Pubbl. Mar, 16 Apr 2019
La prescrizione del reato a seguito della Legge Spazzacorrotti
Modifica paginaLa legge n. 3 del 2019 ha radicalmente modificato la decorrenza dei termini di prescrizione del reato, determinando che la stessa sia sospesa dalla pronunzia della sentenza di primo grado fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio. Una rivoluzione condivisibile?
Sommario: 1. L'istituto della prescrizione; 2. Le riforme della prescrizione del 2005 e del 2017; 3. La legge n° 3 del 9 gennaio 2019; 4. Le criticità della nuova prescrizione.
1. L’istituto della prescrizione
La prescrizione è uno degli istituti fondamentali del nostro sistema penale e rappresenta uno dei pilastri dello stato di diritto, in quanto è manifestazione del maturato disinteresse dello Stato a punire il presunto colpevole per una condotta ritenuta illecita, al fine precipuo di tentare il reinserimento sociale dell’autore del reato.
Le applicazioni della prescrizione previste dal Codice Penale sono due: una attiene alla fase procedimentale e l’altra attiene all’esecuzione della pena. In questa sede, però, ci soffermeremo sulla prima, ovvero l’estinzione del reato per decorso del tempo. Nello specifico, trascorso un periodo di tempo definito senza che sia giunta una decisione irrevocabile nel merito, l’ordinamento ritiene che debba essere dichiarato estinto il reato e non debba continuarsi a perseguire il reo. Tale principio è stato esplicato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n° 23 del 14 febbraio 2013[1]. La prescrizione così intesa può decorrere tanto nel corso delle indagini preliminari, quanto durante il giudizio di primo grado, ma anche successivamente negli ulteriori gradi di giudizio[2].
Proprio perché possono susseguirsi diverse fasi del procedimento penale, esistono – nella disciplina codicistica – due diversi termini di prescrizione: il termine “ordinario” ed il termine “massimo”. Il primo decorre dalla consumazione del fatto tipico ritenuto illecito e ricomincia a decorrere dal giorno successivo al verificarsi di un atto interruttivo; il secondo, invece, è determinato secondo i criteri di calcolo previsti dall’art. 157 c.p. e prevede l’applicazione solo dei periodi di sospensione – a differenza del termine ordinario – ma non subisce l’influenza di ulteriori atti interruttivi.
Il tema della prescrizione - a fronte della indubbia lunga durata dei procedimenti penali - è stato più volte oggetto di rielaborazione, in quanto il legislatore ha tentato, in diverse occasioni, di dilatare i tempi del processo al fine di non far decorrere il termine di prescrizione. Invero, ogni modifica normativa di tal genere si è rivelata parzialmente inefficace, laddove si è riscontrato che è maturata la prescrizione per circa il 62 % dei reati ancora in fase di indagini preliminari o, comunque, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado[3].
2. Le riforme della prescrizione del 2005 e del 2017
Gli interventi, come si diceva, sono stati reiterati e, dopo alcune modifiche di minor rilievo, si sono concentrati dal 2005 in poi. La prima sostanziale modifica – che ha riscritto i criteri di computo della prescrizione, collegandola per lo più ai precedenti penali dell’autore del reato – è stata la legge n. 251 del 5 dicembre 2005[4]. La legge appena indicata ha ancorato il termine ordinario della prescrizione alla pena massima irrogabile per il reato – escluso l’effetto delle circostanze generiche ed applicati solo gli aumenti e le riduzioni di pena derivanti dalle circostanze ad effetto speciale[5] - ed ha previsto un aumento del termine per dichiarare estinto il reato che è determinato dalla presenza di eventuali recidive, così come regolate dall’art. 99 del codice penale[6].
Invero, la riforma ex-Cirielli aveva sostanzialmente incrementato i termini prescrizionali per alcuni reati – arrivando addirittura ad escludere la prescrizione per alcune tipologie di reati[7] - mentre aveva ridotto il termine di estinzione del reato per altre ipotesi (tra cui l’ipotesi di corruzione ed altri reati contro la pubblica amministrazione).
Nonostante l’aumento dei termini di durata della prescrizione, tuttavia, non si è riscontrata la diminuzione dell’estinzione dei reati auspicata dal legislatore dell’anno 2005 e – così – è stata avvertita dai governi successivi, ancora una volta, la necessità di intervenire sul regime della prescrizione.
Nell’anno 2017, con la legge n° 103, il legislatore ha stabilito un’ulteriore modifica della disciplina oggetto della nostra disamina. In questo caso, sono state riscritte alcune delle cause di interruzione della prescrizione[8] e sono state inserite ulteriori condizioni di sospensione della stessa[9], con la previsione di un duplice periodo di sospensione che decorre al termine del periodo stabilito per il deposito delle motivazioni della sentenza: diciotto mesi di sospensione dopo la sentenza di primo grado ed ulteriori diciotto di sospensione dopo la pronunzia della sentenza in grado di appello, in caso di proposizione del ricorso per Cassazione[10] e qualora – in entrambe le ipotesi – il giudizio di impugnazione non si sia celebrato entro il periodo stabilito di un anno e sei mesi. Invero, tale riforma ha già evidenziato un primo momento di criticità, laddove ha previsto che la causa sospensiva anzidetta sia applicabile esclusivamente ai soggetti condannati, non potendosi applicare a coloro che siano stati assolti, seppur non con sentenza passata in giudicato.
Come è ovvio, gli effetti di questa novella legislativa non hanno ancora trovato riscontro, considerato che non si è avuto modo di “verificare sul campo” una modifica legislativa che paleserà la sua portata – innovativa o meno – a distanza di circa 6 anni dall’entrata in vigore. Va evidenziato – infatti – che non sussiste dubbio alcuno che quella della prescrizione sia disciplina di carattere sostanziale e, pertanto, che per essa valga la previsione dell’art. 2 c.p.[11]. In particolare, infatti, secondo la previsione del citato articolo il principio del favor rei lumeggia l’applicazione della norma penale, per cui – nel caso di modifica di una norma sostanziale – va sempre applicata la norma più favorevole al reo[12].
3. La legge n° 3 del 9 gennaio 2019
Se, dunque, già nell’anno 2017 si è dato vita ad una modifica sostanziale alla disciplina della prescrizione – portando la stessa ad un minimo di 10 anni e 6 mesi per i delitti ed a 7 anni per le contravvenzioni[13] - la modifica approvata con la legge n° 3 del 9 gennaio 2019[14], nell’immaginario collettivo nota come “spazzacorrotti”, ha condotto[15] ad un’ulteriore rivisitazione sostanziale della disciplina della prescrizione con degli effetti imprevedibili per una serie di aspetti, ma che presenta anche profili di dubbia costituzionalità.
L’art. 1 lett. d), e), f) della legge 3 dell’anno 2019 (pubblicata in gazzetta ufficiale n° 13 del 16 gennaio 2019), infatti, recita:
d) all'articolo 158, il primo comma è sostituito dal seguente: «Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole; per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione»;
e) all'articolo 159:
1) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna»;
2) il terzo e il quarto comma sono abrogati;
Dunque, da una parte è stato previsto un intervento di prolungamento dei tempi di prescrizione per tutte le ipotesi di reato – abrogando il meccanismo di sospensione della prescrizione all’esito del giudizio varato dalla legge 103 del 2017 – e, nel contempo, è stata riscritta la disciplina del reato continuato[16].
4. Le criticità della nuova prescrizione
Molteplici sono le problematicità di una riforma che ha lasciato sconcertati tutti gli operatori del diritto e molti degli accademici[17]. In primo luogo, come emerge ictu oculi, la norma in questione ha previsto che dopo la pronuncia di primo grado, la prescrizione sia sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna. In sostanza, il legislatore ha previsto che non decorra più la prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, di fatto disapplicando la previsione dell’art. 161 c.p. sugli atti interruttivi e sulla sospensione[18]. Tale disciplina appare, ad una prima lettura, in probabile contrasto con gli articoli 24 e 111 della nostra Carta Costituzionale, laddove si disciplina la ragionevole durata del processo, il diritto alla difesa nel processo ed il diritto ad un equo procedimento. Ma contrasta, altresì, con il dettato dell’art. 6 CEDU[19] e – secondo una lettura costituzionalmente orientata della funzione rieducativa della pena – anche con il dettato dell’art. 27 della nostra Carta fondamentale.
Ulteriore profilo di criticità attiene l’entrata in vigore della citata norma. Infatti, a differenza dell’intero testo, che è entrato in vigore lo scorso 31 gennaio 2019, la riforma della prescrizione – per espressa indicazione del legislatore – entrerà in vigore il 1 gennaio 2020.
Da tale ritardata entrata in vigore derivano due differenti problematiche: da una parte, va evidenziato che è oggi varata una riforma che ancora non è efficace ed i cui profili di incostituzionalità potranno essere riscontrati solo tra diversi anni quando, cioè, saranno sospesi i termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado pronunciata per reati consumati dopo l’entrata in vigore della riforma e per i quali non sia stata applicata misura cautelare in essere al momento del giudizio[20]. Sotto altro profilo, va evidenziato che tale disciplina genera una difficile valutazione di diritto intertemporale. Se, infatti, la nuova prescrizione entrerà in vigore all’inizio del prossimo anno, è pur vero che la legge è già stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale e, pertanto, esiste una presunzione di prevedibilità di una disciplina più severa a partire già dalla pubblicazione della legge, circostanza – questa – che potrebbe comportare problemi applicativi anche in materia di diritto intertemporale, in assenza proprio di una specifica disciplina.
All’esito di questa breve disamina, appare opportuno soffermarsi su due ulteriori aspetti della recente novella legislativa. Da una parte, invero, non si sentiva la necessità di tale rivisitazione della prescrizione. A prescindere, infatti, dai profili di incostituzionalità già in precedenza evidenziati, va sottolineato che la legge del 2005 aveva comportato una dilatazione dei tempi di estinzione del reato, che sono giunti a soglie di 30 anni per il reato di disastro ambientale o di omicidio volontario, ad oltre 15 anni per l’omicidio stradale, ed ancora ad oltre 24 anni per i reati di violenza sessuale e di rapina aggravata. A ciò si aggiunga ancora che per alcuni delitti che vedono vittime minorenni, il termine prescrizionale è “congelato” fino alla maggior età della vittima[21].
Sotto altro profilo, la sospensione della prescrizione dopo il giudizio di primo grado – e, dunque, la sua applicazione solo nei gradi successivi – non potrà che comportare l’ulteriore dilatazione dei tempi di definizione del giudizio di impugnazione, con un conseguente affievolimento delle garanzie per gli imputati, anche alla luce della riforma del dibattimento di secondo grado varata sempre con la riforma Orlando[22] e con drammatiche conseguenze: da una parte si assisterà ad un ulteriore ed inevitabile aumento del numero e degli importi dei risarcimenti danni per l’irragionevole durata del processo in base alla Legge n° 89 del 2001 (nota come “Legge Pinto”)[23], dall’altra si riscontrerà la concreta possibilità che un soggetto – macchiatosi di un reato in giovane età – debba poi espiare la pena decorsi diversi anni dalla consumazione del fatto quando – probabilmente – avrà anche intrapreso un percorso di vita diverso; non si può dimenticare, infatti, che all’esito del passaggio in giudicato della sentenza segue un ulteriore periodo (pari al doppio della pena inflitta in concreto) durante il quale è possibile dare esecuzione alla condanna irrogata senza che maturi termine di prescrizione della stessa pena.
[1] “L’indefinito protrarsi nel tempo della sospensione del processo – con la conseguenza della tendenziale perennità della condizione di giudicabile dell’imputato, dovuta all’effetto, a sua volta sospensivo, sulla prescrizione - presenta il carattere della irragionevolezza, giacché entra in contraddizione con la ratio posta a base, rispettivamente, della prescrizione dei reati e del la sospensione del processo. La prima è legata, tra l’altro, sia all’affievolimento progressivo dell’interesse della comunità alla punizione del comportamento penalmente illecito, valutato, quanto ai tempi necessari, dal legislatore, secondo scelte di politica criminale legate alla gravità dei reati, sia al “diritto all’oblio” dei cittadini, quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela. La seconda poggia sul diritto di difesa, che esige la possibilità di una cosciente partecipazione dell’imputato al procedimento”
[2] La norma processuale di riferimento è la previsione dell’art. 129 comma 1 c.p.p., secondo il quale “1. In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza.”.
Senza affrontare troppo nello specifico un tema quantomai complesso, si può evidenziare che la prescrizione può maturare anche dopo la pronuncia di secondo grado, a condizione che l’eventuale ricorso per Cassazione non sia dichiarato inammissibile; in questo caso, infatti, la prescrizione cessa di decorrere – e quindi si cristallizza definitivamente – con la pronuncia di secondo grado. Secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite (sent. n. 12602 del 17/12/2015), l’inammissibilità del ricorso per cassazione anche per manifesta infondatezza dei motivi consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e pertanto ne deriva l’impossibilità di rilevare e dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione a norma dell’art. 129 c.p.p.
[3] Sul punto, per completezza informativa, si rappresenta che diversi organi di stampa hanno riportato tale dato come proveniente dal rappresentante del Governo al momento della discussione del disegno di legge che ha portato alla promulgazione della legge 9 del 2019.
[4] Nota come “legge ex Cirielli”, in quanto proposta dall’allora senatore di Alleanza Nazionale on. Edmondo Cirielli e, successivamente, da lui non più condivisa. La legge in questione è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 7 dicembre 2005 ed è entrata in vigore il giorno successivo. Tale legge, a differenza della legge del 2019 oggetto del presente articolo, ha espressamente indicato un regime transitorio per i procedimenti ed i processi pendenti, ai sensi dell’art. 10.
[5] Si definiscono circostanze ad effetto speciale quelle che comportano un aumento o una riduzione di pena diversa da un terzo della pena – cfr. art. 63 comma 3 c.p. .
[6] “Chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.
La pena può essere aumentata fino alla metà:
- 1) se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole;
- 2) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente;
- 3) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena.
Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l'aumento di pena è della metà.
Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l'aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi.
Se si tratta di uno dei delitti indicati all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l'aumento della pena per la recidiva [è obbligatorio e], nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto.
In nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo.”
[7] In materia di cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano (242 c.p.), attentato contro il Presidente della Repubblica (276 c.p.), sequestro di persona a scopo di terrorismo (art. 289 bis c.p.), devastazione saccheggio e strage (art. 285 c.p.), guerra civile (art. 286 c.p.), strage (422 c.p.), epidemia (438 c.p.), omicidio aggravato ai sensi degli artt. 576 e 577 c.p. (per una panoramica di tutti i termini di prescrizione cfr. A. Bastianello, “Guida Pratica alla prescrizione”, Giuffrè editore, Milano, 2017).
Ha altresì previsto che per alcuni titoli di reato (tra cui il delitto di associazione per delinquere ex artt. 416 bis c.p., ed i delitti previsti dagli articoli 600 c.p. e 601 c.p.), al verificarsi di un atto interruttivo decorra nuovamente il termine di prescrizione ordinario e non quello massimo.
[8] Il legislatore ha previsto che anche l’interrogatorio dinanzi alla P.G. su delega del Pubblico Ministero, a seguito dell’istanza avanzata dall’indagato ex art. 415 bis c.p.p., interrompa i termini di prescrizione.
[9] Le condizioni di sospensione della prescrizione sono previste dall’art. 159 c.p.
[10] Così come previsto dall’art. 1 comma 11, che ha modificato, integrandolo, l’art. 159 c.p.
[11] “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
…
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.
[12] Tale principio trova riscontro non solo in ampia parte della Dottrina (ex pluribus Mantovani, Diritto Penale, Padova, 1979, p. 737 ed ancora Molari, "Prescrizione del reato e della pena", in NN.D.I. XIII, Torino, 1966 680 e ss. ) ma anche nell’ordinanza della Corte Costituzionale n° 24 dell’anno 2017 che ha rimesso alla Corte EDU la questione della natura “sostanziale” della prescrizione.
[13] A differenza del minimo inserito con la riforma dell’anno 2005 che era di anni 7 e mesi 6 per i delitti e di anni 5 per le contravvenzioni
[14] “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”
[15] A seguito della proposizione di un emendamento presentato dai relatori di maggioranza del Partito di governo Movimento 5 stelle.
[16] La legge ex Cirielli, infatti, aveva parzialmente riformulato la precedente disciplina stabilendo che la prescrizione per ogni singola condotta nel reato continuato decorresse dalla consumazione del singolo fatto. La riforma dell’art. 158 c.p., invece, “restaura” la precedente previsione (ante 2005) e stabilisce che la prescrizione decorra dall’ultima delle condotte del reato continuato in contestazione.
[17] Sono stati oltre cento gli accademici che hanno firmato un appello depositato al Presidente della Repubblica in data 19 dicembre 2018 in cui invitavano il Presidente a vagliare i diversi profili di dubbia costituzionalità rilevati nella legge che sarebbe stata licenziata dal Parlamento pochi giorni dopo. (Link Camere Penali)
[18] Come affermato da autorevole Dottrina (G.L. Gatta, "Una riforma dirompente: stop alla prescrizione del reato nei giudizi di appello e di cassazione", in Diritto Penale Contemporaneo, 21 gennaio 2019) non ci troviamo di fronte né ad un atto interruttivo né ad un atto sospensivo della prescrizione, bensì dinanzi ad un nuovo dies ad quem della prescrizione, che prescinde da ogni ulteriore giudizio.
A ciò si aggiunga che la novella legislativa ha abrogato – se non formalmente, sostanzialmente – la previsione del co. 7 dell’art. 157 c.p. Non sarà più possibile, infatti, rinunciare alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, non decorrendo più alcun termine.
[19] In quanto violerebbe il principio del comma 1: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
[20] In questi casi, infatti, la presenza di una misura cautelare coercitiva tende a contingentare i tempi del giudizio.
[21] Lo prevede l’art. 158 c.p. al comma 3: “Per i reati previsti dall'articolo 392 comma 1-bis, del codice di procedura penale, se commessi nei confronti di minore, il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente. In quest’ultimo caso il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato”
[22] Si fa riferimento, nello specifico, al novellato art. 603 c.p.p. che prevede, al comma 3 bis, che “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. Tale novella ha acceso un ampio dibattito – non ancora sopito nonostante diverse pronunce della Suprema Corte di Cassazione – sul novero di impugnazioni rispetto alle quali è necessaria la rinnovazione in sede di appello dell’istruttoria dibattimentale.
[23] Secondo i parametri ormai definiti, infatti, è determinato un indennizzo per ogni anno di durata del processo oltre una soglia determinata per legge in sei anni per i tre gradi di giudizio.