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Pubbl. Sab, 3 Nov 2018

Caso Provenzano c. Italia. La Corte EDU è cristallina.

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Angela Cuofano


Il 25 ottobre la Corte Europea dei Diritti dell´Uomo ha condannato l´Italia per aver violato l´art. 3 della Convenzione. Nello specifico, la Nazione è accusata di aver trattato in modo disumano il detenuto Bernardo Provenzano, nel momento in cui ha confermato l´applicazione dell´art. 41 bis ord. pen.


Sommario: 1) Premessa; 2) L'art. 41 bis o.p.: nozione e ratio nel sistema italiano; 2.1) Caratteristiche; 2.2) Ambito di applicazione; 2.3) Misure applicabili; 2.4) Soggetti destinatari; 3) Questioni costituzionali; 4) Il caso di Bernardo Provenzano; 5) La decisione della Corte Edu; 6) Conclusioni. 

1) Premessa

La decisione della Corte Edu del 25 ottobre 2018 ha destato non poco scalpore. I giudici hanno condannato l'Italia per aver violato l'art. 3 della CEDU che riguarda il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Nello specifico, la Nazione sarebbe rea di aver confermato al detenuto Bernardo Provenzano il regime carcerario di cui all'art. 41 bis o.p., incurante delle sue precarie condizioni di salute.

2)L'art. 41 bis o.p.: nozione e ratio nel sistema italiano

Per far luce sulla spinosa questione, che involge numerosi profili non solo di diritto, ma anche politici, etici e morali, appare opportuno chiarire il contenuto dell'art. 41 bis o.p..

La norma in questione, comunemente chiamata "carcere duro", venne introdotta dalla legge Gozzini, che modificò la legge 26 luglio 1975, n. 354 (relativa all'ordinamento penitenziario italiano), e riguardava inizialmente soltanto le situazioni di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza interna alle carceri italiane.

A seguito della strage di Capaci del 23 maggio 1992, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta, fu introdotto dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, un secondo comma all'articolo, che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parte dell'organizzazione criminale mafiosa.

Il trattamento riservato ai detenuti sottoposti al regime, considerato il più pesante in assoluto, sospende il normale stile di vita del carcerato e le garanzie a lui riservate, preferendo un sistema più aspro, che assicura il mantenimento della sicurezza e dell'ordine pubblico.

La disposizione è riservata in particolare nei confronti degli internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis, o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.

Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) ha visitato le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al regime ex art. 41-bis. Ad avviso della delegazione, questa particolare fattispecie di regime detentivo era risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva. La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti. I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.

La norma aveva carattere di temporaneità: la sua efficacia era limitata a un periodo di tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione. La sua efficacia è stata prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e una terza volta fino al 31 dicembre 2002. Dopo 10 anni dalla strage di Capaci, il 24 maggio 2002 il Consiglio dei Ministri deliberò un disegno di legge di modifica degli articoli 4-bis e 41-bis che fu poi approvato dal Parlamento come Legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), abrogando la norma transitoria che sanciva il carattere temporaneo di tale disciplina e prevedendo che il provvedimento ministeriale non poteva essere inferiore a un anno e non poteva superare i due e che le proroghe successive potessero essere di solo un anno ciascuna; il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione, come già era con l'ex articolo 90.La legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha modificato i limiti temporali, tuttora in vigore: il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna. Secondo le nuove regole i detenuti possono incontrare senza vetro divisore i parenti di primo grado inferiori a 12 anni di età, ma resta il divieto a detenere libri e giornali tranne casi particolari e autorizzati.

2.1) Caratteristiche

La norma prevede la possibilità per il Ministro della giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla stessa legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcuni detenuti (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione e altri tipi di reato.

2.2) Ambito di applicazione

Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto a ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all'interno del carcere e i contatti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri.

2.3) Misure applicabili

La legge specifica le misure applicabili:

  • Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una camera di pernottamento singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere;
  • L’ora d’aria è limitata - rispetto ai detenuti comuni - a due ore al giorno e avviene anch'essa in isolamento;
  • Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari;
  • Limitazione dei colloqui con i familiari e gli avvocati per quantità (massimo uno al mese; nel caso degli avvocati questa norma è stata annullata dalla Corte costituzionale nel 2013), per qualità (impedito contatto fisico da un vetro divisorio) e per durata. Solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell'istituto un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti.
  • Sottoposizione a visto di censura della posta in uscita e in entrata.
  • Limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti (penne, quaderni, macchine fotografiche, bottiglie, ecc.) che possono essere ricevuti dall'esterno.
  • Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati.

La Corte di cassazione, con ripetute sentenze, ha riconosciuto la legittimità della circolare del 2011 e della regolamentazione che essa prevede.

2.4) Soggetti destinatari

Il "carcere duro" è applicabile per taluno dei delitti indicati dall'articolo 41-bis della legge penitenziaria:

  1. delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;
  2. delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso;
  3. delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'associazione mafiosa ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose;
  4. delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù;
  5. prostituzione minorile, consistente nell'indurre alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero nel favorirne o sfruttarne la prostituzione;
  6. delitto di chi, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche e chi fa commercio del materiale pornografico predetto;
  7. delitto di tratta di persone;
  8. delitto di acquisto e alienazione di schiavi;
  9. delitto di violenza sessuale di gruppo;
  10. delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;
  11. delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri;
  12. delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope

Tutto quanto sopra esposto, ha portato accese discussioni sulla legittimità o meno dell'articolo in questione. Amnesty International ha definito il 41-bis, in alcune circostanze, come "crudele, inumano e degradante".

3) Questioni costituzionali

Il regime di 41-bis applicato per periodi molto lunghi, anche a persone non condannate in via definitiva, è ritenuto da alcuni giuristi come incostituzionale, ma finora le pronunce della Corte costituzionale (in riferimento all'articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana) e della Corte europea dei diritti dell'uomo (ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) avevano sempre, almeno sino a questo momento, confermato la legittimità del provvedimento.

Nonostante l'affermazione di legittimità, la Corte Costituzionale nelle sentenze del 28 luglio 1993 n. 349, del 19 luglio 1994 n. 357, del 18 ottobre 1996, n. 351, e ancora con la sentenza n. 376 del 1997, si è espressa sulla compatibilità del regime 41-bis con i principi costituzionali, rilevando già nella prima sentenza, in riferimento al principio di rieducazione della pena sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, come ai detenuti venissero riservati "trattamenti penali contrari al senso di umanità, non ispirati a finalità rieducativa ed, in particolare, non 'individualizzati' ma rivolti indiscriminatamente nei confronti di reclusi selezionati solo in base al titolo di reato".

Nel 2013 la Corte costituzionale ha dichiarato invece illegittime le limitazioni in materia di colloqui con l'avvocato difensore.

4) Il caso di Bernardo Provenzano 

Il ricorso, presentato dal figlio e dalla compagna del detenuto per conto dello stesso nel luglio 2013, lamentava la mancanza di cure mediche adeguate e l’imposizione dello speciale regime carcerario, nonostante le condizioni di salute precarie, in violazione dell’articolo 3 Cedu.

La sentenza, in prima battuta, ripercorre tutti i crimini commessi da Provenzano, evidenziando che fosse stato latitante per oltre 40 anni, arrestato nel 2006, sottoposto a processo per associazione mafiosa, strage, tentato omicidio aggravato, traffico di droga, sequestro di persona, possesso illegale di armi, estorsione, condannato con applicazione di plurimi ergastoli, detenuto fino al trasferimento in reparti ospedalieri protetti, in relazione alle condizioni di salute, dove è deceduto nel 2016. Era detenuto ai sensi dell’articolo 41-bis ord. pen. (cd, regime di carcere duro). Ciò premesso, in seguito, vari procedimenti si erano succeduti per la revoca dello speciale regime di detenzione, a seguito dell'aggravamento delle condizioni di salute, e dell’estensione temporale del medesimo nel marzo 2014 e poi nel marzo 2016; le istanze erano tutte state respinte alla luce dei pareri negativi delle Direzioni distrettuali antimafia di Caltanissetta, Palermo e Firenze.

5) La decisione della Corte Edu

Nel rigettare le eccezioni preliminari del Governo, la Corte ha concluso, sulla base di una valutazione complessiva dei fatti, per il mancato accertamento sulla incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute dell'internato e la sua età avanzata, nonché sull'inadeguatezza delle tutele per la salute e il suo benessere poste in essere dallo Stato. Ragion per cui, in questa parte, l'art. 3 Cedu non veniva violato.

La Corte riferendosi, dunque, alle sue precedenti pronunce in materia, ha dato atto che il Governo aveva ampiamente dimostrato che il detenuto (boss di associazione mafiosa) continuava a rappresentare un grave pericolo per la società, considerando che le finalità dello speciale regime carcerario erano preventive e di sicurezza e non punitive; tuttavia ha poi osservato che «assoggettare un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive, imposte dalle autorità carcerarie a loro discrezione, senza fornire sufficienti e rilevanti ragioni basate su una valutazione individualizzata di necessità, minerebbe la sua dignità umana e violerebbe il diritto enunciato all’articolo 3». Inoltre, ha affermato la Corte che «è difficile accertare in che maniera e con quale approfondimento tali circostanze furono tenute in conto nel valutare la necessità dell’estensione delle restrizioni. Pertanto, la Corte non può che concludere che nella motivazione dell’ordine non vi è prova sufficiente che sia stato fatto un genuino accertamento dei mutamenti rilevanti nella situazione del ricorrente, in particolare del suo critico declino cognitivo. Tenuto conto di ciò, la Corte non è persuasa che il Governo abbia dimostrato in modo convincente che, nelle circostanze particolari del caso, l’estensione dell’applicazione del regime del 41-bis nel 2016 fosse giustificata». Da qui la condanna per violazione dell’articolo 3.

6) Conclusioni

La pronuncia in esame si presenta in qualche modo rivoluzionaria, dato che giunge ad affermare l'incostituzionalità dell'art. 41 bis o.p.. Se è vero, infatti, che gli assoggettati a tale regime sono persone di elevata pericolosità sociale e colpevoli dei crimini più ignobili, non bisogna dimenticare la rilevanza dell'art. 27 Cost. che vieta in maniera tassativa il ricorso a trattamenti contrari al senso di umanità. Le condizioni di salute di Provenzano non permettevano, almeno secondo il parere dei giudici, un ricorso equo al trattamento in questione.

A questo punto, non resta altro che attendere gli sviluppi, senz'altro interessanti, della questione.