradizionale assunto, scandito adamantinamente già dalla rubrica dello stesso art. 1467 c.c., per il quale l’istituto dell’eccessiva onerosità è pienamente confacente alla natura giuridica dei contratti a prestazioni corrispettive, ossia perfettamente sinallagmatici. Ora, se, da un lato, è di tutta evidenza che il mutuo non può essere considerato come negozio unilaterale, dall’altro coglie nel segno quell’approdo dottrinario che lo qualifica in termini di contratto bilaterale cd. imperfetto. A ben vedere, infatti, in tale schema negoziale alla dazione della somma richiesta si accompagna non solo la restituzione del capitale ma anche la corresponsione degli interessi: al “do” del creditore fa da contraltare un “des” non perfettamente simmetrico del debitore. Mentre l’obbligo di restituzione del tantundem, cioè altrettante cose della stessa specie e qualità, rientra nelle caratteristiche generali del contratto di mutuo, che – ricordiamo - è un negozio traslativo di proprietà a carattere restitutorio, l’obbligo del pagamento degli interessi, tipico del solo mutuo oneroso, rappresenta il corrispettivo del godimento della res da parte del mutuatario e del corrispondente sacrificio patito dal mutuante[11].
Un'altra soluzione, profilata da minoritaria dottrina, consiste nell’esperimento dell’azione di risoluzione per impossibilità sopravvenuta.
Per i sostenitori di tale teoria, le ipotesi di sopravvenuta illiceità possono essere giustapposte per aedem ratio a quelle di impossibilità sopravvenuta: in entrambi i casi, infatti, l’obiettivo è quello di non imputare ai contraenti le conseguenze giuridiche dell’impossibilità di eseguire la prestazione, a differenza di ciò che avviene in caso di inadempimento. Sotto questa prospettiva, l’usura sopravvenuta può allora apprezzarsi come un’ipotesi di impossibilità parziale della prestazione ex art. 1464 c.c., la quale comporta due effetti tra loro alternativi: la riduzione della prestazione o l’assegnazione al creditore del diritto di recesso, ove questi non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale da valutarsi in senso oggettivo alla luce del criterio di non scarsa importanza cui fa riferimento l’art. 1455 c.c..
Anche tale sistematica non è andata esente da censure e disappunti.
In primis, anche in questo caso è di tutta evidenza che lo strumento risolutorio rappresentato dal recesso ex latere creditoris non risulta affatto funzionale a quelli che sono i reali interessi delle parti contraenti, primo fra tutti quello al mantenimento in vita del contratto.
In secondo luogo, ammesso che lo sia, ciò non significa che tale rimedio possa essere attivato in ogni caso da parte del mutuante, essendo, di contro, necessario che il suo interesse alla caducazione del negozio in corso prevalga su quello, evidentemente opposto, del debitore alla manutenzione del medesimo. Ebbene, non v’è chi non veda come, in contesti di questo tipo, l’esito dell’operazione di bilanciamento richiesta non possa che essere di segno favorevole per il debitore: viceversa, infatti, si accorderebbe preminenza all’interesse del creditore a ricevere una prestazione contraria a norme imperative piuttosto che a quello del debitore a non vedersi applicati interessi usurari. Il ché appare intollerabile, prima ancora che da un punto di vista squisitamente giuridico, già sul piano logico, oltre che etico e morale stante la forte riprorevolezza sociale che aleggia attorno al fenomeno feneratizio, non a caso penalmente punito con estremo vigore.
Altri giuristi avevano, invece, preferito affrontare il problema dell’usurarietà sopravvenuta ricorrendo a rimedi di carattere manutentivo, nel novero dei quali è possibile ulteriormente operare un distinguo tra quelli di tipo successivo e quelli di tipo preventivo.
Tra i primi, possiamo ricordare quello, già in precedenza accennato e previsto dall’art. 1467 comma 3 c.c., consistente nella riduzione ad equità della controprestazione.
Questo, se da un lato permette certamente di mantenere in vita il contratto, dall’altro non appare del tutto appagante in quanto tale scelta, per espresso ordito normativo, può provenire esclusivamente dalla parte contro la quale è domandata la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, ossia il mutuante; il mutuatario, di contro, resterebbe impotente in balia della scelta della controparte.
Tra i secondi, si annoverano le clausole di salvaguardia, le clausole di indicizzazione e le clausole di rinegoziazione.
Procediamo con ordine.
Le clausole cd. di salvaguardia sono disposizioni pattizie attraverso le quali viene fatto divieto al creditore di richiedere, nel corso del rapporto, interessi ad un tasso superiore rispetto a quello fissato dalla legge.
Mediante le clausole di indicizzazione, invece, si àncora la prestazione dovuta (e quindi pure il suo quantum) all’andamento di determinati parametri reali, monetari, valutari o finanziari (si pensi, a titolo esemplificativo, all’indice dei prezzi dei principali beni di consumo, quotazioni di borsa di valori mobiliari, rendimento dei B.O.T. o il valore di una specifica moneta estera). Tale strumento, rispetto a quello precedente, è, senza ombra di dubbio, nella stragrande maggioranza dei casi, maggiormente rischioso per l’obbligato; tuttavia, permette, pur sempre, di perimetrare in modo più o meno sicuro l’incidenza della legge sui saggi d’interesse.
Per ultimo, le clausole di rinegoziazione permettono alle parti di ritoccare, in corso d’opera, il contenuto delle prescrizioni relative ai tassi d’interesse.
Tutti e tre i marchingegni di cui sopra, sebbene formalmente differenti fra loro, sono accomunati dal fatto di produrre, nell’economia del singolo negozio, un effetto similare.
A mezzo di esse, sia che si tratti di clausole di salvaguardia che di indicizzazione ovvero di rinegoziazione, viene infatti elevato a rango di obbligo contrattuale il dovere del creditore (verosimilmente un istituto di credito nel caso di mutuo) di non imporre al debitore tassi superiori alla soglia legale. Da ciò consegue che l’eventuale violazione delle stesse costituisce, indubitabilmente, un’ipotesi di inadempimento contrattuale, la quale legittimerà l’altro contraente all’esperimento dell’azione di cui all’art. 1453 c.c.: egli potrà, quindi, a sua scelta, insistere nell’adempimento o chiedere la risoluzione del negozio, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
Last but not least, trattando di rimedi volti a fronteggiare il fenomeno dell’usura sopravvenuta, non può non menzionarsi quell’orientamento dottrinario e pretorio, condiviso anche dal Collegio dell’A.B.F. (Arbitro Bancario Finanziario) che fa leva sui concetti di buona fede in senso oggettivo ed abuso del diritto.
Per i patrocinatori di tale indirizzo ermeneutico, i vizi riguardanti il funzionamento del contratto possono trovare una più coerente e completa regolamentazione nel quadro delle norme disciplinanti il comportamento dovuto dalle parti, invece che in quello relativo alla validità degli atti[12].
Dalla previsione di cui all’art. 1375 c.c., tali Autori fanno discendere il divieto per il creditore di pretendere il pagamento di interessi ormai divenuti usurari, a meno di non violare l’obbligo di comportarsi in maniera onesta e leale così sottraendosi ai doveri di solidarietà economica e sociale imposti dall’art. 2 Cost..
Viene, dunque, avallata, in congruenza all’indirizzo oggi dominante in dottrina ed in giurisprudenza, un’interpretazione evolutiva della clausola generale di buona fede e correttezza, per la quale essa diviene fonte di obblighi ulteriori rispetto a quelli programmati nel regolamento contrattuale, laddove questi si rendano necessari a soddisfare in maniera più incisiva le ragioni di controparte ed a patto che, naturalmente, l’inserzione dei medesimi non renda eccessivamente gravoso il sacrificio imposto al soggetto chiamato all’adempimento[13].
Dalla modesta visione, propugnata dalla vetusta teoria valutativa (Natoli), della buona fede quale criterio valutativo di secondo grado, ossia quale strumento offerto al giudicante per analizzare solamente ex post, e quindi già nella fase dinamica del rapporto, la conformità del comportamento tangibilmente adottato dalle parti rispetto a quanto imposto dal paradigma contrattuale, si passa adesso ad una concezione della stessa in chiave precettiva (Di Majo), in virtù della quale la buona fede agisce come criterio valutativo di primo grado capace d’incidere fin da subito sul regolamento negoziale modificandolo, ove necessario, con lo scopo di renderlo maggiormente coerente con l’interesse perseguito dai paciscenti.
Siffatta impostazione presenta, indubbiamente, da un lato, il pregio di non lasciare sfornito di tutele il debitore, il quale, a fronte della violazione del dovere di buona fede ad opera della controparte, potrà agire, in un’ottica manutentiva del negozio in essere, ricorrendo all’istituto dell’exceptio doli generalis; dall’altro, rendendo inesigibile la prestazione divenuta illecita, combatte il fenomeno dell’usura sopravvenuta in modo da non intaccare la fase genetica del rapporto.
Nonostante ciò, non è mancato chi, prontamente, ha messo in rilievo un importante profilo di friabilità anche di tale sistematica.
Ci si è interrogati, in particolare, sull’esatto significato da attribuire all’enigmatico sintagma “violazione del principio di buona fede”, posto che, a dispetto degli svariati riferimenti legislativi a tale nozione, manca dappertutto una sua puntuale definizione. Problema, quest’ultimo, di non poco conto se si tiene a mente il fatto che, solo laddove si ravvisi una violazione di tal fatta, potranno accordarsi le tutele di cui s’è detto al soggetto danneggiato.
Tradotto in termini più familiari per la questione oggetto di disamina, ci si è chiesti se la semplice richiesta da parte del mutuante di interessi divenuti usurari nel corso del rapporto negoziale integri di per sé sola un’ipotesi di violazione del canone di correttezza ovvero se, ai fini della sua predicabilità, sia necessario un quid pluris consistente nella necessità di accertamento di un contegno doloso in capo al creditore.
Quest’ultima è stata, a ragione, la risposta maggiormente condivisa.
L’exceptio doli generalis, quale istituto giuridico di derivazione romanistica attraverso il quale è possibile stigmatizzare la condotta abusiva del creditore, postula, infatti, secondo un insegnamento oramai plurisecolare, l’esercizio sleale e doloso dei diritti attribuiti dall’ordinamento al creditore. Di violazione della bona fides si può allora parlare se e solo se il creditore abbia scientemente agito, nel caso concreto, nell’intento di frodare il debitore (si pensi, per esempio, al caso in cui l’istituto di credito fissi, al momento della stipula del contratto di finanziamento, un tasso di interesse appena sotto la soglia massima stabilita per legge essendo però già a conoscenza del futuro prevedibile abbassamento del tasso medio praticato per quella stessa operazione).
In ogni caso, si è fatto notare che, anche dimostrando in modo convincente l’intento tendenzioso del creditore, il mutuatario non potrebbe che richiedere, in casi di questo tipo, il risarcimento dei danni subiti a causa del contegno scorretto di controparte, non sussistendo gli estremi per poter invocare la più stringente tutela di cui all’art. 2932 comma 1 c.c. relativa all’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, ostando a ciò l’impossibilità per il giudice di ricostruire l’ipotetica volontà delle parti trasfondendola in una sentenza di carattere costitutivo. Senza tacere, poi, del fatto che nessun rimedio tale schema prevede per l’ipotesi in cui il debitore abbia già, ingenuamente, provveduto alla corresponsione di interessi divenuti usurari.
Come si può ben evidenziare, dunque, tutti i tentativi fin qui esaminati di dare rilevanza e di disciplinare in forma quantomeno accettabile il fenomeno dell’usura sopravvenuta in ambito civilistico prestano il fianco a critiche più o meno serrate; neppure la pronuncia del Supremo Consesso in repleta seduta è riuscita in tale defatigante intento.
Oggi, tuttavia, tali disquisizioni non hanno più ragion d’esistere.
L’appurata insopportabilità del fenomeno dell’usura sopravvenuta ha polverizzato, giocoforza, tutte le meditazioni affardellatesi in materia nel corso degli ultimi anni e sulle quali ci si è fino ad adesso intrattenuti.
Alla luce del recente pronunciamento delle Sezioni Unite, non può che ritenersi, allora, che i vari rimedi apprestati oggi dall’ordinamento relativamente al fenomeno usurario riguardano, esclusivamente, l’ipotesi di usura originaria, non potendo, di contro, come già ribadito, configurarsi in alcun modo il fenomeno dell’usura sopravvenuta.
In primo luogo, sul fronte penalistico, la panacea prevista per far fronte al fenomeno usurario è costituita, giusta l’art. 644 c.p., dalla reclusione da due a dieci anni e dalla multa da euro 5.000 a euro 30.000.
Sul piano civilistico, il rimedio predisposto all’art. 1815 comma 2 c.c. dal legislatore del ’96 è quello della nullità della clausola feneratizia: trattasi, dunque, di un tipico esempio di nullità parziale ex art. 1419 c.c.. Ciò comporta il venir meno dell’obbligo, per il debitore, di corrispondere gli interessi promessi o convenuti, con conseguente drastica trasformazione del mutuo da contratto a titolo oneroso a contratto a titolo gratuito.
Va prontamente precisato, però, che lo strumento rimediale per ultimo passato in rassegna trova applicazione esclusivamente nel caso di usura pecuniaria ad interessi, ossia l’usura che si verifica nell’ambito di un contratto di finanziamento remunerato con interessi il cui ammontare trascenda il limite imposto ex lege.
Siffatto espediente giuridico non è, di conseguenza, applicabile nei casi di usura reale ovvero in quelli di usura pecuniaria non remunerata a mezzo di interessi. In casi di tal genere, come già s’era accennato all’inizio della trattazione, non rimane esperibile che il rimedio dell’azione generale di rescissione per lesione ricordando, però, che essa non è ammissibile, in virtù del comma 2 dell’art. 1448 c.c., se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto (cd. lesione ultra dimidium).
Quid iuris, però, per gli interessi (ab origine) usurari maturati nell’ambito di fenomeni di usura reale o pecuniaria non ad interessi che, però, non presentino lo specifico contrassegno richiesto dall’art. 1448 comma 2 c.c.? In questi casi, alcuni Studiosi ipotizzano una responsabilità di natura precontrattuale in capo al mutuante/finanziatore. Viene, in tal modo, valorizzato il dato fattuale della collocazione cronologica della vicenda in una fase che precede la conclusione del negozio, in cui ancora le parti non sono legate da un vincolo propriamente contrattuale, ma che, al contempo, coinvolge dei soggetti che non possono ritenersi del tutto estranei, essendo già venuti in contatto nel corso delle trattative[14].
Note bibliografiche
[1] R. Russo, “Note in tema di usura sopravvenuta” - Nota a Corte di Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 19/10/2017 n° 24675, in IURISPRUDENTIA.it, http://www.iurisprudentia.it/note-in-tema-di-usura-sopravvenuta/.
[2]“La l. 198/96 che ha modificato l’art. 644 c.p. è di immediata applicazione nei relativi rapporti limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso” (in questi termini si è espressa Cass., Sez. III, n. 1126 del 02/02/2000).
[3] D. D’Adamo, “L’usura sopravvenuta e le sopravvenienze contrattuali: tra negazionismo ed esigenze di tutela”, in Salvis Juribus.
[4] M. Ricciardi, “L’usura sopravvenuta tra abuso del diritto e nullità. Rimessa la questione alle Sezioni Unite”, in Cammino Diritto, https://www.camminodiritto.it/public/pdfarticoli/2338_8-2017.pdf.
[5] A. Zurlo, “Usura sopravvenuta: la pronuncia delle Sezioni Unite. Osservazioni e rilievi critici”, in Giuricivile, https://giuricivile.it/usura-sopravvenuta-sezioni-unite/.
[6] M. Fratini, “Manuale di diritto civile (Diritto Privato)”, IV Ed., NelDiritto Editore, 2018, p. 293.
[7] R. Russo, “Note in tema di usura sopravvenuta” - Nota a Corte di Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 19/10/2017 n° 24675, op. cit..
[8]G. Guarina, “L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite in tema di «usura sopravvenuta»”, in Dir. civ. cont., 15 marzo 2017.
[9]F. Giuliani, “Riflessioni su Cassazione 19 ottobre 2017 n. 24675: le Sezioni Unite decretano il definitivo tramonto dell’usura sopravvenuta”, in GIURETA – Vol. XVI, 2018,http://www.giureta.unipa.it/phpfusion/images/articles/2018/05_Giuliani_DirPriv_21022018.pdf.
[10] D. D’Adamo, “L’usura sopravvenuta e le sopravvenienze contrattuali: tra negazionismo ed esigenze di tutela”, in Salvis Juribus, op. cit..
[11] M. Fratini, “Manuale di diritto civile (Diritto Privato)”, op. cit., pp. 616 – 619.
[12] M. Ricciardi, “L’usura sopravvenuta tra abuso del diritto e nullità. Rimessa la questione alle Sezioni Unite”, op. cit..
[13] M. Fratini, “Compendio di diritto civile”, III Ed., Nel Diritto Editore, 2015, pp. 306 – 310.
[14] M. Fratini, “Manuale di diritto civile (Diritto Privato)”, op. cit., pp. 405 – 409.