Il rapporto tra terrorismo e stato di emergenza
Modifica paginaIl terrorismo va ricompreso tra le cause della proclamazione di stato di emergenza da parte dei Paesi che ne vengono colpiti, come dimostrato anche dalla cronaca più recente. Al fine di comprendere appieno le conseguenze giuridiche del terrorismo è dunque necessario affrontare il tema dello stato di emergenza e il suo rapporto con tale fenomeno.
Sommario: 1. Introduzione: l’impatto del terrorismo sulla società e il suo atteggiarsi ad emergenza - 2. La definizione di emergenza e le sue varie forme - 3. La struttura della disciplina emergenziale; il rapporto tra emergenza e i fenomeni della guerra e del terrorismo; la vulnerabilità dello Stato costituzionale democratico di fronte all’emergenza terroristica - 4. La struttura dello stato d’eccezione; i modelli “a due” e “a tre” e quelli “monista” e “dualista” - 5. Il rapporto tra sovranità e gestione dello stato d’emergenza - 6. Le misure dello Stato per tutelarsi dal fatto emergenziale e dal rischio di torsione autoritaria in nome della lotta all’emergenza; il paradigma della law of fear. - 7. Conclusioni.
1. Introduzione: l’impatto del terrorismo sulla società e il suo atteggiarsi ad emergenza.
Come è stato già ampiamente spiegato nei primi due articoli[1] sulla tutela dei diritti fondamentali nella lotta al terrorismo, una delle caratteristiche del fenomeno terroristico è l’impatto che esso riesce ad avere sulla società, minando il senso di sicurezza della popolazione così da spingere le istituzioni ad adottare provvedimenti che spesso implicano una riduzione dei diritti individuali o un allentamento di quei sistemi di controllo e limitazione del potere esecutivo tipici dell’ordinamento di uno stato di diritto.[2] Pertanto, il terrorismo va ricompreso tra le cause della proclamazione di stato di emergenza da parte dei Paesi che ne vengono colpiti, come dimostrato anche dalla cronaca più recente[3]. Al fine di comprendere appieno le conseguenze giuridiche del terrorismo, nel presente articolo verrà pertanto affrontato il tema dello stato di emergenza e il suo rapporto con tale fenomeno.
2. La definizione di emergenza e le sue varie forme.
La definizione giuridica di emergenza è incerta[4] e sembra cambiare da Paese a Paese. Talvolta i diversi ordinamenti giuridici non ne danno neanche una definizione, o comunque il termine viene accostato ad altri che consentono di qualificare meglio il contenuto nella concreta situazione. Potremmo definire emergenza “ogni situazione nelle quale le norme giuridiche vigenti si rivelano inadeguate a rimediare alle lesioni o ai pericoli di lesione grave ai principi fondamentali dell’ordinamento”[5]
Lo stato d’emergenza (nonché il fatto emergenziale) comprende fatti naturali (come terremoti, inondazioni, tsunami) ma anche condotte umane come appunto il terrorismo, moti insurrezionali o rivolte. È comunque necessario sottolineare che esso gode di una certa “flessibilità” e afferisce ad una concezione “aperta” di diritto, potendo così coprire qualunque situazione emergente che abbia caratteristiche simili a quelle della clausola aperta.[6] Di fatto, lo stato di emergenza ha negli anni conosciuto il verificarsi di nuove situazioni inizialmente estranee al suo paradigma. Si pensi alle crisi economiche: esse non sono riconducibili né a un evento naturale né a uno causato dall’uomo, in quanto – a differenza dei casi paradigmatici di terrorismo o insurrezione – non rischiano di compromettere valori come l’ordine pubblico o la sicurezza, ma altri e diversi beni individuali e collettivi. Devono inoltre considerarsi le dimensioni sovrannazionali di questa forma di emergenza, le quali comportano lo spostamento dei procedimenti decisionali al di fuori del singolo Stato, in un contesto globale non diverso da quello in cui si dispiegano gli effetti della crisi economica stessa. Certa dottrina[7] riconduce l’emergenza economica, assieme all’emergenza terrorismo, nel più ampio spettro di quella politica.
Nonostante la differente origine di eventi naturali e prodotti dall’uomo, il comune denominatore delle cause di emergenza è rappresentato dall’imprevedibilità e dalla straordinarietà. L’emergenza, infatti, “mette in pericolo l’ordine politico-istituzionale di uno Stato, imponendogli di conseguenza il dovere di reagire prontamente, ma con rimedi diversi da quelli utilizzabili in via ordinaria.”[8] Farebbe eccezione l’emergenza amministrativa[9], la quale deriva da fattori che sono interni alla attività politica in senso stretto (intesa come attività decisionale e amministrativa) e sono sostanzialmente riconducibili alla incapacità di amministrare, ossia di organizzare, gestire e determinare risorse e attività (ad esempio l’emergenza rifiuti, emergenza traffico). Essa è dovuta per tanto allo stesso soggetto che dovrà affrontarla, ed è dunque paradossalmente non solo prevedibile ma evitabile; al contrario dell’emergenza naturale, che deriva da eventi indipendenti dalla attività politica che dovrà affrontarla.
3. La struttura della disciplina emergenziale; il rapporto tra emergenza e i fenomeni della guerra e del terrorismo; la vulnerabilità dello Stato costituzionale democratico di fronte all’emergenza terroristica.
La disciplina emergenziale è dunque strutturata[10] sulla tendenza della politica (ossia della forza) a prevalere sul diritto (che ne costituisce il limite) nel momento di dover affrontare l’emergenza. Il carattere emergenziale, come già detto, spinge all’adozione di strumenti che risultano peculiari e anomali, rappresentando un’eccezione rispetto alla disciplina ordinaria, poiché tendono a porsi in tensione o a contraddire alcuni principi e regole vigenti prima della emergenza. Potremmo quindi affermare che, dal punto di vista giuridico, l’emergenza o il fatto emergenziale altro non sia che il presupposto funzionale per l’attivazione di particolari strumenti giuridici predisposti per simili evenienze.[11]
A tal riguardo, Roberto Bartoli, nell’ambito dell’emergenza politica (in cui, abbiamo visto, rientra il terrorismo) distingue tra emergenza sociale (riconducibile al paradigma della sicurezza) ed emergenza costituzionale (riconducibile al paradigma dell’eccezione). La prima è legata alla molteplice natura del concetto di “sicurezza”: in termini oggettivi, una questione di sicurezza in senso sociale può porsi quando vengono a degradarsi le condizioni essenziali della vita sociale a causa della reiterazione di comportamenti che pur non esprimendo un elevato disvalore sono comunque in grado di compromettere i legami relazionali che conformano una comunità. Nonostante la gravità del pericolo che tale situazione può comportare, per affrontarla sarebbero necessarie non misure straordinarie, bensì quelle ordinare, la cui omissione o disattivazione è spesso causa principale, seppur remota, dell’emergenza. Un esempio può essere la sicurezza urbana, la quale può essere garantita da strumenti integrati del tutto “regolari” che vanno dalle scelte di politica urbanistica e sociale (piani strutturali e regolamenti urbanistici, politiche di integrazione), passano per gli strumenti di coordinamento tra le diverse forze che agiscono sul territorio (come patti e intese per la sicurezza) e arrivano alla stigmatizzazione di atti che esprimono uno scarso disvalore ma tuttavia spesso rappresentano comunque un illecito, talvolta penale.
In termini soggettivi, invece, la sicurezza può intendersi come percezione o sentimento di timore, se non di paura. La sua esigenza crea una dimensione del tutto virtuale che viene soddisfatta con risposte ugualmente virtuali e simboliche, come la previsione di nuove fattispecie incriminatrici che spesso si sovrappongono ad altre già esistenti o restano del tutto inapplicate. Queste misure, però, svierebbero dalla realtà del problema e si presterebbero alla strumentalizzazione dei soggetti per mere finalità preventive. Diversa è, ancora, la sicurezza intesa come diritto a quest’ultima. Tale profilo è fortemente criticato dall’autore, sia inteso come bene a sé stante per via della sua totale evanescenza, indeterminatezza e onnicomprensività, sia nella veste di presupposto fondamentale per l’esistenza di tutti gli altri diritti fondamentali, ossia di “concetto onnivoro” [12] destinato a fagocitare qualsiasi spazio occupato da altri controinteressi. Invece, l’emergenza definita “costituzionale” dall’autore, basata sul paradigma dell’eccezione, fa riferimento a tutte quelle situazioni di fatto che mettono in pericolo i presupposti fondamentali per la stessa esistenza di un ordinamento democratico e i diritti dei cittadini e che richiedono strumenti i quali finiscono per porsi in tensione proprio con alcuni principi del nostro ordinamento costituzionale. Si tratta di situazioni che alterano in modo consistente i presupposti ordinari della convivenza e che richiedono l’intervento di strumenti specifici: sono situazioni riconducibili a vario titolo ai concetti di emergenza interna o esterna, stato d’assedio, stato d’eccezione, stato di guerra (conflitti armati internazionali e non) eccetera.
Su quest’ultimo punto, è interessante notare la divergenza con altra dottrina[13], che differenzia lo stato emergenziale dalla guerra, in quanto pur avendo entrambi un’indole straordinaria ed essendo idonei ad alterare la normalità della vita istituzionale dello stato aggredito, l’emergenza include anche fatti naturali, esclusi dal concetto di guerra, nonché condotte umane - come terrorismo, sedizione interna e moti sediziosi - che godono di autonomia concettuale rispetto alla guerra. Infatti, secondo il diritto internazionale, quest’ultima consiste in ogni azione statale violenta rivolta contro uno Stato straniero al fine di sottometterlo alla propria autorità politica e giuridica, privandolo della sua originaria indipendenza e sovranità. Pertanto, la guerra richiede un elemento soggettivo e uno oggettivo: rispettivamente, la volontà di uno Stato di soggiogarne un altro e la conduzione delle ostilità mediante l’impiego di forze armate. Al contrario, per il diritto internazionale il terrorismo persegue scopi di natura latu sensu politica, intimidendo la popolazione o costringendo un Governo a fare o non fare qualcosa. Per ottenere tali scopi, esso ricorre ad una violenza usualmente rivolta in modo indiscriminato contro tutti coloro che si trovano a passare per il luogo ove si verifica l’attentato: tali atti non sono quindi univocamente rivolti verso lo Stato. È stato comunque fatto notare[14] che con l’attentato alle Twin Towers il terrorismo ha acquisito uno degli elementi caratterizzanti la guerra almeno dall’ultimo conflitto mondiale: la globalità. In questo modo entrambi si affermano come fenomeni a-territoriali e temporalmente ricorsivi, non limitati a una determinata parentesi di tempo e spazio. Questa comunanza non sarebbe[15] comunque in grado di eliminare le sopracitate differenze, pertanto il terrorismo godrebbe comunque di autonomia concettuale rispetto alla guerra. Questo aspetto risulterà importante nell’analisi della disciplina che l’ordinamento costituzionale italiano prevede per il terrorismo.
Tornando alla concezione di emergenza “costituzionale”, ad essa sarebbe riferibile proprio il tipo di emergenza che scaturisce dal terrorismo internazionale. Non c’è infatti dubbio che un attentato terroristico sia riconducibile solo in minima parte a carenze o inadempienze dell’attività politico-amministrativa (ad esempio l’incapacità dei servizi segreti a intercettare movimenti e atti; inefficienze dei sistemi di controllo aeroportuali); mentre è da notare che dietro i fenomeni terroristici internazionali vi siano anche responsabilità indirette di coloro che devono fronteggiarli: colonialismo, imperialismo, strumentalizzazione di istituzioni internazionali per finalità di alcuni Stati che divengono potenze incontrastate, etc. Sul piano costituzionale, inoltre, il terrorismo può assumere forme di intensità particolarmente incisive e in grado di minacciare seriamente la vita e i diritti fondamentali dei cittadini, nonché minare il corretto funzionamento delle istituzioni.
Al fine di cogliere concretamente l’incisività che l’emergenza terroristica riesce ad avere sulla stabilità dello Stato di diritto democratico-sociale, si pensi ai punti di vulnerabilità di quest’ultimo di fronte a tale minaccia[16].
In primo luogo, quella democratico-sociale è più vulnerabile delle altre forme di Stato perché in essa l’esercizio dei pubblici poteri ha dei limiti insuperabili. Lo Stato democratico-costituzionale è fondato su principi come l’uguaglianza, la legalità, l’esercizio di diritti fondamentali (libertà personale, di domicilio, di circolazione, di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, religiosa, segretezza della corrispondenza, diritti della difesa) e le relative garanzie (riserva di legge, di giurisdizione, garanzie giurisdizionali). Essi da un lato sembrano limitare la necessità della violenza come strumento per ottenere un cambiamento sociale, ma dall’altro possono incentivare l’ideazione, la pianificazione, la diffusione, l’organizzazione e la realizzazione delle azioni militari dei terroristi e favorire il loro bisogno di sottrarsi a misure repressive. In secondo luogo, la violenza politica ha come mira il metodo democratico stesso, il che impedisce qualsiasi trattativa con chi usa la violenza. Possiamo infatti dire che l’obiettivo del terrorismo è intimorire la popolazione così da impedire loro di esercitare quei diritti fondamentali su cui lo Stato si regge. In terzo luogo, la maggiore debolezza dello Stato contemporaneo deriva anche dal fatto che quelle misure legali necessarie per difenderlo dalla minaccia della violenza, paradossalmente, potrebbero rischiare di compromettere la sua stessa architettura valoriale. In ultimo, una forma di Stato basata sul principio personalista potrebbe apparire più debole perché obbligata a rispettare una serie di diritti fondamentali, di cui sono inevitabilmente titolari anche i terroristi stessi. Ciò comporta che neppure i diritti dei medesimi responsabili di quella violenza che legittima la repressione statale possano essere completamente sacrificati.
4. La struttura dello stato d’eccezione; i modelli “a due” e “a tre” e quelli “monista” e “dualista”.
Si è detto che l’emergenza di tipo “costituzionale” è basata sul paradigma dell’eccezione. È dunque necessario comprendere il significato di quest’ultimo concetto.
L’eccezione[17] si può comprendere solo se si ha ben chiara la regola, ossia se si determina tanto quale sia la regola a cui si farà deroga quanto se la deroga in questione sia del tutto priva di regole. Lo stato di eccezione avrebbe una struttura scomponibile in quattro elementi essenziali: il fatto emergenziale, ossia la situazione che viene a realizzarsi e ha caratteristiche diverse dalla situazione di regola considerata dall’ordinamento; il giudizio di necessità, cioè la valutazione sulla idoneità dei mezzi ordinari ad affrontare l’emergenza; lo stato d’eccezione e la disciplina derogatoria; i limiti del controllo. Sarebbero rinvenibili due modelli di eccezione: un modello “a due”, basato su una sola regola, e un modello “a tre”, basato su due regole. Il primo modello prevede quindi che l’eccezione, derogando all’unica regola, apre a uno spazio privo di limiti; il secondo si caratterizza invece per una prima regola, rispetto alla quale si può pensare l’eccezione, e una seconda regola – inderogabile – rispetto alla quale non può esservi eccezione e che, pertanto, è sovraordinata tanto alla prima regola quanto all’eccezione (deroga) stessa: ne consegue che tale seconda regola operi comunque in un ambito chiuso e delimitato.
L’eccezione “a due” richiede una certa omogeneità politico-valoriale, la quale rappresenta l’unica causa da cui scaturisce l’intero ordinamento e risulta prevalente rispetto a ogni altro interesse: sul piano della tensione tra dimensione politica e giurisdizionale, il modello “a due” comporta un dominio della prima sulla seconda. Questo predominio è destinato a produrre i propri effetti anche sul piano strutturale dello stato d’eccezione. Infatti, esso appare non solo indeterminato, ma anche fortemente connotato da considerazioni valoriali, al punto da essere manipolabile. Emergenziale, infatti, è ciò che esula da (e minaccia la) unità politica-valoriale, pertanto lo Stato – secondo una concezione decisionista - si concentrerà sulla mancanza di una previsione per affrontare l’emergenza o – seguendo una posizione legalista – sull’esigenza di provvedere all’attivazione di strumenti eccezionali che la legge ha già previsto. In sostanza, la disciplina “a due” non incontra alcun limite, non essendoci regola al di là dell’eccezione. Da ciò consegue la possibilità di derogare liberamente a diritti e principi fondamentali. Questo modello è affine a un costituzionalismo non ancora giurisdizionale e pluralista[18], dunque privo di una Costituzione realmente rigida.
Il modello “a tre”, invece, presuppone una disomogeneità politico-valoriale: l’unità politica rappresenta l’insieme dei diritti e dei poteri che permettono un pluralismo ordinamentale. Ne consegue la prevalenza della dimensione giurisdizionale su quella politica. Per analizzarlo è opportuno distinguere tra momenti di normalità e momenti di eccezione. Nei primi, le norme di principio sono sviluppate e interpretate secondo indirizzi e obiettivi differenti, con la conseguenza che la prevalenza del giurisdizionale sul politico è comunque mediata da valutazioni flessibili, basate sul principio di ragionevolezza. Nei casi di eccezione, al contrario, la presenza di limiti invalicabili comporta una riduzione dello spazio discrezionale del legislatore, nonché del giudice costituzionale e del suo parametro di ragionevolezza. Rispetto a tali limiti, può dunque rinvenirsi un primato del diritto e della giurisdizione. Ciò assicura connotati di maggiore determinatezza e precisione, in quanto nella configurazione di tale fatto emergenziale la sua straordinarietà si misura in termini non necessariamente assoluti, come minaccia per l’esistenza dello Stato, ma sulla base di una comparazione tra le sue caratteristiche e quelle del fatto regolare in una prospettiva che tiene principalmente conto della possibile compromissione di interessi riconducibili più ai singoli cittadini che ad entità astratte e alla valutazione di idoneità del mezzo rispetto allo scopo. Ne consegue che giudizio di necessità e dichiarazione di eccezione risultano altamente discrezionali, mentre i limiti posti e salvaguardati dal potere giurisdizionale dovrebbero essere saldi. Questo modello è coerente con un costituzionalismo giurisdizionale e pluralista (ordinamentale), basato su una Costituzione autenticamente rigida.
La contrapposizione tra i due modelli indicati, però, è soltanto in parte riconducibile alla distinzione tra Costituzione rigida e flessibile.[19] Un modello “a tre”, infatti, sarebbe concepibile anche laddove esista un ordinamento flessibile comunque in grado di esprimere un ordine giuridico invalicabile. Si prenda come esempio l’analisi che Meccarelli fa del periodo che in Europa precede la svolta della codificazione, costituito dalla centralità della giurisprudenza, alimentata da uno ius commune sviluppato - secondo la tradizione medievale - attraverso una interpretatio fortemente ancorata alla attualità del diritto. In tale contesto, l’eccezione si presentava come qualcosa di “fuori dall’ordinario” ma non per questo esterno all’ordine. Infatti: “l’eccezione, pensata come 'stato del diritto', non si traduce in una mera condizione di pienezza dei poteri correlata a una sospensione dei principi fondamentali dell’ordinamento. Per quanto determini regimi giuridici speciali, essa resta vincolata alla condizione, che vale per ogni espressione giuridica fattuale, della sua necessaria corrispondenza all’ordo.”[20]
Allo stesso modo, un modello “a due” sarebbe possibile anche in una Costituzione rigida; nel senso che anche in un assetto costituzionale nel quale la Corte Costituzionale goda di un ruolo di chiusura, l’assetto complessivo del sistema potrebbe comunque subire l’influenza delle pressioni politiche.[21] In sostanza, da una prospettiva di diritto vivente o anche di prassi è possibile individuare passaggi in cui predomini il modello “a due”; così come la formulazione astratta dello stato d’eccezione può agevolare il verificarsi di uno dei modelli rispetto all’altro. È infatti necessario considerare il carattere politico di una Costituzione, destinato a “flessibilizzare” qualsiasi discorso rigorosamente giuridico. Non a caso, puntualizza l’autore, la vicenda che ha caratterizzato gli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 sembrerebbe dimostrare che anche in un sistema costituzionale giurisdizionale sono possibili istanze di un’eccezione “a due”.
Molto simili sono le osservazioni di Giovanna De Minico, che rinviene due diversi modi di concepire l’emergenza[22]: uno dualista e uno monista.
Secondo il primo modello, teorizzato da Santi Romano[23], la necessità non costituisce un mero fatto ma una vera e propria fonte di diritto oggettivo con capacità di derogare all’ordinamento.[24] Questa concezione è chiamata dualista perché caratterizzata dalla compresenza di due ordinamenti che corrono paralleli: quello costituzionale e quello dell’emergenza, con la medesima forza attiva e passiva. Sicché quest’ultimo “può tutto” e nessun principio o valore costituzionale può resistergli, in quanto la fonte dell’emergenza legittima se stessa sulla base di un parametro da essa stessa delineato e non è pertanto tenuta a rispettare l’ordinamento costituzionale. La funzione del modello dualista è dinamica: può infatti accadere che cessata l’emergenza l’ordinamento non torni più al punto di partenza e rimanga diverso da come era all’origine. Questa funzione evolutiva porta ad una rottura con l’architettura costituzionale, in quanto viene introdotto un nuovo ordine giuridico che sarà illecito solo se confrontato con il precedente ordine costituzionale di cui ha preso il posto, ma non certo se inquadrato nei nuovi canoni di legittimità che tale nuovo ordinamento si è attribuito da solo. E se questa sostituzione non dovesse avvenire, sarà solo per un mero accidente, in quanto l’ordinamento delineato dall’emergenza (il quale, come abbiamo detto, superiorem non recognoscens) ha perfettamente la capacità di succedere definitivamente a quello costituzionale. Com’è facilmente intuibile, dire che la necessità ha come limite se stessa non mette in sicurezza quel minimo costituzionale indefettibile qualora esso non sia al di fuori dell’area di legittimazione che la necessità si auto-attribuisce: secondo il modello dualista di stato d’emergenza, è possibile qualsiasi limitazione o deroga a qualunque valore e diritto fondante del precedente assetto costituzionale. Ciò comporta la possibilità che l’ordinamento di emergenza liquidi definitivamente l’assetto costituzionale, facendovi anche conseguire un regime autoritario o persino totalitario. Sul punto, Giorgio Agamben[25] asserisce che quando si affida alla democrazia la protezione incontrollata della necessità, ci si allontana gradualmente dalla libertà e dalla divisione dei poteri per avvicinarsi alla dittatura costituzionale schmittiana: fase di transizione verso un regime totalitario. Comprendendo la pericolosità di tale formulazione, Romano stesso riteneva essenziale che la necessità, uscita temporaneamente dalla legalità, vi rientrasse “quando l’impero della prima cessi”[26], in quanto senza questo freno non vi sarebbe più modo di distinguere la necessità vera e propria dall’arbitrio e dalla confusione anticostituzionale dei poteri. Alcuna dottrina[27]ha espresso perplessità sulla chiarezza del percorso logico che abbia condotto lo studioso a ritenere necessari questi limiti, nonché sulla loro configurabilità in caso di necessità extra ordinem.
Il modello monista, al contrario, individua la fonte del potere emergenziale in una norma implicita o esplicita dell’ordinamento. Tale potere è perciò radicato nell’ordine giuridico preesistente e presenta le caratteristiche del potere derivato, cioè esistente nei limiti in cui l’ordinamento originario lo prevede, a differenza che nel modello dualista dove esso ha una origine extra ordinem. Ne consegue che la configurazione del modello monista sia statica anziché dinamica: esso si muove parallelamente all’architettura costituzionale e può sospenderla in parte ma solo per un periodo determinato; pertanto la legittimità di tali sospensioni dipende dalla loro idoneità a permettere la reductio in pristinum dell’ordine giuridico pregresso. La differenza con il modello precedentemente descritto è rinvenibile anche sul piano dei valori che vengono interessati dallo stato di emergenza. Mentre nell’idea dualista questi possono essere sacrificati in nome della tutela dall’emergenza, in quella monista essi (e il consenso civile di cui godono) vengono riconfermati dall’attivazione stessa del potere emergenziale. Dunque, la configurazione monista differisce radicalmente da quella dualista perché non rappresenta un pericolo per la sopravvivenza della democrazia maggiore del rischio dal quale la vorrebbe difendere.
Va notato che la storia ci ha offerto esempi di stati di emergenza formalmente dualisti che nei fatti hanno però operato secondo l’archetipo monista. Ad esempio, il sistema emergenziale del Cabinet nel Regno Unito si è rivelato molto più rispettoso del diritto preesistente di emergenze formalmente appartenenti al modello monista. Di fronte all’emergenza in Cabinet gode di poteri praticamente illimitati, per legittimare i quali sarà necessaria, terminata l’emergenza, una Bill of Indemnity che sani gli atti effettuati. Ciononostante, nella prassi i Cabinet si sono autolimitati evitando di concentrare nelle proprie mani ogni sorta di potere. In questo modo le necessarie convalide ex post da parte del Parlamento sono state molto meno corpose. In tal modo, un modello formalmente dualista si è comportato di fatto come monista. Al contrario, l’articolo 48 della Costituzione della Repubblica di Weimar consentiva al presidente del Reich di prendere qualsiasi misura necessaria al ristabilimento della sicurezza, anche sospendendo in parte o in tutto i diritti costituzionalmente garantiti. Questa misura non ha certo impedito l’ascesa del Nazismo; al contrario, ha permesso la sospensione della Costituzione per dodici anni, senza che l’atto venisse mai revocato. Non a caso, la Costituzione dell’odierna Germania[28] autorizza in modo ampio il governo centrale a ristabilire l’ordine pubblico senza riguardo per i poteri normalmente riservati ai singoli Stati o le limitazioni normalmente imposte alle operazioni militari; ma allo stesso tempo consente solo un numero molto ristretto di limitazioni, ossia la detenzione di individui fino a quattro giorni senza udienza e la confisca della proprietà senza compensazione o le normali salvaguardie. Inoltre, l’articolo 115g prevede esplicitamente che “[l]a posizione costituzionale e l’adempimento dei compiti costituzionali del Tribunale Costituzionale Federale e dei suoi giudici non possono essere mai pregiudicati”[29]
La Storia ci suggerisce pertanto di non valutare un istituto sulla basa della sua astratta appartenenza a un archetipo giuridico, ma in ragione della sua concreta operatività.
5. Il rapporto tra sovranità e gestione dello stato d’emergenza.
È dunque chiaro che nella disciplina dell’eccezione assuma un ruolo fondamentale l’individuazione del soggetto competente a dichiararla: il detentore del potere ultimo e sovrano di un ordinamento è proprio il soggetto che risulta essere titolare del potere di decidere l’eccezione. Tale principio è inquadrato dalla nota espressione di Carl Schmitt, “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”[30]
Bartoli ritiene questa concezione attuale anche nel presente Stato costituzionale moderno (giurisdizionale e pluralista). In esso, il concetto di sovranità permane ma viene meno la sua unitarietà: la sovranità dello Stato moderno è frammentata e il potere di decidere dello stato d’eccezione è ripartito quantomeno tra Parlamento e Corte Costituzionale.
Sulla stessa scorta, Dyzenhaus[31] ritiene che il progetto della rule of law richieda che i giudici giochino un ruolo importante, assieme alla partecipazione del Legislativo e dell’Esecutivo. Quando quest’ultimo reclama l’esercizio di poteri straordinari che non seguono la rule of law perché appunto necessari in casi eccezionali, spesso lo sforzo da parte dell’organo Giudiziario di mantenere saldo lo stato di diritto è minimo, se non ambiguo: ciò va a vantaggio delle rivendicazioni dell’Esecutivo. Sono possibili diverse spiegazioni per tale comportamento, fortemente condizionate dal fatto che si ritengano più o meno corrette le rivendicazioni dell’Esecutivo: se si afferma che questi non è in potere di impiegare misure eccezionali, ne potrebbe conseguire la convinzione che il Giudiziario sia inadempiente verso i suoi doveri di tutela dello stato di diritto.
In alternativa, si potrebbe pensare che i giudici non siano negligenti quanto piuttosto prudenti e intenzionati a evitare di provocare l’Esecutivo in tale occasione così da avere la possibilità di agire in altre e più importanti situazioni. Se invece si parte dal presupposto che sia possibile per il governo esercitare poteri che esulano dallo stato di diritto, allora il Giudiziario non è né inadempiente né prudente: l’attività delle Corti rifletterebbe soltanto il fatto che la rule of law non abbia spazio nella gestione delle situazioni. Infine, si può affermare che la funzione di salvaguardia delle Corti non è minima, in quanto i giudici stanno ancora difendendo lo stato di diritto a fronte di una situazione in cui l’Esecutivo, agendo legittimamente con poteri eccezionali, sta disciplinando l’emergenza secondo rule of law. Quest’ultima spiegazione porta ad una equivalenza tra rule of law e rule by law, mentre nei casi precedenti si sarà portati a ritenere che al governo non occorra solo una garanzia da parte dello Stato per le sue azioni, ma il fatto che tali azioni siano coerenti con le regole di uno stato di diritto. Va precisato che nella distinzione operata dall’autore, rule of law indica i limiti posti all’uso strumentale della legge, mentre rule by law “means the use of law as a brute instrument to achieve the ends of those with political power”[32] In breve, la differenza risiede tra una visione sostanziale dello stato di diritto e una più formale, che appunto mette sullo stesso piano rule of law e rule by law. Secondo l’autore, quando i giudici sostengono di star difendendo la prima in una situazione di eccezione, da un punto di vista di sostanziale stanno in realtà tutelando la seconda: una garanzia statuale per le azioni dell’Esecutivo.
Nell’indagare il problema del rapporto tra Corti e tutela dell’ordinamento costituzionale, l’autore tiene conto delle osservazioni di Bruce Ackerman[33], il quale, nella sua elaborazione di una teoria della Costituzione d’emergenza, asserisce che i giudici non dovrebbero essere visti come i “salvatori miracolosi della nostra minacciata tradizione di libertà” e che – come vedremo infra, nella analisi del suo modello – sarebbe meglio fare affidamento su di un sistema di incentivi e disincentivi: una “ economia del politico” volta a prevenire l’abuso dei poteri di emergenza. Ackerman, comunque, non esclude totalmente la funzione dei giudici: essi avrebbero prima di tutto un “macro-ruolo” nel caso in cui l’Esecutivo dovesse infrangere i limiti costituzionali. Anch’egli riconosce che l’Esecutivo ben potrebbe semplicemente sospendere la Costituzione d’emergenza, oltretutto con il supporto della popolazione. Ma confida nel fatto che se le Corti dovessero dichiarare che l’Esecutivo stia violando la Costituzione d’emergenza, ciò darebbe di che riflettere all’opinione pubblica, così da disincentivare il governo dal compiere atti anticostituzionali. In aggiunta, i giudici avrebbero un “micro-ruolo” nel supervisionare l’inevitabile fenomeno della detenzione di sospetti senza processo per tutto il periodo dell’emergenza. Essi sarebbero portati davanti alle corti non tanto perché possano difendersi quanto affinché sia attribuito loro una identità al fine di evitare che possano sparire e di garantire loro una compensazione una volta che l’emergenza sia conclusa e risulti che l’Esecutivo abbia confezionato le prove. Come già accennato, per la difesa dello stato costituzionale Ackerman privilegia strumenti diversi dall’intervento del Giudiziario.
L’elaborazione del suo sistema di “Costituzione d’emergenza” si sviluppa dalla osservazione[34] che le Costituzioni scritte affrontano spesso il tema dello stato di emergenza secondo una “ragione esistenziale” (existential rationale) invocata in caso di minaccia di una invasione nemica o una potente cospirazione interna volta a sostituire il precedente regime. In tal caso, lo stato di emergenza abilita il governo a prendere misure straordinarie per garantire la sopravvivenza alla Nazione. Va infatti considerato che è impossibile per dei costituenti conoscere nel dettaglio una particolare minaccia “apocalittica” in grado di minare il regime statuale prima ancora che essa si verifichi. A causa di ciò, ogni limitazione ai poteri di emergenza potrebbe privare il governo di strumenti necessari per contrastare la minaccia. Ma il problema del terrorismo richiederebbe di muoversi fuori da questo ambito, poiché la minaccia che esso pone non attiverebbe la ragione esistenziale, bensì richiederebbe l’articolazione di una cornice diversa.
A tal riguardo l’autore distingue tra due differenti pericoli rappresentati dal terrorismo: la minaccia fisica alla popolazione e la minaccia politica verso il regime al potere. Riguardo alla prima, è ovvio notare che, in seguito ad un attentato, attacchi futuri di uguale o superiore entità porterebbero alla morte di centinaia, se non migliaia di altri cittadini. Relativamente alla seconda, va tenuto conto del fatto che anche qualora la popolazione di Washington o New York fosse decimata – argomenta l’autore – comunque i terroristi non sostituirebbero ciò che rimane dell’autorità politica con una loro forza di governo e di polizia. Al contrario, rimarrebbero nascosti, minacciando il prossimo colpo, mentre la popolazione civile cercherebbe di ricostruire il tradizionale schema di governo, garantendo un servizio di polizia d’emergenza e servizi sanitari, riempiendo i vuoti lasciati nelle precedenti istituzioni e cercando così di andare avanti. Il governo non si disintegrerebbe di fronte a questa minaccia politica, ma avrebbe un potente incentivo ad abusare dei propri poteri nel tentativo di impedire un nuovo attentato. Il problema, perciò, non sarebbe avere un governo troppo debole nel breve periodo, ma troppo forte nel lungo periodo (e questo ci ricollega a quanto già esposto sui rischi dello stato d’emergenza di tipo dualista). Secondo la ragione esistenziale, poca è la preoccupazione per il destino delle libertà civili e politiche nel lungo periodo: se l’ordine costituzionale si disintegra, spetterà a qualcun altro occuparsene. Al contrario, in un modello di stato emergenziale diverso, definito dall’autore “ragione di rassicurazione” (reassurance rationale) e attivabile proprio in caso di terrorismo, il potere politico deve impiegare strumenti che assicurino una efficace risposta nel breve periodo senza provocare effetti collaterali nel lungo. Infatti, “[t]he last thing we want is to authorize the President do do whatever he considers necessary for as long as he thinks appropriate.”[35]
È dunque necessaria, per questo autore, la configurazione di una emergency Constitution che consenta di proteggere lo Stato senza inficiare irrimediabilmente sui suoi valori. Ackerman sviluppa la sua proposta ponendone come paradigma la garanzia di poteri straordinari: egli infatti attribuisce al governo il potere di detenere sospetti di terrorismo senza le usuali tutele della causa probabile o del sospetto ragionevole[36]. Consapevole che le principali vittime di uno stato di emergenza sarebbero, appunto, gli innocenti colpiti dall’esercizio dei poteri straordinari, afferma che principi elementari di giustizia e considerazioni più pratiche obblighino a una piena compensazione economica per il tempo passato in detenzione. A tal riguardo è forte la critica di Ackerman al sistema costituzionale americano, il cui concetto di just compensation non è mai stato interpretato in modo da includere questo tipo di perdita. A sostegno della sua posizione, egli asserisce che l’obbligo per lo Stato di risarcire gli innocenti detenuti avrebbe l’effetto “deterrente” di evitare una eccessiva spesa pubblica nell’impiego delle misure straordinarie: non avrebbe senso, da un punto di vista economico, allargare a dismisura il numero di persone arrestate senza determinare la probabilità della colpevolezza di chi è già in custodia. Secondo elemento della proposta è il supermajoritarian escalator[37]: l’autore sostiene che le nazioni europee hanno avuto una lunga e infelice esperienza storica di regimi d’emergenza espliciti. Essi avrebbero sempre teso ad attribuire all’Esecutivo fin troppo potere libero, tanto di dichiarare l’emergenza quanto di mantenerla per un lungo periodo.
Al contrario, l’Esecutivo dovrebbe disporre del potere di agire unilateralmente solo nel breve periodo, per una o due settimane. A quel punto lo stato di emergenza dovrebbe cessare a meno che non ottenga l’approvazione della maggioranza. Ancora, il consenso della maggioranza sarebbe valido solo per un periodo di tempo limitato: dopo due o tre mesi sarebbe necessaria l’approvazione di percentuali via via maggiori: sessanta percento per i successivi due mesi, dunque settanta, poi ottanta. Questo sistema garantirebbe una difesa contro il rischio di normalizzazione dello stato di emergenza; inoltre, prima di ogni votazione vi sarebbe un inevitabile dibattito in cui politici, stampa e opinione pubblica sarebbero portati a interrogarsi sulla necessità di mantenere lo stato di emergenza. Inoltre, all’avanzare dell’escalator diverrebbe sempre meno realistico un continuo supporto da parte del Legislativo, in quanto le moderne società pluraliste sono fin troppo frammentate per sostenere questo tipo di politica: piccole minoranze avrebbero potere di veto sulle richieste dell’Esecutivo, così da impedire che la maggioranza possa utilizzare l’emergenza come strumento di propaganda elettorale e rappresentarsi efficacemente come “salvatrice della Patria”.
Infine, questo modello obbligherebbe l’Esecutivo a riconoscere le ingiustizie compiute durante il regime di emergenza. L’impronta religiosa o ideologica, così come la provenienza geografica di una organizzazione terrorista, può facilmente rendere un segmento della popolazione particolarmente vulnerabile alle misure d’emergenza, e il supermajoritarian escalator potrebbe giocare un ruolo più o meno rilevante nel controllare la presenza di abusi. Questo, sostiene l’autore, potrebbe verificarsi soprattutto in Europa, data la maggiore presenza di minoranze arabe e islamiche. Ma l’escalator, da solo, non è in grado di assicurare che l’Esecutivo tenga segrete delle informazioni riguardo particolari ingiustizie che sono conseguenze inevitabili dei poteri d’emergenza. Dato che una semplice regola di totale trasparenza comporterebbe il rischio di rivelare informazioni preziose ai terroristi stessi, un sistema di checks and balances potrebbe essere la soluzione[38]: al partito di maggioranza non può essere consentito di negare ai partiti di minoranza l’accesso alle informazioni. Al contrario, la Costituzione d’emergenza dovrebbe contenere delle previsioni che assicurino alla minoranza di essere ben informata quando le è chiesto di concordare con la maggioranza sulla estensione bimestrale del regime. Inoltre, la maggioranza dei seggi nelle commissioni di controllo dovrebbe essere garantita non al partito al governo, come comunemente avviene negli USA, ma alle minoranze. L’autore cita come esempio la House of Commons del Regno Unito[39]: anche se essa attribuisce un ampio controllo al partito di maggioranza, alla minoranza viene generalmente garantita la presidenza di alcune importanti commissioni.
La Costituzione d’emergenza dovrebbe imporre all’Esecutivo di fornire alle commissioni immediato e completo accesso a tutti i documenti. Le commissioni di vigilanza potrebbero scegliere quali informazioni rendere pubbliche e sarebbe obbligata a stilare un rapporto ai collegi parlamentari, in seduta segreta se necessario, come parte del dibattito che precede il voto per l’estensione dello stato d’emergenza. Dyzenhaus[40] commenta che la teoria di Ackerman non è in grado di superare la configurazione dell’emergenza come “buco nero” legislativo, o “vuoto senza legge”. La “Costituzione d’emergenza” è sottoposta a dei vincoli esterni, ossia controlli sull’Esecutivo a livello costituzionale, e disciplinata dalla legislazione. Ma internamente, la rule of law è assente. In aggiunta, una volta premessa la permanenza “interna” di questo vuoto legale, diviene arduo comprendere come i vincoli esterni possano dispiegare efficacemente gli effetti designati. L’autore critica il modello di Ackerman sostenendo che si tratti di un vano tentativo di trovare un ruolo alla legge e affermare contemporaneamente che la legge non abbia ruolo. Pur non riuscendo a confutare la convinzione schmittiana che la legge non possa determinare efficacemente una distinzione tra dittatura e dittatura “costituzionale”, la teoria appena esposta evita di “nobilitare” il vuoto legale col titolo di rule of law.
Il rapporto tra sovranità ed eccezione è stato oggetto di un importante studio di Clinton L. Rossiter, il quale sosteneva che “[n]o sacrifice is too great for our democracy, least of all the temporary sacrifice of democracy itself” [41], e che tre fatti importanti costituiscano la ragione per quella che definiva “dittatura costituzionale”: il fatto che il complesso sistema dello stato democratico costituzionale, disegnato per funzionare in tempo di pace, sia spesso non adeguato alle esigenze di una grande crisi costituzionale; il fatto che, in un tempo di crisi, il sistema di governo deve essere temporaneamente alterato a qualunque grado necessario per superare il pericolo e ritornare alle condizioni precedenti; e che questo governo alterato, il quale potrebbe benissimo risolversi in una vera e propria dittatura, può avere un solo scopo: “[the] preservation of the independence of the state, the maintenance of the existing constitutional order, and the defense of the political and social liberties of the people.”[42]
L’autore si preoccupava però di sottolineare le differenze tra la sua concezione e una dittatura fascista: la “dittatura costituzionale” è temporanea e autodistruttiva; inoltre la ragione della sua esistenza è una grave crisi.[43] Pertanto elencava una serie di criteri che avrebbero dovuto essere rispettati perché tale dittatura rimanesse costituzionale. Essi sono divisibili in tre grandi categorie: regole su come giudicarne il ricorso, quelle su come giudicarne la continuazione e quelle da impiegare al termine della crisi per la quale la dittatura era stata istituita. Secondo il primo criterio, la “dittatura costituzionale” non dovrebbe essere iniziata a meno che non sia necessaria o addirittura indispensabile alla preservazione dell’ordine costituzionale dello stato. Per il secondo criterio, la decisione di istituire una dittatura costituzionale non dovrebbe mai ricadere nelle mani di colui o coloro che prenderanno il ruolo di dittatore. Rossiter prende come esempio il modello della dittatura romana, nella quale il Senato avanzava la proposta che il Consoli nominassero un dictator[44], ossia un cittadino che avesse potere assoluto ma comunque limitato a un periodo di carica di sei mesi. L’autore stesso riconosceva che tale criterio non era stato uniformemente seguito nella moderna esperienza dei poteri d’emergenza. E che “[the] greatest of constitutional dictators was self-appointed, but Mr. Lincoln had no alternative.”[45]
Si riferiva alle azioni di Abramo Lincoln durante la Guerra Civile, tra cui la proclamazione con la quale, senza la preventiva autorizzazione del congresso, egli sospese l’habeas corpus.[46] Lincoln avrebbe applicato la teoria per cui, in tempo di emergenza, il Presidente possa assumere qualsiasi potere legislativo, esecutivo e giudiziario da lui ritenuto necessario per difendere la Nazione, anche al costo di infrangerne le leggi fondamentali. Tra questi poteri, uno sarebbe stato ratificato dalla Supreme Court[47]: quello di agire liberamente contro cittadini insurrezionali come se fossero nemici dello Stato, pertanto porli al di fuori della protezione della Costituzione. Secondo Dyzenhaus la trattazione di Rossiter si limita a dimostrare quali siano le tensioni e i punti critici del rapporto tra sovranità ed eccezione, piuttosto che risolverli.[48] Egli vuole sostenere che la disciplina dell’emergenza in una democrazia liberale possa avere una natura costituzionale; ma “costituzionale” significa soggetto a limiti e costrizioni, in accordo non solo con la legge, ma anche con le leggi fondamentali. Tali leggi (cioè i criteri alcuni dei quali sono stati esposti prima) allora non sono parte della Costituzione ordinariamente in vigore, ma governano la gestione di situazioni straordinarie. Sono regole che possono essere sottomesse alla discrezione del dittatore (essendo giudizi sulla necessità) o designate come limiti da incastonare nella Costituzione o nella legislazione. Comunque, Dyzenhaus asserisce che per lo più i criteri indicati dall’autore finiscono per non atteggiarsi a limiti ma a fattori al cui riguardo il dittatore dovrà decidere. Altre regole, invece, sembrerebbero più adatte a divenire veri e propri limiti ed essere oltretutto costituzionalizzate letteralmente: un esempio già menzionato secondo criterio, il quale richiede che non ci sia identità tra chi deve decidere se esista l’emergenza e l’eventuale dittatore. Se alcuni di questi criteri fossero inseriti nella Costituzione, verrebbe a crearsi una parte di questa dedicata alla gestione dell’emergenza, ma ugualmente soggetta alla possibilità di venire sospesa dal dittatore. Ne consegue che il potere del dittatore sia potenzialmente illimitato.
Essenzialmente, conclude Dyzenhaus[49], l’autore delinea la “dittatura costituzionale” come svincolata dalle leggi ma vincolabile da alcuni principi. Ne consegue che il termine “costituzionale” assume un significato diverso da quello comunemente inteso: si tratta piuttosto di un’espressione ingannevole per indicare la speranza che colui (o coloro) che assumano poteri dittatoriali lo facciano a seguito di una valutazione in buona fede che ciò sia davvero necessario e con l’intenzione di ritornare allo stato ordinario delle cose quanto prima possibile. A tal riguardo, il parallelismo tra il dictator romano e le riflessioni sul dittatore costituzionale, proposte anche dai teorici moderni successivamente all’undici settembre, è stato contestato dal filosofo italiano Giorgio Agamben[50], il quale piuttosto rinviene l’analogo del moderno stato d’eccezione nella istituzione dello iustitium. Al momento della scoperta di una situazione che avrebbe potuto mettere in pericolo la Repubblica, il Senato stilava un senatus consultum ultimum, con il quale dava ordine ai consoli e – talvolta – al pretore e ai tribuni della plebe, se non a tutti i cittadini nei casi più gravi, di prendere qualunque misura considerassero necessaria per la salvezza dello Stato. Alla base del senatus consultum vi era un decreto che dichiarava un tumultus, ossia una situazione di emergenza derivante da una guerra – anche civile – o un’insurrezione. Il termine iustitium letteralmente significa “arresto” o “sospensione” della legge. Esso implica, quindi, non solo l’interruzione dell’amministrazione della giustizia, ma della legge in quanto tale: da ciò risultava un “vuoto giuridico”. Nell’analizzare questo istituto, l’autore[51] esclude che fosse assimilabile alla dittatura: nell’ordinamento costituzionale Romano il dictator era uno specifico tipo di magistrato che i consoli avevano scelto e i cui poteri erano conferiti da una lex curiata che ne definiva anche gli scopi. Al contrario nello iustitium non vi era la creazione di una nuova magistratura. Il potere di fatto illimitato goduto dalle magistrature già esistenti non risultava da una investitura di imperium dittatoriale, ma dalla sospensione delle leggi che limitavano tale potere. Infatti, già Mommsen e Plaumann, i cui studi sull’argomento sono di riferimento per Agamben[52], avevano definito questo istituto “quasi-dittatura”: locuzione infelice, secondo l’autore, perché non elimina l’ambiguità ma al contrario contribuisce a interpretare la figura sulla base di un paradigma errato. Data la natura del potere conferito con lo iustitium, risulta quantomeno problematico determinare le conseguenze legali di quelle azioni compiute con lo scopo di salvare la res publica. L’autore osserva che essendo tali atti compiuti in una fase di “vuoto giuridico”, essi sono esclusi da ogni determinazione giuridica. Il magistrato o cittadino privato che agisca durante lo iustitium non esegue né trasgredisce la legge, tantomeno la crea. Il senatus consultum ultimum non aveva contenuto positivo ma si limitava a garantire al magistrato o ai cittadini il potere di agire liberamente o non agire affatto. Se volessimo dare un nome all’attività svolta in questo contesto politico-giuridico, potremmo dire che il magistrato o cittadino “in-esegue” la legge.
Al “buco nero” legale dello stato di eccezione a cui pervengono Agamben, Ackerman e Schmitt, è affiancabile il “buco grigio”[53] comportato da quelle teorizzazioni in cui non vi è un vuoto legislativo e al contrario sono riconosciuti dei limiti al potere esecutivo, seppur così inconsistenti che permettono ad esso di agire comunque a suo piacimento. Esempi possono essere rintracciati in alcune riflessioni di giuristi e teorici dello Stato successive all’undici settembre, come l’elaborazione di Cass Sunstein[54] sull’istanza “minimalista” che egli ritiene i giudici dovrebbero adottare in tutte le questioni costituzionali.
Secondo Dyzenhaus[55], egli diverge da Ackerman nel chiedere un ruolo “minimalista” ai giudici non perché storicamente si siano dimostrati incapaci di agire altrimenti, ma perché ritiene tale approccio, di per sé appropriato in tempi ordinari, ancor più utile in situazioni di emergenza. Il “minimalismo” favorirebbe la superficialità rispetto alla profondità, allo scopo di attirare il supporto di persone con un ampio spettro di posizioni teoretiche o che sono dubbiose rispetto alle questioni più profonde. Allo stesso modo, all’ampiezza verrebbe preferita la ristrettezza: procedendo un caso alla volta si eviterebbe di risolvere più di quanto il caso stesso non richieda. In tal modo si attuerebbe la strategia di costringere a prendere “democracy-promoting decisions” che obbligherebbero giudizi da parte di “democratically accountable actors, above all Congress”. [56] Questo aspetto del minimalismo richiede che si lasci al corpo democraticamente eletto di decidere la migliore risposta al problema identificato dalla corte. Al contrario, i “massimalisti” favoriscono tanto la profondità, adottano teorie che articolano nelle loro decisioni, quanto l’ampiezza, stabilendo in anticipo delle regole chiare e ferme che riducano quella discrezionalità che invece il minimalismo lascia ai giudici. Il massimalismo sarebbe divisibile in “massimalismo della sicurezza nazionale” e “massimalismo della libertà”: il primo richiede un ruolo altamente deferenziale del Giudiziario, il secondo si basa sull’idea che i giudici debbano proteggere la libertà nella stessa misura che in tempo di pace.
L’autore rigetta il “massimalismo della libertà” sia perché i giudici hanno rifiutato di avere questi ruolo in passato e perché sarebbe “inerentemente indesiderabile”. Allo stesso modo, contesta il “massimalismo della sicurezza nazionale” perché le corti non avrebbero le informazioni necessarie per mettere in dubbio il bilanciamento, deciso dall’Esecutivo, tra sicurezza e libertà. Sostiene, al contrario, che il minimalismo sia in grado di riconciliare più efficacemente la tensione tra sicurezza nazionale e diritti costituzionali in tempo d’emergenza. Le corti potrebbero comunque richiedere una autorizzazione del Congresso per ogni azione dell’Esecutivo che confligga con interessi costituzionalmente protetti. Inoltre, a differenza di quanto proposto da Ackerman, le corti dovrebbero insistere sul principio del giusto processo: udienze dovrebbero comunque essere garantite al fine di evitare erronee privazioni delle libertà. Inoltre, i giudici devono esercitare una auto-disciplina[57].
6. Le misure dello Stato per tutelarsi dal fatto emergenziale e dal rischio di torsione autoritaria in nome della lotta all’emergenza; il paradigma della law of fear.
Quale che sia il modello teorico preso in considerazione, è evidente che il fatto emergenziale in sé consenta a fondi sub-costituzionali di introdurre temporaneamente una disciplina meno garantista di quella prevista in Costituzione.[58] Ciò non può che portare a chiedersi quali siano le misure in grado di proteggere le libertà dal rischio di una compressione eccessiva, e in generale fino a che punto il nostro ordinamento possa piegarsi davanti all’emergenza senza annullarsi.
Si tratta di una tematica affrontata in ogni forma di Stato, ma per quella democratico-sociale affrontarla in modo adeguato significa[59] essere in grado di prevenire, limitare e ridurre quelle situazioni di pericolo e minaccia per l’ordinamento e la persona per il mezzo di misure che siano compatibili con l’ordinamento. Se si agisse al contrario, non solo si rischierebbe di sostituire i principi che si vogliono difendere con un ordinamento in negazione di essi, ma si potrebbe finire per confermare la convinzione dei terroristi che quei principi siano fittizi o molto poco solidi e che pertanto sia facilmente possibile sostituirli con altri. Si tratta di una questione decisamente concreta per l’essenza stessa di ogni sistema costituzionale democratico-sociale. Ad esempio,[60] se si considera che anche nelle situazioni di emergenza (compresa quella terroristica) si applicano i principi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che ha ispirato le Costituzioni di tutti gli stati liberali ed è tuttora parte vincolante dell’ordinamento francese, allora sarà necessario un contemperamento molto difficile tra due gruppi contrapposti.
Da un lato sembrano porsi tanto le norme[61] che fanno emergere una serie di eventuali eccezioni fondate su principi generali (e previsti anche dai sistemi costituzionali moderni) di bilanciamento e di necessità, proporzionalità e legalità, i quali devono conformare qualsiasi limitazione posta i diritti fondamentali, quanto la norma[62] sulla necessità di una forza pubblica al fine di tutelare quei diritti fondamentali. D’altro canto, resta comunque valida la celebre disposizione di cui all’art. 16: “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei diritti stabilita non ha costituzione.” Pertanto, se si vogliono osservare i principi della Dichiarazione, le scelte istituzionali da compiere divengono complesse e spesso giungono a limitazioni pesanti dei singoli diritti o nuovi accentramenti e coordinamenti di essenziali misure pubbliche che in via ordinaria sarebbero ripartite tra diversi organi dello Stato o tra Stato e articolazioni territoriali. Se invece si prendono in considerazione i principi personalista, pluralista, lavorista, democratico ed internazionalista, che la dottrina ritiene caratterizzanti la Costituzione italiana, occorre adottare misure che siano in grado di salvaguardare le persone in pericolo o di reprimere i comportamenti illegali di altre persone, ma senza annichilire il principio personalista per cui i poteri dello stato esistono in funzione della protezione della persona e non viceversa.
In secondo luogo, si dovrà adottare misure che contrastino l’attività e l’organizzazione di persone associate al fine di abbattere lo stato, ma senza che tali misure impediscano il formarsi e il fluire e il confrontarsi del pluralismo delle formazioni sociali, dei partiti e delle opinioni. In terzo luogo, tenuto conto del già affrontato carattere globale della moderna minaccia terroristica, sarà necessaria una cooperazione internazionale, senza che questo comporti una effettiva cooperazione con le autorità di quei Paesi che qualificano come terrorismo qualunque espressione di dissenso nei loro confronti da parte dei loro cittadini, e senza che ciò comporti l’uso della forza come metodo nelle relazioni internazionali. Uno dei sistemi[63] attraverso cui gli Stati cercano di perseguire tali fini è proteggere la democrazia e il costituzionalismo dalla volontà delle maggioranze politiche del momento, attraverso la rigidità costituzionale. Essa viene ottenuta tramite il rispetto delle norme costituzionali da parte dei pubblici poteri, il controllo della legittimità delle leggi da parte di organi giurisdizionali e di giustizia costituzionale, nonché il divieto di attivare procedure aggravate di revisione costituzionale nelle ipotesi in cui sia necessario rimediare a situazioni di emergenza con metodi parzialmente derogatori alla Costituzione stessa. Ma oltre che dai rischi di torsioni illiberali, sarà essenziale difendere lo stato costituzionale anche dal pericolo di minacce concrete derivanti dalla violenza terrorista.[64]
La difesa della democrazia dalle minoranze violente, infatti, è intrinseca alla democrazia stessa: la tutela della libertà di pensiero e di critica, della libertà di riunione e associazione e della pacifica partecipazione di minoranze etniche, politiche e linguistiche possono avvenire solo a condizione che venga rispettato il metodo democratico. Il motivo principale per cui lo Stato persegue quelle minoranze politiche che facciano uso della violenza è prevenire che possano diventare interlocutrici politiche credibili, ossia per impedire che qualunque scopo politico perseguito mediante la violenza si possa affermare e che in tal modo quest’ultima diventino metodi efficaci per chiunque voglia risolvere conflitti politici e sociali, cosa che comporterebbe cambiamenti costituzionali che porterebbero alla fine della democrazia. Questa repressione può comportare il ricorso a misure limitative delle libertà costituzionalmente garantite, attraverso mezzi consentiti dall’ordinamento o eccezionali i quali però potrebbero rivelarsi controproducenti per la tenuta del sistema democratico. È pertanto evidente che una democrazia non rinnega la sua essenza soltanto se le misure adottate in qualsiasi circostanza, anche le più drammatiche, rispettano comunque i limiti costituzionali che esigono il minor sacrificio possibile delle libertà fondamentali.
Si veda ad esempio[65] la decisione del Tribunale Amministrativo Federale tedesco, che il 27/11/2002 ha convalidato lo scioglimento in via amministrativa della organizzazione religiosa Kalifatsstaat in quanto rifiutava i principi dello stato democratico e proponeva in Turchia la creazione di uno Stato fondato sulla legge coranica. La sua propaganda a favore della guerra santa islamica non era rimasta su di un piano puramente “verbale” e pacifico ma si accompagnava ormai anche ad azioni violente. Questa pronuncia si basa sul regime di disciplina del diritto d’associazione come modificato dalla legge n. 4/12/2001, che ha modificato il Vereingesetz del 1964 abolendo il divieto di scioglimento dei gruppi religiosi (Religionsprivileg), cui ha fatto seguito la legge per la lotta al terrorismo internazionale n. 9/01/2002 che ha previsto l’estensione anche ai casi di associazioni fondate da stranieri. In sostanza, la risposta al nostro interrogativo sul rapporto tra necessaria repressione e altrettanto indispensabile tutela dello Stato di diritto risiede nella valutazione sulla natura del potere emergenziale: esso è attribuito al legislatore al fine di preservare l’ordinamento minacciato dal pericolo.
Questa funzione è anche il limite genetico della deroga: il suo superamento violerebbe proprio quella legalità di sistema che la legislazione di emergenza vorrebbe difendere. Il fine ultimo della norma rappresenta pertanto il suo stesso limite. Pertanto il potere derogatorio dovrà non solo essere limitato nel tempo, ma evitare danni irreversibili nell’ordine costituito, incidendo sui principi di base dell’architettura costituzionale o attaccando il nocciolo duro dei diritti fondamentali o impedendo, tramite la protrazione nel tempo, all’ordinamento di tornare al suo stato originario.[66] In tal modo, il potere costituito non si lascerebbe stravolgere dall’ “altro diritto”, in quanto pone come condicio sine qua non di tale prevalenza il rispetto del nocciolo duro di diritti. La conseguenza, almeno teorica, è che in caso di inosservanza di questo limite, l’ordinamento possa riappropriarsi della sua originaria e illimitata sovranità, tornando a prevalere su quello di emergenza.
L’inquadramento appena esposto del fenomeno emergenziale e del suo rapporto col potere statale non può prescindere da una nozione fondamentale: non tutte le Costituzioni contengono delle precise disposizioni sullo stato di emergenza. Tale mancanza, comunque, non costituisce un impedimento a che gli Stati la affrontino.[67] Non sarebbe infatti concepibile un vuoto nell’ordinamento che impedisca a uno Stato di salvaguardare se stesso in caso di emergenza, poiché l’autoconservazione dell’ordine costituzionale deve ritenersi inclusa nella volontà originaria di qualsiasi costituente[68].
In situazioni di emergenza, come nel caso del terrorismo, lo Stato dovrà pertanto definire una politica precauzionale, tesa a evitare che il cittadino si senta solo al cospetto della minaccia. Il pericolo dovrà essere neutralizzato al suo stato iniziale, quando ancora non si è trasformato in un danno alla incolumità delle persone e alla integrità dell’assetto costituzionale.[69] La politica di contrasto al terrorismo, come già menzionato anche nel capitolo precedente, è incentrata sull’anticipazione dell’evento pericoloso, ossia sull’intervenire prima che esso accada. Il suo paradigma normativo è chiamato law of fear. Il fenomeno del terrorismo si presenta come un concatenarsi di eventi caotici e imprevedibili; pertanto, in sede decisionale, il legislatore dell’emergenza dovrà valutare la probabilità di accadimento di un fatto terroristico sulla base di una prognosi ex ante. Questa operazione ha una particolarità: i beni costituzionalmente rilevanti non sono allineati nel tempo, venendo soddisfatti in momenti diversi. Infatti, “mentre la sicurezza riceverà un vantaggio solo in prospettiva, le libertà subiscono un danno già nell’immediato”[70]. Si tratta quindi di beni equiordinati nella dignità sostanziale, disallineati nel sacrificio e nel vantaggio per i rispettivi titolari. Tale asimmetria troverà la sua compensazione solo se il legislatore sarà in grado di riservare, a chi ha subito un danno attuale e certo ai suoi diritti, un vantaggio di gran lunga superiore in termini di sicurezza futura. Questo approccio è parte di un trend giurisprudenziale - che coinvolge tanto la Corte Suprema statunitense quanto la Corte EDU – basato sui due criteri della precauzionalità e della proporzionalità.
Il primo criterio guida il giudice costituzionale quando giudica con prognosi ex ante l’attendibilità del pericolo, interrogandosi su quante siano le probabilità che il rischio si concretizzi in un danno attuale. Non si tratta di applicare formule matematiche ma, all’opposto, parametri controvertibili: cambiando il sistema di riferimento è possibile o probabile che si pervenga a una conclusione opposta a quella inizialmente formulata, in quanto basata su un altro ambito valoriale. La relatività di questo criterio potrebbe non essere d’immediata evidenza se applicato a situazioni estreme in cui l’evento prevedibile sia di per sé assistito da un coefficiente di rischio troppo elevato o troppo basso. Ma lo stesso criterio mostra comunque una certa debolezza scientifica quando applicato a situazioni intermedie, per le quali è richiesto un “[m]ore complicated balancing”.[71]
Per meglio comprendere, si immagini una situazione in cui il legislatore debba decidere il livello di rischio tollerabile, vale a dire la soglia di pericolo che la collettività è disposta ad accettare pur di non subire alcuna limitazione dei propri diritti: entro tale soglia le restrizioni alla libertà saranno considerate legittime. È chiaramente possibile che a una soglia minima di rischio finisca per corrispondere una irragionevole espansione della sicurezza e una conseguente compressione ingiustificata della libertà; allo stesso modo, a un livello estremamente alto di rischio potrà conseguire l’eccessiva difesa delle libertà, dovuta alla sottovalutazione delle esigenze securitarie. L’esito del giudizio di precauzionalità muta a seconda del grado della “scala di rischio” scelto dal legislatore per individuare il livello accettabile di pericolo. Questa eccessiva soggettività nega ogni scientificità al test. A questo difetto intrinseco se ne aggiunge uno legato ad un elemento esterno: il funzionamento del sistema politico. Il legislatore democratico sarà poco incline a fare correre dei rischi ai suoi concittadini, perché deve tener conto degli orientamenti dell’opinione pubblica e del bisogno di mantenere il consenso elettorale. Ne consegue che avrà interesse a vertere su soglie basse di rischio in modo da assecondare la domanda dell’elettore medio che chiede una prestazione massima di sicurezza, persino al fronte di un pericolo improbabile.[72]
A tal riguardo, alcuna dottrina[73]ha sottolineato come i Governi ricorrano a metodi surrettizi per conservare il consenso dell’elettorato. Ad esempio, il presentare la law of fear nelle forme di una misura ad applicazione limitata nel tempo, nel territorio o nei soggetti, salvo poi prorogarla. Non solo: è la distinzione stessa tra periodo di normalità e periodo di emergenza che andrebbe rigettata, in quanto essi tendono a confondersi. La seconda, infatti, è usualmente considerata “no more than a transient phenomenon”[74], ma la storia delle legislazioni di emergenza ci dimostra non solo che esse finiscono per consolidarsi o essere trasformate in previsioni ordinarie, ma che la loro prolungata applicazione nel tempo favorisce una espansione del loro scopo; mentre i limiti precauzionali incorporati in esse finiscono per svanire. Inoltre, la condotta dello Stato nel periodo di crisi tenderebbe a creare un precedente valevole anche nel successivo periodo di “normalità”; mentre in eventuali nuovi periodi di crisi i poteri garantiti precedentemente farebbero da punto di partenza per ulteriori poteri emergenziali. Potrebbe infatti sussistere la percezione che nuovi e più radicali poteri siano necessari per affrontare l’emergenza, e le misure viste come “eccezionali” nel passato potrebbero ora risultare normali. Ciò condurrebbe[75] Governo e opinione pubblica a “rendere pensabile l’impensabile”, il primo approfittando della convenienza delle misure che è in grado di esercitare, la seconda abituandosi a sempre maggiori limitazioni dei propri diritti. Per tacere inoltre del fatto che le decisioni delle corti adottate durante l’emergenza potrebbero essere usate come precedente per casi in tempo “di pace” e applicati per scopi più ampi.
Un secondo elemento estrinseco è l’identità del “tipo umano” scelto dal legislatore come campione per il suo test. Alcuni studi[76]hanno dimostrato che le persone prive di mezzi, titolari solo formali dei loro diritti, sono disposte ad accettare alti rischi dell’avvenimento pericoloso. Ciò perché questa categoria di persone considera i propri diritti già compromessi e relativizzati, non avendo concrete possibilità di esercitarli. Al contrario, le fasce medio-alte della popolazione, disponendo della capacità concreta di esercitare i propri diritti, saranno meno inclini ad accettare forti limitazioni. Ovviamente il discorso è valido se le misure vengono applicate a tutti, e non in modo discriminatorio a danno di pochi (ad esempio le minoranze). Pertanto, il legislatore alzerà la soglia di rischio se intenzionato a venire incontro alle esigenze delle classi più agiate o lo abbasserà – causando un sacrificio di libertà maggiore – se privilegerà le classi meno fortunate.
Dall’analisi del comportamento del legislatore possiamo dedurre che il principio precauzionale non è applicabile con precisione matematica né ha alcunché di oggettivo.
L’esito del giudizio è molto sensibile al mutamento degli umori della collettività, e il medesimo rischio può ricevere valutazioni opposte a seconda del momento in cui l’esame è stato condotto. Ciò non solo conferma l’assenza di ogni scientificità, ma anche la necessità di revisioni periodiche della legislazione. Se ne conclude che una volta chiuso un test di precauzionalità, lo stesso dovrebbe essere ripetuto ogni qual volta dovesse verificarsi l’evento temuto, anche se uguale al precedente; e ciò quantomeno ogni volta che il legislatore abbia indizi da cui desumere che la percezione del rischio sia cambiata o possa cambiare.[77] L’influenza che il test di precauzionalità può subire da parte di ragioni di mero calcolo politico comporta tutta l’azione preventiva sia sensibilmente orientata da un lato a contenere il rischio, dall’altro a lasciare scoperta la difesa delle libertà. Il prezzo di questo squilibrio viene pagato dai cittadini, disposti o costretti a sopportarlo pur di essere liberati dalla paura. Si prenda come esempio un episodio terroristico che si sia verificato nonostante il suo avvenimento, in sede di previsione, fosse stato escluso. Il difetto di misure di sicurezza danneggia i cittadini che pagheranno con la loro incolumità gli attentati che l’applicazione più rigorosa del principio precauzionale avrebbe evitato. Similmente, nel caso di un rischio sovrastimato (e mai verificatosi) che abbia portato a misure liberticide, le esternalità negative si riverseranno sui cittadini, i quali pagheranno con la compressione delle loro libertà un rischio solo remotamente probabile che non avrebbe leso i loro diritti se non fosse stato sovrastimato. Questi errori, di cui il legislatore potrà rispondere nelle adeguate sedi politiche, sono sopportati dai cittadini “nell’immediato, in via definitiva e senza alcuna compensazione a causa di quel giudizio di precauzionalità che poi, alla prova dei fatti, si è rivelato errato.”[78]
Dalla natura del principio precauzionale possiamo ricavare due osservazioni.
La prima ci dice cosa non dovrà fare il legislatore. Dovrà astenersi dal reputare esistente un rischio in ragione di considerazioni automatiche e astratte, ossia senza una concreta attività accertativa del medesimo. Questo perché il compito del legislatore non è assegnare etichette ma verificare attraverso una prognosi ex ante le ragionevoli possibilità di accadimento di un evento temuto. Ad esempio, dovrebbe evitare di ricorrere a presunzioni assolute di colpevolezza o di ricorrere a indici di rischio remoti perché dovuti ad occasionali contatti col terrorista, o ancora di affidare la valutazione degli indizi relativi al presunto colpevole a un’autorità amministrativa. In caso contrario, verrebbe recuperata quella figura del tipo di “autore di reato” la cui attitudine al crimine si desume unicamente da fattori presuntivi, non facilmente superabili con la prova contraria e sicuramente incostituzionali. La seconda osservazione sul carattere ascientifico del giudizio di precauzionalità è di carattere “positivo”: il legislatore è obbligato a un facere. Egli si dovrà attenere non solo al parametro della precauzionalità, ma anche a quello della proporzionalità, il quale richiede di confrontare in anticipo i costi plausibilmente destinati a essere sopportati dalla popolazione, che vedrà le proprie libertà arretrare, con gli attesi benefici alla sicurezza, che si vuole tutelare maggiormente. La dottrina americana, ad esempio Sunstein,[79] non ha mancato infatti di sottolineare che la precauzionalità necessita di essere corretta tramite questo secondo criterio. La proporzionalità funge da contraltare alla precauzionalità perché consente di tracciare con maggiore precisione tutti i costi e i benefici inerenti alla previsione del rischio, così da poter più correttamente stimare se le misure precauzionali siano o meno la soluzione attesa. Le difficoltà inerenti l’applicazione di questa analisi costi-benefici sono state indicate da alcuna dottrina statunitense[80], la quale ha sostenuto che una considerevole letteratura giuridica dimostra le evidenti sfide riguardo l’incertezza, la valutazione e questioni temporali rendono spesso impossibile anche una rozza applicazione di tale analisi.
In generale, è stato fatto notare[81] che la proporzionalità non ha capacità di pervenire alla certezza scientifica, poiché anche questo correttivo presenta un elevato grado di opinabilità, dal momento che le grandezze di cui tenere conto non sono entità materiali fisicamente valutabili e convertibili in una cifra definita. La moneta non è misura adeguata per quantificare beni immateriali come la sicurezza e le libertà individuali. Si pensi all’impossibilità di stimare il prezzo della sicurezza, qualora sia totalmente incerto il numero di vittime che un attacco terroristico potrà provocare. Dati come l’età, le condizioni sociali e l’aspettativa di vita non sono concretamente e anticipatamente disponibili: di conseguenza il vantaggio alla sicurezza e il sacrificio delle libertà rimane indecifrabile. È importante evidenziare che[82] la procedura per attuare il principio precauzionale (es. la purificazione dell’acqua come misura in caso di contaminazione) può comportare un ulteriore rischio o svantaggio (un costo alto). Questo punto critico comporta che possa essere necessario prendere ulteriori misure precauzionali che possono risultare in un rovesciamento delle precedenti. Visto in quest’ottica, il principio precauzionale come regola funzionerebbe solo qualora le misure abbiano pochi o nessun effetto negativo. Ma per l’impossibilità di calcolo che già abbiamo indicato, una situazione del genere difficilmente potrà verificarsi in pratica. Perché il principio precauzionale sia valido, sarebbe necessario determinare in anticipo quale interesse a rischio proteggere e quale ignorare, determinando in tal modo il risultato del necessario bilanciamento. A tal riguardo, la dottrina[83] (compreso il già citato Sunstein) ha notato che spesso i criteri tramite cui operare questa selezione sono inconsci. Ad esempio, le persone tendono a fare attenzione ai rischi che possono vedere o che sono a loro imposti in un modo o nell’altro, sorvolando su altri e magari ben più gravi rischi. Allo stesso modo, sono portate a concentrarsi sul rischio che potrebbe manifestarsi nello “scenario peggiore”, anche se la probabilità che quello scenario si verifichi effettivamente è piuttosto bassa. L’essere umano è portato a trascurare anche considerevoli differenze di probabilità tra diversi fatti, focalizzandosi su quello che comporti un maggiore impatto emotivo. Quando sono coinvolte forti emozioni, sarà meno probabile che siano effettuati calcoli complessi, quantomeno in quella forma che tiene conto non solo dei rischi ma a che della probabilità di risultato. Questa tendenza psicologica comporta che: “government will be asked to do something about it, even if the probability of the bad outcome is low.”[84] Pertanto gli attori politici, quale che sia il fronte, si concentreranno sul worst case così da sfruttare la “negligenza della probabilità”. Ciononostante, per quanto difficile possa essere inquadrare l’insieme dei costi e dei benefici e quantificarli affinché siano soppesati, non è possibile sottrarsi all’obbligo di calibrare i pro e i contro dell’azione preventiva prima di ricorrevi. Se Sunstein arriva alla conclusione che il principio precauzionale dovrebbe essere scartato come regola normativa di azione, e che le misure preventive andrebbero impiegate solo se basate sulla valutazione di tutti i rischi e mai se esiste la possibilità che provochino danni gravi e permanenti[85], altra dottrina[86] esprime critiche anche al correttivo della proporzionalità, nel quale sconsiglia di riporre una fiducia incondizionata e impiegarlo per rettificare la soggettività della precauzionalità. Entrambi i criteri mancherebbero infatti di quella incontrovertibilità scientifica necessaria. Si tratterebbe pertanto di compensare un’incertezza con un’altra, essendo la causa di questa relatività l’unica differenza tra di esse: nel criterio precauzionale essa è dovuta alla valutazione anticipata di una probabilità, in quello proporzionale dipende dalla mancata consistenza materiale dei beni da quantificare. Va inoltre considerato che applicare il criterio di proporzionalità significa confrontare costi e benefici non equivalenti, poiché (come già esposto supra) il beneficio della sicurezza è futuro e incerto, mentre il danno alle libertà è attuale e certo. Questa differenza di peso dovrebbe impostare la proporzionalità su un paradigma non identificabile in quello ordinario dell’equivalenza costi-benefici che, se applicato, porterebbe a un irragionevole sacrificio delle libertà. La proporzionalità si atteggerà piuttosto come asimmetria: il vantaggio al bene protetto (sicurezza), data la sua incertezza, dovrà superare il danno certo al bene compresso (i diritti di volta in volta aggrediti). Questo perché in uno Stato di diritto la lesione dei diritti è legittima solo se necessaria a tutelare un valore equiparabile o maggiore e concretamente minacciato di aggressione.
La law of fear presenta tre elementi identificativi che, come tali, non possono mancare in quanto servono a garantire la preservazione precauzionale dell’ordinamento giuridico dalla minaccia di un pericolo grave e imminente. Si tratta dell’eccezionalità, dell’irretroattività e della temporaneità.[87] Col primo si intende che il legislatore emergenziale detti dei principi e prescrizioni antitetici a quelli posti dalla disciplina generale, la quale ammette di essere derogata solo entro confini da essa stessa preventivamente disegnati. Tale deroga è di tipo relativo e non assoluto, perché (almeno secondo la teoria monista) non consegna al legislatore emergenziale uno spazio di discrezionalità illimitato. La norma generale derogata avrebbe dunque una limitata capacità di assorbimento delle alterazioni provocate dallo ius singulare, il quale pertanto esiste se e nella misura in cui la norma generale lo consenta. In sintesi, l’eccezione trova nella norma che prevede la deroga sia la sua legittimazione che i suoi limiti, ai quali dovrà adeguarsi per non fuoriuscire dal tracciato della legittimità costituzionale. La deroga per tanto non abroga la norma generale, ma apre al suo interno una parentesi regolatoria la quale crea diritto eccezionale e temporaneo ed è destinata a chiudersi: quando il ciclo vitale della deroga sarà concluso, la norma generale, che era entrata in uno stato di quiescenza, si espanderà di nuovo, riappropriandosi di quelle fattispecie che la deroga le aveva temporaneamente sottratto. Se al contrario la deroga fosse assoluta (come nell’ipotesi dualista), legittimerebbe il diritto eccezionale a ribaltare principi e regole costituzionali, facendone conseguire la trasformazione permanente in un ordine giuridico fondato ex novo dal potere derogatori che di fatto agirebbe come forza costituente.
Il secondo elemento del paradigma di law of fear è la irretroattività, nel senso comunemente inteso dalla scienza giuridica: puntualizzazione della efficacia del principio di legalità a tutela dell’individuo; nonché – sotto il profilo formale - concetto addirittura identificabile con la legalità stessa. Riguardo al primo aspetto, la specificazione che la legge penale debba essere entrata in vigore prima della commissione del reato costituisce per il soggetto l’importante garanzia di poter orientare consapevolmente la propria scelta di condotta: egli infatti sarà in grado di accertarsi se tale scelta rientri o meno nella zona di rischio penale, avendo l’opportunità di conoscere il contenuto della norma. Riguardo al secondo aspetto, va osservato che non ha alcun senso logico vietare o prescrivere comportamenti già tenuti, come se il tempo non fosse di per sé irreversibile[88]. In aggiunta, la retroattività della legge metterebbe in crisi la fiducia dei consociati.[89] Pertanto, anche le misure emergenziali dovranno essere adottate “nelle immediate vicinanze temporali del fatto emergenziale e [dovranno] produrre effetti pro futuro.”[90]
Il terzo elemento è la temporaneità: il diritto eccezionale può porre soltanto regole a durata prefissata o, in mancanza di un termine finale posto ex ante, comunque destinate a esaurirsi col venir meno dello stato di emergenza, ossia del fatto causativo della law of fear.
La temporaneità comporta che alla cessazione della disciplina eccezionale l’ordinamento ritorni allo stato preesistente: i diritti prima compressi riacquistano la loro iniziale condizione, sulla base di una modalità di recupero che dipenderà da come la legge avrà tracciato il limite a questi diritti. La mancanza di un unico meccanismo, pertanto, comporterà che in alcuni casi il diritto venga a ri-estendersi in via automatica; mentre in altri ci sarà bisogno di un atto accertativo della cessazione dello stato emergenziale.
Come già accennato, è necessario che queste tre caratteristiche siano presenti. In assenza di una di esse saremmo di fronte a un’altra fattispecie giuridica: una norma ordinaria a termine nel caso in cui mancasse l’eccezionalità, una norma speciale antinomica se difettasse la temporaneità.[91
7. Conclusioni.
L'impatto del terrorismo sulla società e sulla stabilità nazionale spinge i Paesi che ne vengono colpiti ad adottare misure emergenziali se non veri e propri stati d'emergenza costituzionalmente previsti. Il carattere permanente e distorsivo dello stato d'emergenza sull'ordinamento democratico, secondo la dottrina, può variare sulla base di un modello "dualista" o "monista". Indipendentemente da ciò, la gestione dell'emergenza terrorista e la relativa tutela dei diritti fondamentali vengono inquadrate nel paradigma della law of fear, il quale presenta tre caratteri fondamentali: eccezionalità, irretroattività e temporaneità.
Tra tutti, l’elemento della temporaneità è di assoluto rilievo, evidente anche nell’ambito del giudizio di costituzionalità da parte del Giudice delle leggi italiano. Nel prossimo articolo sulla tutela dei diritti fondamentali nella lotta al terrorismo, il tema della temporaneità della law of fear ci consentirà quindi di introdurre un'analisi del rapporto tra emergenza e ordinamento giuridico nella nostra nazione.
Note e riferimenti bibliografici.
[1] L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima), in Riv. Cammino Dirit. 1,19; L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte seconda), in Riv. Cammino Dirit. 1,19.
[2] B. Ackerman, Before the next attack: preserving civil liberties in an age of terrorism, Yale University Press, New Haven & London, 2006, Introduzione.
[3] Cosa prevede lo stato d'emergenza dchiarato in Francia, articolo di Internazionale, 14.11.2015;
[4] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e Costituzioni democratiche, 2006, Il Mulino, Bologna, cap. 2 para. 1.
[5] P. Bonetti, op. cit. p. 61.
[6] G. De Minico, op. cit., cap. I.
[7] R. Bartoli, Regola ed eccezione nel contrasto al terrorismo internazionale, in Diritto Pubblico, fascicolo 1-2, gennaio-agosto 2010, pp. 330-ss.
[8] G. De Minico, op. cit., p. 9.
[9] R. Bartoli op.cit., p. 330.
[10] R. Bartoli, op. cit., pp. 333-ss
[11] P. Bonetti, op. cit., p. 62.
[12] R. Bartoli, op. cit., p. 337.
[13] G. De Minico, op. cit., pp. 9-ss.
[14] F. Heisbourg, Iperterrorismo. La nuova guerra. Meltemi Editore. Roma, 2002, pp. 11-ss;
D. Zolo, La giustizia dei vincitori, Laterza Editore, Roma-Bari, 2012, pp. 97-98.
[15] G. De Minico, op. cit., p. 14.
[16] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, 2006, Società editrice Il Mulino, cap. I.
[17] R. Bartoli, op. cit., pp.338-ss
[18] R. Bartoli, op. cit., p. 344
[19] R. Bartoli, op. cit., pp. 345-ss.
[20] M. Meccarelli, Paradigmi dell’eccezione nella parabola della modernità penale. Una prospettiva storico-giuridica, in Quaderni Storici, fascicolo 2, agosto 2009, p. 495.
[21] R. Bartoli, op. cit., pp. 346-ss.
[22] G. De Minico, op. cit., cap. I para. 2.
[23] S. Romano, Sui decreti-legge e lo stato d’assedio in occasione del terremoto di Messina e Reggio-Calabria, p. 263.
[24] G. De Minico, op.cit., pp. 15-ss.
[25] G. Agamben, State of exception, University of Chicago Press, 2005, traduzione di Kevin Attel, pp. 21-32.
[26] S. Romano, op. cit.
[27] G. De Minico, op. cit., p. 19
[28] B. Ackerman, The Emergency Constitution, in Yale Law Journal, 2003-2004, p. 1039.
[29] Art. 115c (2) 1,2; art. 115g. Versione italiana a cura di Roberto Zanon.Consultabile sul sito dell'Associazione Art.3
[30] C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del , Bologna, il Mulino, 1972, pag. 33.
[31] D. Dyzenhaus, The Constitution of Law: Legality in a time of emergency, Cambridge University Press, 2006, Introduzione.
[32] D. Dyzenhaus, op. cit., p. 6.
[33] D. Dyzenhaus, op. cit., pp. 40-ss.
[34] B. Ackerman, op. cit., pp. 1037-ss.
[35] B. Ackerman, op. cit., p. 1040.
[36] B. Ackerman, op. cit., p. 1037.
[37] B. Ackerman, op. cit., pp. 1047-ss.
[38] B. Ackerman, op. cit., pp. 1050-ss.
[39] B. Ackerman, op. cit., p. 1051, nota a piè di pagina n. 49.
[40] D. Dyzenhaus, op. cit., pp. 41-42.
[41] C. L. Rossiter, Constitutional Dictatorship, Princeton University Press, 1948, p. 314.
[42] C. L. Rossiter, op. cit., p. 7.
[43] C. L. Rossiter, op. cit., p. 8.
[44] C. L. Rossiter, op. cit., p. 299.
[45] Ibid.
[46] C. L. Rossiter, op. cit., cap. 14.
[47] Sono menzionati i casi Prize del 1863 (67 US 653); 2 Black (67 US 653).
[48] D. Dyzenhaus, op. cit., p. 37.
[49] D. Dyzenhaus, op. cit., p. 38.
[50] G. Agamben (trad. Kevin Attel), State of exception, University of Chicago Press, 2005, cap. 3.
[51] G. Agamben, op. cit., pp. 47-ss.
[52] G. Agamben, op. cit., p. 47.
[53] D. Dyzenhaus, op. cit., pp. 42-ss.
[54] C. R. Sunstein, Minimalism at War, in Supreme Court Review, 2004, pp. 47-110.
[55] D. Dyzenhaus, op. cit., p. 42.
[56] C. R. Sunstein, op. cit., p. 48.
[57] C. R. Sunstein, op. cit., pp. 53-54.
[58] G. De Minico, op. cit., pp. 85-ss.
[59] P. Bonetti, op. cit., pag. 19.
[60] P. Bonetti, op. cit., pagg. 20-21.
[61] Artt. 4, 5. Consultabile sul sito del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Torino.
[62] Art. 12.
[63] P. Bonetti, op. cit., p. 25.
[64] P. Bonetti, op. cit., pp. 26-27.
[65] G. De Vergottini, La difficile convivenza fra libertà e sicurezza. La risposta delle democrazie al terrorismo. Gli ordinamenti nazionali. Relazione del convengo annuale dell’Associazione Italiana Costituzionalisti, 2003. Consultabile sul sito dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti.
[66] P. Pinna, L’emergenza nell’ordinamento italiano, 1988, Giuffrè, p. 72.
[67] G. De Minico, op. cit., pp. 61-ss.
[68] G. De Vergottini, Guerra e Costituzione, 2004, Il Mulino, p. 206.
[69] G. De Minico, op. cit., p. 61.
[70] G. De Minico, op. cit., pag. 62.
[71] D. E. Adelman, Harmonizing Methods of Scientific Inference with the Precautionary Principle: Opportunities and Constraints, in Environmental Law Reporter, Vol. 34, 2004, p. 10133.
[72] G. De Minico, op. cit., pag. 66.
[73] O. Gross, Chaos and Rules: Should Respones to Violent Crises Always Be Constitutional? In Yale Law Journal, vol. 112, 2003, pp. 1011-1134.
[74] O. Gross, op. cit., p. 1089.
[75] O. Gross, op. cit., p. 1092.
[76] C. Gearty, Liberty and Security, Polity Press, Cambridge, 2013, pp. 20-21, 74.
[77] G. De Minico, op. cit., p. 68.
[78] G. De Minico, op. cit., p. 69.
[79] C. R. Sunstein, Laws of Fear: Beyond the Precautionary Principle, 2005, Cambridge Press, pp. 14-ss.
[80] G. N. Mandel, James Thuo Gathii, Cost-benefit analysis versus the precautionary principle: beyond Cass Sunstein’s laws of fear, in University of Illionis Law Review, 2006, pp. 1044-1045.
[81] G. De Minico, op. cit., p. 71-ss.
[82] M. Borgers, Elies van Sliedregt, The meaning of the precautionary principle for the assessment of criminal measures in the fight against terrorism, in Erasmus Law Review, 2009, pp. 183-ss.
[83] M. Borgers, E. van Sliedregt, op. cit., p. 185.
[84] C. R. Sunstein, op. cit. p. 67.
[85] M. Borgers, E. van Sliedregt, op. cit., p. 185.
[86] G. De Minico, op. cit., pp. 71-72.
[87] G. De Minico, op. cit., pp. 73-ss.
[88] F. Ramacci (a cura di Roberto Guerini), Corso di diritto penale, V edizione, Giappichelli, Torino, 2013, p. 83.
[89] G. De Minico, op. cit., p. 75.
[90] G. Marazzita, L’emergenza costituzionale, Giuffrè, 2003, p. 166.
[91] G. De Minico, op. cit. p. 76.