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Pubbl. Gio, 20 Dic 2018

Malore in piscina: responsabile il gestore se ha affidato al bagnino altri compiti oltre alla vigilanza

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Maria Erica Gangi
Avvocato


Nota di commento a sentenza della Corte di Cassazione, IV Sezione penale, del 29 agosto 2018 n. 39139


La Corte di Cassazione, IV Sezione penale,  con sentenza del 29 agosto n. 39139 ha affermato il pricipio secondo cui ricorre la responsabilità penale del gestore di una piscina aperta al pubblico per le lesioni subite dall’utente – fruitore del servizio- qualora, il gestore stesso, abbia affidato al bagnino, oltre all'incarico di occuparsi  della sorveglianza dei clienti, altri compiti quali la fornitura di ombrelloni, lettini ed il corredo funzionale alle richieste dell’utenza.

Gli Ermellini hanno correttamente evidenziato che il carico gravoso di compiti cosi eterogenei in capo ad un unico soggetto determini l'impossibilità di svolgere con dovizia il suo ruolo nevralgico: la supervisione del cliente affinchè nulla gli accada durante la fruizione del servizio aperto al pubblico.

In specie è d’uopo osservare la natura con cui è stato contrassegnato l’elemento psicologico in capo al gestore trattandosi di colpa specifica nella misura in cui questi abbia contravvenuto a quanto statuito in materia di norme igienico – sanitarie, della manutenzione e della vigilanza delle piscine a uso natatorio in seno alla Conferenza Stato-Regioni del 16.01.2003, avente ad oggetto l'accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano.

Volgere la lettura al dato normativo di riferimento può, certamente, essere d’ausilio al fine di meglio inquadrare la questione di cui trattasi; precisamente l’art. 4 della Conferenza sopra citata così recita: Il titolare dell’impianto individua i soggetti responsabili dell’igiene, della sicurezza degli impianti e dei bagnanti e della funzionalità delle piscine. (…) L’assistenza ai bagnanti deve essere assicurata durante tutto l’orario di funzionamento della piscina. L’assistente bagnanti abilitato alle operazioni di salvataggio e di primo soccorso ai sensi della normativa vigente, vigila ai fini della sicurezza, sulle attività che si svolgono in vasca e negli spazi perimetrali intorno alla vasca. In ogni piscina dovrà essere assicurata la presenza continua di assistenti bagnanti” .

Non v’è dubbio che l’accordo oggetto della Conferenza Stato – Regioni ha il fine ultimo – nel disciplinare i compiti dell’addetto alla sicurezza – di descrivere il potere-dovere di controllo pieno, completo, specifico ed attento; controllo, questo, adeguato al bene tutelato: la sicurezza della vita umana, la sua incolumità. Ne discende che qualora detto peculiare compito venga affiancato da altri – certamente meno rilevanti, più frivoli e organizzativi  - il titolare del potere-dovere di cui sopra non potrà svolgere con la medesima diligenza tutte le mansioni di cui è stato investito, con l’ovvia conseguenza di sacrificarne qualcuna così da procurare conseguenze pregiudizievoli nei confronti dei clienti i quali – indebitamente – vedranno indebolito il livello di salvaguardia della propria incolumità.

L’indagine normativa che la vicenda in esame evoca consente di trattare, in via preliminare, dell’art. 43 c.p. ritenuto, a buon diritto, norma cardine del sistema penale in quanto scrigno del c.d. elemento psicologico del reato.

Il legislatore del codice del 1930 ha inquadrato il delitto come doloso, o secondo l’intenzione,  quando l’agente si sia rappresentato quanto in concreto realizzato, sì da poter asserire che l’evento determinatosi è conseguenza della propria azione od omissione.

Nel delitto doloso l’autore del fatto compie, interiormente, un iter criminis preciso e puntuale tracciabile attraverso l’ideazione, rappresentazione e conseguente perseguimento del fine (dolo diretto) o accettazione del rischio circa la sua verificabilità senza, per ciò, nulla fare per evitarne o arginarne la portata (dolo eventuale).

Il delitto è, invece, preterintenzionale o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente laddove, quindi, alla volontà dolosa del fatto meno grave faccia seguito, sul piano causale rispetto alla condotta criminosa, la realizzazione di un evento più grave rispetto a quello perseguito. 

Il comma terzo, infine, tratta di altro elemento psicologico, la colpa, asserendo che è colposo , o contro l’intenzione, l’evento che anche se preveduto (colpa cosciente) non è voluto dall’agente, né perseguito e il suo verificarsi è imputabile a negligenza, o imperizia, o imprudenza – ipotesi queste che configurano la c.d. colpa generica – o, diversamente, si realizza (l’evento) a seguito di violazione di norme di legge, regolamenti, ordini o discipline; in tali ultimi casi ricorre la colpa specifica i cui lineamenti sono inquadrabili nella fattispecie oggetto della presente analisi.

Un inquadramento sistematico del caso in esame richiede, altresì, l’attenzione da volgere al ruolo assunto dal gestore nella misura in cui si sia avvalso della delega a terzi – giustappunto il soggetto preposto alla vigilanza – per conferire a questi il controllo e la sorveglianza degli utenti nonché ulteriori incarichi impedendo, di fatto, la piena realizzazione del primo.

L’esercizio del potere di delega, la sua natura e le peculiarità che lo contraddistinguono nasce in seno al D. Lgs n. 231/2001 in materia di responsabilità penale degli Enti e delle Società.

All’uopo il Legislatore ha riconosciuto la facoltà, in capo al titolare dell’azienda, di avvalersi del potere di cui sopra purché in presenza di taluni presupposti: che si trattasse di azienda di grandi dimensioni, che venisse esercitato detto potere per delegare lo svolgimento di ruoli specifici richiedenti l’esistenza di competenze tecniche quali potessero essere quelle in materia di sicurezza, che risultasse da atto scritto la cui previsione – con conseguente posta economica – fosse stata inserita nel bilancio di previsione dell’Ente sì da non comportare un aggravio economico importante.

Taluni aspetti necessitano delle precisazioni.

Il primo presupposto – relativo alla giustificazione della delega solo per aziende di grandi dimensioni – è stato oggetto di apposito correttivo: l’elemento idoneo ad ammettere il potere in commento deve essere l’entità, l’incidenza e la complessità dell’incarico svolto dall’Ente a prescindere dall’aspetto dimensionale; ne discende l’assunzione della regola di diritto per cui anche un’azienda di piccole dimensioni può richiedere l’attivazione del potere di delega qualora svolga assetti sì importanti da giustificarne l’attivazione al fine di accrescere la virtuosità.

Ulteriore profilo che merita attenzione è quello relativo alla posizione di garanzia che il titolare/gestore svolge, in specie se questa possa essere trasferita in capo al terzo delegato.

Sul punto unanime quanto statuito dalla Giurisprudenza di merito, confermato a più riprese dalla Giurisprudenza di legittimità , per cui nessun trasferimento, circa la posizione di garanzia, può aversi attraverso il ricorso al potere di delega con cui può rimettersi al terzo unicamente lo svolgimento di poteri specifici per i quali il delegante, invero, non abbia competenze apposite; diversamente gli obblighi di protezione che questi è tenuto ad assumere in forza della fonte legislativa attributiva degli stessi nonché a seguito della presa in carico del bene debbono rimanere ben saldi in capo al gestore.

In virtù di quanto sopra detto ne discende che il delegante – sol perché attinge al potere di trasferimento di funzioni – non può ritenersi scevro da ogni responsabilità, né liberato da oneri di controllo e vigilanza circa l’operato del delegato il cui contenuto rimane sì avvinto dall’insindacabilità ma deve rispondere circa il fine garantito al momento dell’assunzione di incarico.

Per effetto di detto potere in capo al delegante si assiste al sorgere di una dicotomia tra culpa in vigilando e culpa in eligendo: per i fatti lesivi, dannosi, idonei a costituire detrimento nei confronti dei terzi, il gestore risponderà a titolo di culpa in vigilando qualora abbia omesso di controllare l’operato del delegato, ribadire detto principio consente di mettere in luce come il potere di delega non realizzi un’abdicazione di responsabilità a favore del titolare dell’Ente; v’è di più perché permette di porre – a fortiori -  in luce le necessità per cui questi ricorra alla facoltà di trasferimento di funzioni: lo svolgimento di incarichi tecnici che richiedano competenze specifiche non riscontrabili sul soggetto che delega.

Diversamente si potrà configurare un’ipotesi di culpa in eligendo ogni qualvolta profili di responsabilità sorgano a seguito di errata e improvvida individuazione del soggetto cui delegare, dimostratosi inadeguato ad adempiere e correttamente eseguire le mansioni assegnategli.

Le considerazioni sopra svolte consentono di evidenziare un principio di diritto da incardinare nella c.d. responsabilità solidale o congiunta sì che, a fronte di eventi lesivi il cui verificarsi possa ritenersi imputabile all’esercizio del potere di delega, al suo contenuto e ai controlli ad esso connessi, di detti eventi risponderanno penalmente tanto il delegante che il delegato chiamati a comparire innanzi l’Autorità Giudicante competente al fine di accertarne responsabilità ed obblighi risarcitori conseguenti.

Non v’è dubbio che le considerazioni sopra svolte giammai potrebbero validamente estendersi alla fattispecie oggetto della sentenza in commento  atteso che, sebbene, per un verso, si sarebbe potuto giustificare il ricorso al potere di delega in favore di soggetto addetto alla sicurezza dei bagnanti fruitori della piscina aperta al pubblico – stante la indiscutibile competenza che un “bagnino” è tenuto ad avere -, per l'altro, non ricorre alcuna ragione giustificativa per essere stato lo stesso soggetto investito di altri incarichi, gravosi nonché fuorvianti dal ruolo di preposto alla incolumità del cliente.

Non può, ergo, ragionevolmente presupporsi un coinvolgimento di responsabilità di quest’ultimo atteso che questi null’altro ha fatto se non adeguare il proprio lavoro alle mansioni di cui era stato investito ad opera del gestore della struttura.

 Dovrà quindi concludersi per l’imputabilità del reato di lesioni colpose unicamente in capo al gestore il quale, con la condotta a lui ascritta, nel delegare un eccesso di funzioni verso un unico soggetto, ha realizzato – nella fattispecie de qua – un delitto colposo sussumibile all’ipotesi di colpa specifica per violazione della norma cautelare rappresentata dall’art. 4 della Convenzione Stato – Regioni sottoscritta nel 2003 con conseguente soddisfazione del nesso causale richiesto a norma dell’art. 40 c.p. in specie con riferimento alla c.d. clausola di equivalenza per cui non impedire un evento equivale a cagionarlo.

Va precisato che l’evocazione di detto dato normativo introduce nell’analisi in commento la disciplina in materia di reati omissivi impropri – qualificati – perché per il loro verificarsi è richiesta la c.d. posizione di garanzia, di cui si è discusso, oltreché l’accertamento della c.d. causalità della colpa il cui scrutinio coincide ed è sovrapponibile con la c.d. causalità nella condotta: a tal fine l’interprete è chiamato ad indagare ed individuare la norma contravvenuta il cui ossequio avrebbe permesso il mancato verificarsi dell’evento e, conseguentemente, occorre accertare il grado di prevedibilità ed evitabilità dello stesso così come raffigurato in capo all'agente sì da soddisfare il requisito c.d. soggettivo della colpa.