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Pubbl. Dom, 28 Ott 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

È valida la donazione di un bene della comunione legale da parte di un solo coniuge

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Maria Avossa
Università degli Studi di Salerno


La donazione di un bene rientrante nella comunione legale dei beni disposta in favore di un figlio è valida anche se posta in essere da uno solo dei coniugi, senza il consenso dell’altro. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, sez. II, con ordinanza 31 agosto 2018, n. 21503.


Sommario: Introduzione. - 1. Negozio gratuito, liberalità e donazione - 2. La nozione  e gli elementi della donazione – 2.1. La causa della donazione. - 2.2. La donazione di un cosa altrui. - 3. La recente ordinanza della Cassazione civile, sez. II, 31 agosto 2018, n. 21503. I rapporti tra donazione e comunione legale dei coniugi. – 3.1 I rapporti tra donazione e l’azione di riduzione dei legittimari. – 4. Osservazioni conclusive. – Bibliografia.

Introduzione.

Gli interpreti del diritto, da sempre, si sono profusi in elaborazioni di teorie giuridiche in tema di donazione di cosa altrui per poter configurare o escludere la sua ammissibilità in punto di diritto. Di fatto, come regola generale in tema di contratti, l’art. 1348 c.c.,[1] consente alle parti di disporre validamente di un bene futuro. In tal maniera, salvo il caso di un divieto legale, è principio generale che, anche, le cose future possono dedursi come oggetto della prestazione (art. 1348 c.c.). Le cose altrui sono da equipararsi negli effetti del negozio giuridico alle cose future quando si deducono con riguardo all'eventualità che siano acquisite in tempo postumo al patrimonio della parte che ne dispone. Le cose altrui oggetto di disposizione sono contemplate separatamente dalle cose future negli articoli 1478 c.c. e 2822 c.c. in merito alla circostanza in cui un soggetto deduca la cosa come se fosse già nel suo patrimonio oppure sia nella certezza che essa ne divenga parte. Tali fattispecie si distinguono dal diverso caso in cui venga dedotta in un negozio un bene nella speranza che si acquisisca nel proprio patrimonio. Quest’ ipotesi va accomunata ad un’altra, ossia, quella in cui si deduce una cosa attualmente inesistente, ma della quale è probabile la nascita. Il legislatore appresta, però, dei divieti ai negozi di cosa futura o altri, come norme eccezionali rispetto al criterio generale dell’art 1348 c.c.. E’ cosa futura, perciò, la successione non ancora aperta, ma oggetto del divieto contenuto nell'art. 458 c.c.. Riguarda, invece, la categoria di cose altrui che si spera vengano a far parte del proprio patrimonio, il divieto dell'art. 771 c.c.in tema di donazioni. Di fatto, al di là dell’espresso veto normativo di disporre per donazione di beni futuri, non è possibile rinvenire alcuna norma parallela all’art. 1348 c.c che configuri l’ammissibilità della relativa ipotesi in tema di donazione, quando il bene appartenga ad un patrimonio estraneo a quello del disponente che ponga in essere una donazione. Ragionando per associazione comparatistica rispetto alla disciplina dei contatti, non solo non è possibile postulare la donazione di cosa futura ma, men che meno, è possibile ipotizzare una donazione di cosa altrui. Tale deduzione ha un suo riscontro normativo, per un lato, nella natura e nella disciplina del contratto di donazione - tipizzato agli art. 769 e seguenti del codice civile- e, per un altro lato, nella citata norma dell’art 771 c.c.. Per comprendere la ratio del legislatore, basta riflettere sul fatto che il negozio di disposizione, in generale, comporta una diminuzione patrimoniale per il soggetto o uno dei soggetti del negozio e corrisponde ad un accrescimento –o ad un vantaggio patrimoniale- nel proprio. Nella donazione ciò non succede poiché il negozio traslativo o obbligatorio si fonda sullo spirito di liberalità del donante e presuppone che i beni siano esistenti e nella titolarità di chi ne dispone per arricchire il patrimonio altrui senza alcun corrispettivo o controprestazione. Da questo se ne ricava che, per poter comprendere il fulcro della questione della donazione in res aliena bisogna far capo al concetto di “attuale inesistenza” dei beni altrui nel patrimonio del disponente. In passato, la giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità si era già occupata della questione, ma l’argomento non ha cessato di destare interesse nonostante la soluzione apprestata nel 2016 che appariva fornire una sedes materiae alla donazione di cosa altrui dichiarandone la nullità della donazione laddove fosse compiuta sui beni alieni. Di recente, la Corte di Cassazione, sez. II civile, con l’ordinanza 31 agosto 2018, n. 21503, è ritornata sulla tematica esaminando la materia da due distinte angolazioni. La prima è la validità o meno della donazione di un bene effettuata da parte di uno soltanto dei due coniugi in regime comunione. La seconda concerne la validità o meno di una donazione effettuata con l’effetto di favorire un erede, menomando i diritti di altro legittimario. Alla luce di quanto già detto, l’accenno – anche se succinto- alle tematiche al vaglio della Suprema Corte rende evidente la complessità della pronuncia in esame, poiché il pregevole ragionamento logico-giuridico operato dai Giudici Supremi contempla l'operatività delle norme del codice civile in tema di donazione[2] contestualizzate all'applicazione della disciplina in tema di comunione legale (artt. 159 c.c. e seg.) [3] e, al contempo, al contenuto dell’azione di riduzione del legittimario pretermesso (art. 553 c.c. e seg).  Per tale motivo è opportuno un ordine sistematico nella trattazione dei singoli argomenti giuridici coinvolti. La parte iniziale di questo scritto sottopone – giocoforza – all’attenzione del lettore l’analisi delle norme dell’istituto della donazione sia da un punto di vista dottrinale, sia da un punto di vista giurisprudenziale. La seconda parte della trattazione analizza l’interazione tra donazione e successione ereditaria, ed in particolare, con l’azione di riduzione dei legittimari in successione ereditaria. La finalità è quella di giungere ad un commento organico dell’ordinanza della Corte di Cassazione civile, sez. II, del 31 agosto 2018, n. 21503, poiché la pronuncia in esame esplicita la modalità di applicazione degli articoli 184 c.c. e 555 c.c.. ad un caso di una donazione eseguita da un singolo coniuge in regime di comunione legale. L’ordinanza in commento si inserisce nel solco delle evoluzioni in materia tracciate da precedenti giurisprudenziali della Suprema Corte, non ultima l’ accennata sentenza a Sezioni Unite n. 5806 del 2016.  Sul filo conduttore della pronuncia della Sezioni Unite, l’ordinanza n. 21503 del 2018 fornisce una lettura evolutiva che si distacca dal criterio della nullità delle donazioni di cosa altrui, operando una logica applicazione del combinato disposto tra le norme in tema di comunione legale dei coniugi ed azione di riduzione nelle successioni ereditarie. Tanto offre la possibilità di un esercizio critico oltre che stilistico- normativo rivolto a comprendere la portata dell’ordinanza in commento e l’effettivo valore della lettura aggiornata offerta da questa ultima in tema di donazione in re aliena, che sarà oggetto della parte conclusiva di questa monografica, dedicata nel suo fine ultimo a sondare gli aspetti critici dello stato dell’arte della giurisprudenza di legittimità in tema di donazione in di cosa altrui.

1. Negozio gratuito, liberalità e donazione.

La normazione esistente nel sistema codicistico del diritto civile risponde ad una logica economico-giuridica legata al principio di causalità negoziale, in ragione della quale uno spostamento patrimoniale deve essere giustificato da un incremento economico di una parte agente in favore di uno o più soggetti con corrispondente decremento della posizione giuridico-economica di un altro soggetto. Di regola, quindi, il trasferimento di diritti o l’assunzione di obbligazioni ha alla base uno spostamento di natura patrimoniale. Qualora alla prestazione di una parte non sia associata una controprestazione o un corrispettivo, il negozio giuridico si connota del carattere della gratuità. Tra gli atti a titolo gratuito rivestono una particolare importanza gli atti di liberalità[4], i quali si caratterizzano per tre specifici aspetti: 1. incrementano il patrimonio di chi li riceve, nel contempo, depauperando il patrimonio di chi cede un bene o esegua una obbligazione; 2. posseggono il carattere della spontaneità (spirito di liberalità) avvenendo in assenza di una coercizione giuridica di porli in essere[5]; 3. sono connotati dal c.d. animus donandi, definibile come la mancanza di un interesse patrimoniale del disponente sotteso allo spostamento di beni o all’assunzione di obbligazione[6]. Il lessico «liberalità» è utilizzato in forma espressa dal legislatore nella norma che rappresenta la principale forma di liberalità[7] , ossia attraverso l’articolo 769 c.c. ove si definisce la donazione (v. infra, § 2)[8]. Permangono, però, le difficoltà di definire i concetti di donazione, liberalità, e gratuità al fine di inquadrare sistematicamente le singole categorie e le norme ad esse applicabili.  Sulla scia della tradizione romanistica[9], il concetto di liberalità viene utilizzato dal nostro Codice Civile per descrive il contratto di donazione come negozio a titolo gratuito caratterizzato dallo spirito di liberalità, ma, al pari, non esiste nessuna precisa definizione né, tanto meno, una nozione chiara del concetto di gratuità e di liberalità che permetta di capire cosa si debba intendere con tali accezioni. Men che meno, è possibile limitarne il concetto di liberalità a quello di donazione contrattuale poiché, sia le liberalità in generale, sia la donazione rientrano nell’ampia tipologia degli atti gratuiti. Il rapporto esistente tra queste categorie è sussumibile nell’assioma in virtù del quale l’atto gratuito è definibile come il genus, mentre le liberalità sono una sua species.

Una corretta individuazione del concetto di liberalità passa attraverso una indagine preliminare sugli interessi concretamente perseguiti e condivisi dalle parti in quanto assume un ruolo rilevante[10], nella identificazione della causa del negozio, la gratuità con cui il disponente attua tale interesse non patrimoniale.    Ove il disponente sia portatore di un interesse non patrimoniale (si intende senza nemmeno ricevere vantaggi economici indiretti) e il beneficiario si avvantaggi di un arricchimento in termini economici sarà possibile inquadrare il negozio compiuto nelle categorie della gratuità o liberalità (diretta o indiretta). Viceversa, il negozio giuridico compiuto sarà inquadrabile nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, ove le parti siano entrambe portatrici di interessi patrimoniali[11]. In sostanza, si avrà gratuità, quando, è il negozio presenti l’assenza di corrispettivo, oppure quando sia mancante una sopportazione di sacrifici da parte di tutti i soggetti coinvolti nel contratto, nel senso che tutti sono chiamati a sopportare sacrifici per la realizzazione degli interessi determinati dal regolamento negoziale posto in essere. Si avrà “ liberalità” quando, invece, si realizzi uno spostamento o un arricchimento patrimoniale di un'altra parte volontariamente senza l’intento di perseguire un vantaggio economico o di rinunciare allo stesso. Lo schema negoziale potrà essere sia diretto - attraverso fattispecie nate a tale scopo (come la donazione pura o motivata), sia indiretto, cioè realizzato mediante l’utilizzo di schemi negoziali che non sono stati pensati dal legislatore a tale fine ma con uno scopo diverso, gratuito o oneroso. Pertanto, le liberalità indirette e dirette hanno una identità di causa, nel senso che gli interessi perseguiti e condivisi dalle parti sono analoghi, ma ne differisce lo schema negoziale utilizzato. L’atto di liberalità per antonomasia è costituito dalla donazione come schema contrattuale tipico (art 769 c.c.) . Con la donazione il concetto di liberalità viene relazionato -dal legislatore del 1942- ai negozi giuridici inter vivos, cogliendone l’alternatività rispetto alle disposizioni testamentarie, che hanno effetto, soltanto, dopo la morte del testatore. Le liberalità, - ed - in specie anche il contratto di donazione - sono funzionalmente assimilabili alle disposizioni testamentarie, poiché direttamente o indirettamente realizzano un interesse non patrimoniale del disponente a favore del beneficiario che si avvale degli effetti del negozio stipulato. Sotto tale profilo, infatti, gli atti di liberalità vengono anche definiti come “negozi successori anticipatori”[12], pur mantenendo tratti distinti sul piano strutturale. Nel caso delle disposizioni testamentarie, si parla di un negozio unilaterale, nel caso delle donazioni, di negozio bilaterale ma, di fatto, è solo in queste ultime che si verifica l’impoverimento del disponente[13].

2. La nozione e gli elementi della donazione.

La donazione contemplata dall’articolo 769 c.c.[14], rappresenta il prototipo della liberalità contrattuale a mezzo della quale si opera l’attribuzione spontanea e disinteressata che prescinde da qualsiasi rapporto giuridico preesistente, contemporaneo o futuro, eventualmente facente capo alle parti della fattispecie. La donazione è il contratto con il quale, «per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un obbligo» (art. 769 c.c.)[15]. Nel sistema dell’attuale codice civile italiano, la donazione è configurata come contratto (art. 769 c.c.) e non come atto[16]. Il contratto di donazione è un contratto a titolo gratuito, unilaterale che si perfezione per effetto della sola manifestazione della volontà delle parti. Il perfezionamento avviene con l’accettazione del donatario che oltre ad essere necessaria secondo la disciplina codicistica della donazione (art. 782 c.c.), assume il ruolo di una manifestazione di volontà variamente interpretata dalla dottrina[17], ma comunque assimilabile all’atto di accettazione di cui all’articolo 1326 c.c.. Nell’espressione della volontà del donante deve ricorrere un elemento oggettivo ed un elemento soggettivo. L’elemento oggettivo è l’accrescimento del patrimonio del ricevente a fronte del quale si produce un depauperamento nel patrimonio del disponente[18] [19] e l’accrescimento del patrimonio del ricevente. L’elemento soggettivo è lo spirito di liberalità[20]. Sul piano dell’elemento soggettivo, ciò che caratterizza la donazione è il così detto animus donandi che connota i negozi liberali in genere e vale a distinguerli dai negozi a titolo gratuito tipici oppure atipici. Lo spirito di liberalità è lo scopo tipico e costante perseguito dal disponente. Esso prescinde dai motivi particolari che ne abbiano indotto la determinazione volitiva della donazione, i quali, invece, possono rilevare in talune circostanze e a taluni effetti della fattispecie. Se, quindi, la caratteristica della gratuità si esaurisce nell’assenza di corrispettivo, l’animus donandi consiste nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, con un conseguente depauperamento del patrimonio del donante.

2.1 La causa della donazione.

In virtù dell’applicazione di principi contrattuali, la causa nelle donazioni si configura come un elemento essenziale e strutturale del contratto. Essa si identifica come il momento d’insieme e ragione dell’intera regolamentazione negoziale destinata a riassumere gli elementi oggettivi e soggettivi del negozio posto in essere. Trattandosi di un atto (contratto) gratuito, la causa vale a identificare il valore giuridico che una determinata operazione negoziale assume per le parti che l’hanno volontariamente posta in essere. L’animus donandi (lo spirito di liberalità) inferisce fortemente sulla causa della donazione, posto che l’interesse non economico del disponente caratterizza la causa dell’attribuzione mediante lo schema negoziale della donazione quale atto inter vivos, ragion per cui, la causa del contratto di donazione è riconducibile allo spirito di liberalità collegato ad un suo interesse non patrimoniale integrante la causa dei negozi liberali in genere [21]. Nelle donazioni, dove il fine liberale è elemento caratterizzante del tipo negoziale, diventa importante soffermarsi sulle esposte caratteristiche causa contrattuale e, quindi, sull’esistenza di un legame tra gli interessi delle parti e profilo causale dell’atto (detta anche interpretazione per interessi[22]). Questa relazione è recepita anche dalla giurisprudenza, la quale afferma che “causa del contratto è lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato”[23], frutto dell’inversione di tendenza rispetto alla concezione della causa come astratta funzione economico-sociale del contratto[24] . Il riferimento all’interesse nell’ambito contrattuale riconduce alla volontà del soggetto quale antecedente logico necessario al compimento dell’atto giuridico che può tendere ad un interesse patrimoniale- economico, o alla volontà del soggetto di conseguire un interesse “non patrimoniale-non economico”. La  coincidenza tra le cause concrete che hanno determinato il volere di ciascuna parte (motivo soggettivo – inconoscibile, poiché legato alla psiche del singolo) e il regolamento contrattuale utilizzato (motivo oggettivato) rende possibile -  attraverso questo ultimo “il motivo oggettivato”-  la ricerca dei concreti interessi perseguiti dalle parti, che si attua anche analizzando complessivamente le relazioni fiduciarie, personali, i fatti esistenti o meno tra i soggetti coinvolti proprio per ritrovare il concetto di buona fede e correttezza di cui all’art. 1366 c.c. il quale afferma che “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede” considerando i principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà di cui art. 2 e 3 Cost. che impongono di tenere conto delle esigenze di entrambe le parti nell’operazione negoziale che hanno posto in essere[25].

2.2. La donazione di cosa altrui.

Il già complesso quadro del contratto di donazione si arricchisce di ulteriori tratti normativi con la funzione di disciplinare la modalità di utilizzo dello schema negoziale stesso.   Dalla lettura del testo dell’art. 771 c.c. si acquisisce il concetto dell’oggetto della donazione. Si deve trattare di un “bene presente del donante”. Parimenti dalla terminologia usata dall’art 769 c.c. si trae il concetto che deve trattarsi di un “suo diritto”, cioè presente nel patrimonio del donante. Di norma, la parte che compie una operazione contrattuale dispone di un bene proprio, con ciò generando una perfetta coincidenza tra il soggetto che compie il negozio dispositivo ed il titolare del patrimonio cui appartiene l'oggetto del negozio e sul quale si producono gli effetti dello stesso. Nel caso opposto, ossia nel negozio in re aliena, si determina, invece, una scissione tra il soggetto disponente ed il titolare del patrimonio cui appartiene il bene. Ciò fa sorgere tra questi un secondo ordine di rapporti a rilevanza esterna che si aggiunge a quello tra le parti negoziali. Gli effetti applicativi delle norme contenute negli articoli 769 c.c. e 771 c.c. parrebbe mettere un punto fermo alle ipotesi del secondo tipo in ragione del richiamo testuale ad un concetto di un bene proprio (alias: diritto) presente nel patrimonio del donante. Alla medesima conclusione si potrebbe giungere utilizzando i concetti espressi dal Mengoni, il quale soleva rapportare  la possibilità di compiere un atto di disposizione di un diritto alla sola capacità di agire, riconducendo le ipotesi eccezionali, piuttosto, a fattispecie negoziali-dispositive formate da due negozi (quello autorizzativo e quello autorizzato) funzionalmente collegati o riconducendole ad un'espressa autorizzazione legislativa che consente al non titolare di alienare il bene altrui[26]. La carenza del potere di disposizione in capo al soggetto che pone in esser un negozio - sia esso di natura reale, sia esso di natura obbligatoria- è riconducibile alla carenza di legittimazione sostanziale all’esercizio del diritto da parte del soggetto che non ne sia il titolare. Di fatto, parafrasando, la terminologia di un noto giurista[27] un negozio giuridico si compie sempre per imprimere a dati interessi privati una “destinazione e una regola impegnativa”. Ma, intanto, si ha tale potere in quanto si tratti di interessi propri del soggetto che li pone in essere e ne abbia la competenza[28] ad ottenere o a risentire gli effetti giuridici del regolamento d'interessi avuto di mira[29] . Ciò nonostante le norme degli articoli 771 c.c e 769 c.c. - nei termini sopra riportati - sono alla base dell’accesa diatriba dottrinale e giurisprudenziale circa la validità della donazione di una cosa altrui. Le posizioni dottrinarie si articolano su due fronti tematici contrapposti, l’uno negativo e l’altro positivo. La tesi che nega validità alla donazione di cosa altrui si basa sul tenore letterale dell’art. 771 e dell’art. 769 c.c., sul concetto di bene futuro, - da intendere sia in senso oggettivo (non esistente in rerum natura) sia in senso soggettivo (bene non facente parte del patrimonio del donante) -  e, infine, sul fondamento del divieto di donazione di beni futuri[30] [31]. Il convergere di questi estremi genera la mancanza di legittimazione ed il negozio è inefficace, se creato su questi presupposti. La ragione è che il non legittimato ricade in una posizione di estraneità rispetto agli interessi che si tratta di regolare. L'irrilevanza nei rapporti esterni si sostanzia, di conseguenza, in un'inefficacia nei rapporti interni, dato che tale disposizione eseguita da una parte non gli consente di rendere l'altra parte proprietario del bene. La tesi contrapposta (teoria positiva) afferma la validità alla donazione di cosa altrui. E’ sostenuta da una parte minoritaria della dottrina[32] ed da un’isolata sentenza di legittimità[33]. La tesi positiva ritiene valida la donazione di cosa altrui. Gli argomenti prendono le mosse dal medesimo art. 769 c.c., nella parte in cui prevede la donazione mediante assunzione di un'obbligazione. Il concetto di bene futuro verrebbe inteso solo in senso oggettivo e non anche soggettivo. Inoltre, resterebbe attuabile la donazione di cosa altrui in ragione del dettato normativo dell’art. 771 c.c.. La norma, per la tesi affermativa, ha carattere eccezionale e comporta un divieto di donazione di cosa futura, che si pone come un limite all'autonomia privata. In quanto norma eccezionale, l'art. 771 c.c. non sarebbe suscettibile di applicazione analogica[34] [35].

La questione della ammissibilità o meno della donazione di cosa futura è anche oggetto di un fitto numero di pronunce giurisprudenziali. La Corte di Cassazione ha dimostrato, nel tempo, di assecondare due contrastanti indirizzi. Secondo un primo orientamento, la donazione di un bene non esistente nel patrimonio del disponente sarebbe affetta da nullità, poiché non è in grado di generare alcun obbligo traslativo o obbligatorio in forza del divieto sancito dall’art. 771 c.c.. Dal divieto di donare beni futuri deriva che è invalida anche la donazione nella parte in cui ha per oggetto una cosa altrui[36]. Secondo un altro orientamento[37], la donazione traslativa di beni che le parti considerano di proprietà del donante, ma che, in realtà, appartengono a terzi, non è nulla, ma semplicemente qualificabile in termini di inefficacia[38]. Il motivo risiederebbe nel testo letterale dell'art. 771 c.c., così come nella natura eccezionale della norma. In tema della vexata quaestio è intervenuta l’innovativa sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 15 marzo 2016 n. 5068[39] la quale, superando la tradizionale esigenza di “coniugare al futuro” “l'altruità del bene donato”, ha negato che la mancanza di una specifica disciplina per la donazione di cosa altrui, debba necessariamente condurre all'applicazione dell'art. 771 c.c., in quanto la quaestio della sua validità sembrerebbe trovare risposta nella stessa definizione di cui all'art. 769 c.c. che espressamente impone al donante di disporre di un «suo diritto».  La Corte coglie e completa uno spunto che era già in nuce, rinvenibile in una precedente pronuncia (Cassazione civile, sez. II, 05/05/2009, n. 10356 [40]) sottolineando la regola dell'attualità dello spoglio, tratto caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, che porta con sé ed implica il requisito dell'appartenenza del diritto al patrimonio del donante al momento del contratto, ossia l'arricchimento realizzato mediante disposizione di un “suo diritto”.  La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ritiene, infatti, che debba darsi risposta alla questione nel senso che la donazione di cosa altrui (o anche solo parzialmente altrui) è nulla non per l’applicazione in via analogica della nullità prevista dall’art. 771 c.c. - per la donazione di beni futuri- ma per difetto della causa del negozio di donazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 769, 1325 e 1418 comma 2 c.c.. In altri termini, a giudizio della Cassazione, il legislatore, nel delineare la struttura tipica del contratto di donazione imponendo espressamente al donante di disporre di un suo diritto, avrebbe sciolto anche il nodo connesso al presunto divieto di donare beni altrui, escludendo così la necessità di riferirsi in via analogica ad altre norme. La donazione di cosa altrui, quindi, soffrirebbe di una nullità strutturale e non della diversa nullità per contrarietà a norma imperativa di cui all'art. 771 c.c.[41] . La Suprema Corte di legittimità ha considerato, quale elemento integrativo della causa donandi, quello che in realtà è elemento espressivo di un principio generale che anima l'intero microsistema-donazione: l'attualità dello spoglio che prevede la necessaria suitas del bene oggetto di donazione dispositiva. Le sezioni Unite esprimono un chiaro principio di diritto affermando che la donazione di un bene altrui, benchè non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Volendo esemplificare, ne conseguirà che la donazione, da parte di un coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi ritenere, prima della divisione, che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante.

3. La recente ordinanza della Cassazione civile, sez. II, 31 agosto 2018, n. 21503. I rapporti tra donazione e comunione legale dei coniugi.

Le tematiche sin ora trattate palesano la loro complessità ed il loro valore solutorio nelle questioni che coinvolgono l’operatività della donazione laddove si applichi unitamente ad altri istituti giuridici, quali la comunione legale tra i coniugi e l’azione di riduzione testamentaria di cui si è interessata la Suprema Corte di Cassazione in ordinanza 31 agosto 2018, n. 21503, qui in commento. La Corte Suprema analizza un caso di donazione sotto il profilo della validità o meno della donazione di un bene ricadente in regime di comunione legale dei coniugi allorquando la donazione venga effettuata solo da parte di uno dei due. L’esame della Corte interviene in ad una questione di apertura di una successione ereditaria ove veniva richiesto, in atti, dalla parte ricorrente la declaratoria di nullità delle donazioni eseguite dal de cuius (padre della ricorrente) che lasciava superstiti l’altro coniuge e tre figli. Il de cuius, durante la vita, aveva donato ad un altro figlio dei beni che erano in comunione legale con la moglie e senza il consenso di quest'ultima. Le donazioni erano state eseguite sia in forma diretta di unità immobiliari, sia in forma indiretta mediante numerose elargizioni in denaro al fine di permettergli l'acquisto di terreni. La lagnanza della parte ricorrente consisteva nel fatto che il valore complessivo delle donazioni effettuate eccedeva l'ammontare della disponibile e, pertanto, ledeva i diritti degli altri legittimari. Ciò di cui si lamentava la parte ricorrente era la violazione degli artt. 769, 177, 788 c.c.. La donazione – stando alla difesa della parte ricorrente- sarebbe stata affetta da nullità, in ogni caso, in quanto la sola ragione per la quale era stata compiuta consisteva nella intenzione del donante di privare la figlia ed il coniuge dei diritti che erano stati loro precedentemente attribuiti per testamento, ed al fine di attuare un arricchimento esclusivo del donatario. La questione della nullità della donazione era stata dedotta dalla ricorrente in sede di merito, senza avere ricevuto alcuna considerazione nè dal Tribunale di Trani (in I° grado di giudizio)  nè dalla Corte d'Appello di Bari (in sede di gravame). La contestuale richiesta di esame riguardava, inoltre, la declaratoria di nullità delle donazioni effettuate in vita dal de cuius in favore di uno solo degli eredi lesiva della relativa quota di legittima degli eredi pretermessi con la conseguenziale domanda di reintegra della quota in questione, oltre alla condanna del convenuto alla restituzione dei frutti dei beni donati e goduti in maniera esclusiva, e con la successiva divisione della massa ereditaria.

Quanto alla prima questione la Cassazione, sottolinea come, in caso di comunione dei beni, non si possa parlare di nullità per donazione di cosa altrui in caso di trasferimento effettuato solo da uno dei due coniugi perché per detta fattispecie (atti compiuti dal coniuge senza il consenso dell’altro coniuge) la specifica norma dell’art.184 c.c. prevede la possibilità da parte del coniuge non firmatario - se lo ritiene- di annullare l’atto, agendo entro un anno dal suo compimento. Ipotesi non avvenuta nel caso concreto. Il profilo della nullità derivante dal compimento di un atto dispositivo di beni ricadenti in comunione legale viene esaminato richiamando la pronuncia del precedente delle Sezioni Unite del 2016 n.5806 secondo cui “…la donazione di cosa altrui o parzialmente altrui, sebbene non espressamente vietata, è nulla per difetto di causa, sicchè la donazione del coerede avente ad oggetto la quota di un bene indiviso compreso nella massa ereditaria è nulla, atteso che, prima della divisione, quello specifico bene non fa parte del patrimonio del coerede donante (con la sola eccezione dell'ipotesi in cui nell'atto di donazione sia affermato che il donante è consapevole dell'altruità della cosa, in quanto in tal caso la donazione vale come donazione obbligatoria di dare) sia insuscettibile di trovare applicazione all'ipotesi di donazione da parte di un solo coniuge comproprietario del bene in regime di comunione legale…”. La motivazione della pronuncia n. 21503 del 2018 in parte si avvale della predetta sentenza ed, in parte, del richiamo della previsione contenuta all’articolo 184 c.c. che per il suo carattere di specialità sarebbe in grado di prevalere sulla soluzione di carattere generale delineata dal citato precedente delle Sezioni Unite. Il criterio utilizzato dalla Corte nell’ordinanza in commento si riaggancia direttamente alla norma contenuta all’articolo  184 c.c.. Essa disciplina gli atti compiuti dal coniuge senza il consenso dell'altro ovvero in assenza di sua convalida. La dizione normativa applicabile a tutti gli atti dispositivi (tra cui rientra anche la donazione), aventi ad oggetto beni immobili, rende, così, annullabile nel termine di cui all'art. 184 c.c., comma 2. gli atti posti in essere da uno solo dei coniugi senza il consenso dell’altro. Il decorso del termine comporta l’effetto della decadenza dalla relativa azione. La trasmissibilità dell’azione agli eredi resterebbe soggetta al termine annuale per il suo esercizio, in ragione del fatto che la legittimazione all'azione matura in capo agli eredi del coniuge non disponente dalla data dello scioglimento della comunione legale, coincidente con la morte del donante. Altro argomento utilizzato dalla Corte per escludere la nullità della donazione di cosa altrui risiede nella natura della comunione dei coniugi definita da altra Cassazione come una comunione senza quote[42]. La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria è, appunto, una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dall’art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’art.184 c.c..

3.1 I rapporti tra donazione e l’azione di riduzione dei legittimari.

Proseguendo l’esame dell’ordinanza in commento, la Corte appresta opportune argomentazioni in diritto in relazione al secondo aspetto posto al suo vaglio, attenente alla validità o meno di una donazione effettuata con l’effetto di favorire un erede, ledendo i diritti di altro legittimario. L’esame della Corte si sofferma, preliminarmente, sul un altro profilo specifico della donazione, ossia quello di averla posta in essere con l'unico intento del donante di avvantaggiare il donatario, determinando un assetto patrimoniale idoneo a pregiudicare le “aspettative” successorie degli altri legittimari. La Corte utilizza uno specifico argomento per introdurre il secondo dei due quesiti deferitigli: non è configurabile alcuna ipotesi di nullità per la sola presenza nel donante dell'intento di avvantaggiare uno solo dei suoi eredi a discapito degli altri, ai quali il legislatore ha accordato lo strumento dell'azione di riduzione che è oggetto, invece, del secondo motivo di ricorso all’ esame della Corte.    Ed, infatti, è stato reiteratamente affermato che (cfr. Cass. n. 9424/2003; Cass. n. 5323/2002) “…l'atto di liberalità, ancorchè posto in essere dal de cuius all'evidente fine di favorire un estraneo ovvero uno solo dei suoi successibili (che rivesta anche a sua volta la qualità di legittimario) è esclusivamente suscettibile di aggressione con l'esercizio dell'azione di riduzione, dovendo escludersi che lo stesso sia affetto da un vizio di nullità, posto che la tutela dei legittimari, ancorchè rispondente a principi di ordine pubblico interno, è stata conformata dal legislatore con il riconoscimento in favore del legittimario leso o pretermesso dell'azione di riduzione, il cui accoglimento rende l'atto pregiudizievole soltanto inefficace "ex nunc", e nei soli confronti del legittimario vittorioso. …[43]. Per questo secondo aspetto la Cassazione ribadisce come la sola volontà di ledere i diritti di un legittimario con una donazione, non sia in grado di determinare la nullità strutturale della donazione in quanto, a tutela dello stesso, esiste una specifica azione: l’azione di riduzione. La pronuncia chiarisce che una corretta applicazione della tradizionale giurisprudenza, (cfr. da ultimo Cass. n. 20830/2016) richiede che il legittimario che propone l'azione di riduzione ha l'onere di indicare entro quali limiti è stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, ha l'onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva oltre che proporre, sia pure senza l'uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal "de cuius" (cfr. Cass. n. 1357/2017; Cass. n. 14473/2011; Cass. n. 13310/2002). La Corte di Cassazione soffermandosi sull’azione di riduzione affronta due argomenti di particolare rilevanza nell’ambito della pianificazione patrimoniale e della gestione dei riassetti familiari di ricchezza: il contenuto dell’azione di riduzione del legittimario pretermesso ed il rapporto tra atti di donazione e tutela dei legittimari. In relazione al primo, come detto, la Corte esclude che l’atto di liberalità in favore di un successibile (anche se legittimario) possa essere considerato nullo sulla base della volontà del donante di pregiudicare i diritti successori dei legittimari. Ma a ben guardare, seguendo il ragionamento della Corte, si può accedere ad altre conclusioni che riguardano l’altro argomento. La specifica azione di riduzione proprio perché è, per l’appunto, finalizzata allo scopo suddetto non soltanto riconoscerebbe in favore del legittimario leso o pretermesso[44] il diritto di agire per tutelare la propria posizione, ma assolverebbe alla intrinseca funzione di attribuire definitiva stabilità all’atto compiuto dal de cuius  qualora il legittimario non agisse in riduzione. Pertanto, l’intenzione del donante (e l’effettiva trasmissione patrimoniale) di avvantaggiare un solo erede non presenterebbe alcuna prospettiva di illeceità. Le conclusioni cui giunge la Corte sulla libertà di donare e disporre per testamento, e sugli oneri processuali a carico del legittimario che agisca in riduzione, valgono per ogni attribuzione di natura liberale dei disponenti che compiono atti di liberalità anche se compiuta in forma indiretta[45] mediante trasferimenti di danaro, di proprietà o di altro diritto reale su beni, anche in trust o in attuazione di contratti di affidamento fiduciario.

4. Osservazioni conclusive.

La complessità degli argomenti toccati dalla recente ordinanza della Cassazione civile, sez. II, 31 agosto 2018, n. 21503 ha richiesto un attento esame del profilo normativo delle donazioni e delle evoluzioni giurisprudenziali in materia. Attraverso l’analisi dei percorsi teorici della dottrina si è potuto meglio apprezzare la soluzione fornita dalla Suprema Corte in merito al punto nodale sottoposto al suo vaglio, ovvero la validità della donazione eseguita da uno solo dei coniugi in regime di comunione legale. A ben guardare il ragionamento della Corte riesce ad imbastire una corretta commistione tra la teoria e le norme. Di fatto, il problema che si pone è una analisi critica consistente nell’escludere - nella donazione di un soggetto coniugato ed in regime di comunione - l'assenza dell'attualità dello spoglio intesa come trasmissione di un bene proprio ed esistente. In base alle coordinate ermeneutiche fornite dalla dottrina, la donazione eseguita da un soggetto parzialmente titolare di bene dovrebbe essere - quale donazione di cosa altrui - inefficace per carenza della legittimazione a disporne e, al contempo, nulla per difetto di causa la cui assenza rileverebbe ai fini dell’invalidità della disposizione, perché mancherebbe la funzione ad essa attribuita dal legislatore, che è «funzione traslativa immediata». Per risolvere il problema non sarebbe, certamente, utilizzabile per la donazione (a differenza della vendita) «funzione traslativa differibile» come potrebbe essere sostenuto utilizzando una minoritaria dottrina[46].La definizione della comunione legale dei coniugi quale comunione senza quote, così come qualificato dalla giurisprudenza[47] risolve un secondo aspetto critico strettamente connesso al primo ed attiene alla legittimazione del soggetto disponente di porre in essere una donazione efficace, oltre che valida. Per percepire ciò, basta riflettere sulla stessa natura della comunione legale dei beni tra i coniugi. Questa, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dall’art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione e la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato, si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’art.184 c.c.  decorrenti dalla conoscenza dell’atto o dalla trascrizione. In sintesi, in merito alla questione della donazione di cosa altrui o parzialmente altrui, la Corte pur contemplando quanto già espresso in precedenza dalle Sezioni Unite del 2016, nell’ordinanza n. 21503 del 2018 non applica il principio affermato dalle stesse. Le sezioni Unite (n. 5068/2016) affermano la nullità (per mancanza di causa) della donazione di un bene che non sia di proprietà del donante e, di conseguenza, la nullità della donazione effettuata dal comproprietario avente come oggetto la quota indivisa di uno dei beni che facciano parte di un patrimonio in comunione. Differentemente nell’ordinanza n. 21503 del 2018, la Corte sottolinea come, in caso di comunione dei beni tra coniugi, non si possa parlare di nullità per donazione di cosa altrui per il trasferimento effettuato solo da uno dei due coniugi. Ciò avviene per effetto dell' art.184 c.c. che rende la donazione impugnabile nel termine di un anno  quando venga effettuata da uno solo dei coniugi, senza il consenso dell'altro. Su questa scia e sulla scorta della pronuncia n. 21503 del 2018 si può parlare “nel caso di specie” di annullabilità e non di nullità, ma riguardo ad altre casistiche l’ordinanza non sembra riferire principi di diritto rilevanti. In conclusione, a sommesso parere di chi scrive, la disapplicazione del principio affermato dalle sezioni Unite del 2016 appare come il risultato diretto della cogenza applicativa dell’articolo 184 del C.c. ad una fattispecie specifica e non l’elaborazione di un principio di diritto autonomo rispetto alla pronuncia nomofilattica del 2016. Al tempo stesso non si esclude che la pronuncia in commento possa essere foriera di futuri sviluppi giurisprudenziali.

Note al testo e bibliografia

[1] La norma nella sua ratio sostanziale è rivolta a favorire gli scambi  giuridici non esigendo, di regola, che il bene sia già in esistenza nel patrimonio del soggetto  perchè la stipula sia valida. Il dispositivo dell'art. 1348 Codice civile recita: “La prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge”. Dalla norma si deduce che se un contratto ha ad oggetto un bene futuro esso assume efficacia obbligatoria, ossia  obbliga l'alienante a far conseguire all'avente causa la proprietà del bene.
[2] È il contratto con il quale una parte (donante), per spirito di liberalità, arricchisce l'altra (donatario) disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un'obbligazione (art. 796 del c.c.).
[3] Art. 159 c.c.:  L'articolo è stato così introdotto dall'art. 41 della L. 19 maggio 1975 n. 151. Si vedano inoltre gli artt. 8, 9 e 9bis della L. 1 dicembre 1970, n. 898 e l'art. 2 della L. 10 aprile 1981, n. 142. La comunione dei beni, regime base per i rapporti patrimoniali, prevede una comunione di acquisto, attribuendo così ai coniugi la contitolarità dei beni e dei diritti derivanti, e quanto verrà analiticamente descritto all'art. 177 del c.c.. Per tale regime (che dal 1975 sostituisce quello della separazione dei beni) non vi è alcuna necessità di pubblicità legale.
[4] La distinzione tra gratuità e liberalità è dibattuta ampiamente in dottrina, ma oggi viene ribadita con forza sempre maggiore dal giudice di legittimità (Cass., sez. I, 5.12.1998, n. 12325 e, più di recente, Cass., sez. I, 4.11.2015, n. 22567).
[5] La giurisprudenza romana era solita contrapporre la nozione di liberalitas a quella di necessitas. Su questa base distintiva, gli attuali interpreti della norma sono favorevoli ad accogliere una definizione di liberalità intesa come  “spirito di liberalità”. In quest’ottica l’attenzione è incentrata sulla consapevolezza in capo al donante di realizzare una attribuzione patrimoniale senza esservi obbligato, con contestuale un vantaggio patrimoniale a favore di un soggetto senza pretesa di corrispettivo da parte del donante che di fatto si impoverisce. Una corretta individuazione giuridica liberalità risulterebbe da un’indagine preliminare anche sugli interessi concretamente perseguiti e condivisi dalle parti, in quanto assume un ruolo rilevante, nella identificazione della causa del negozio, la gratuità con cui il disponente attua tale interesse non patrimoniale: infatti solo laddove il disponente è portatore di un interesse non patrimoniale (si intende senza nemmeno ricevere vantaggi economici indiretti) e il beneficiario ottiene vantaggi economici in termini di arricchimento, come l’attribuzione di diritti reali o personali, si può parlare di inquadramento nelle gratuità o liberalità (diretta o indiretta). Il concetto di liberalità è reso dalla Cassazione a Sezioni Unite Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538 in Foro it. 2010, I, 2460 ss, con nota si F. S. COSTANTINO, Adempimento di un debito altrui, fallimento del solvens e revocatoria al vaglio delle sezioni unite (con chiose su «causa concreta» e vantaggi compensativi nelle operazioni di gruppo); in Giur. It., 2010, 2080 ss., con nota di SPIOTTA, La «causa concreta» del pagamento da parte del fallito di un debito altrui; in Contr., 2010, 1000 ss., con nota di Di BIASE, La rilevanza della «causa concreta» nella revocatoria fallimentare del pagamento del debito altrui; in Nuova giur. comm., 2010, I, 748 ss., con nota di GIULIANO, Adempimento di un debito altrui: la causa concreta quale criterio di individuazione della gratuità od onerosità dell’atto. Secondo quanto afferma la Cassazione, la qualificazione di un atto deve avvenire con riferimento a quella che si dimostra essere la causa concreta, ossia la motivazione effettiva che a monte spinge un soggetto a porre in essere un negozio, e tale motivazione deve necessariamente passare attraverso la valutazione della sintesi degli interessi che il soggetto è concretamente diretto a realizzare, al di là della forma o del modello adottato e non può fondarsi esclusivamente sulla base dell’esistenza di un rapporto sinallagmatico o corrispettivo tra le prestazioni, ma deve essere valutato necessariamente alla luce dell’interesse che effettivamente sottende all’intera operazione, valutando pertanto entità dell’attribuzione, durata del rapporto, qualità dei soggetti coinvolti, prospettiva di un possibile depauperamento del proprio patrimonio ma collegato alla possibilità che lo stesso solvens possa indirettamente guadagnarci anche in termini di risparmio di spesa, di fatto si dimostra una valutazione che considera l’equità delle prestazioni. Già nel 2006 la Cassazione si era espressa in merito vedasi a proposito Cass., 8 maggio 2006 n. 10490, in Riv. Notariato, 2007, 180. Sul punto vedasi anche PALAZZO, SASSI, Trattato della successione e dei negozi successori – negozi successori anticipatori, UTET Giuridica 2012 p. 6.
[6] La distinzione tra gratuità e liberalità è dibattuta ampiamente in dottrina, ma oggi viene ribadita con forza sempre maggiore dal giudice di legittimità (Cass., sez. I, 5.12.1998, n. 12325 e, più di recente, Cass., sez. I, 4.11.2015, n. 22567).
[7] L. GATT, La liberalità – I, Torino, 2002, 33; G. CAPOZZI, Successioni e Donazioni, 2° ed., Napoli, 2003, 784 ss.; G. OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, 77; A. TORRENTE, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, 1956; G. BALBI, Liberalità e Donazione, in Riv. Dir. Comm., 1948, I, 157 ss., invece, propone una diversa classificazione, tralasciando la categoria del negozio gratuito, e ritiene che il rapporto esistente tra liberalità e donazione è di genus a species. Tale considerazione è stata poi successivamente elaborata e pertanto sarebbe sostenibile che il rapporto tra categorie differenti si instauri, innanzitutto, tra gli atti gratuiti e le liberalità dove è evidente l’intrinseco legame. Invece il rapporto tra la donazione e le liberalità, più che essere di genus a species, andrebbe considerato nel senso che la donazione rappresenta un’applicazione della liberalità o, più esattamente, un modo di essere della liberalità, senza che possano essere considerate due categorie distinte. In altre parole, come si dirà in seguito, la donazione è la liberalità tipica, il prototipo.
[8] Nelle sue forme tipiche e atipiche, la donazione esaurisce tutti i negozi di liberalità tra vivi (per un approfondimento di queste nozioni si rinvia a Conte, G., Il contratto di donazione tra liberalità e gratuità, in Tratt. Bonilini, VI, Milano, 2009, 3 ss.).
[9]  Nella concezione romanistica la nozione di liberalitas si è sempre contrapposta a quella di necessitas. Si veda per approfondimenti : S. Riccobono, La l. I. C. de donat., VII, 53 e La forma delle donazioni a personae exceptae, in Mélanges Girard, Parigi 1912; F. Pringsheim, Animus donandi, in Zeitschr. Sav.-St. f. Rechtsgesch. (röm. Abt.), XXXXII (1921), p. 273 segg.; P. Bonfante, Le donazioni tra coniugi, in Corso di diritto romano, Diritto di famiglia, Roma 1925, p. 207 segg.; F. Dumont, Les donations entre époux en droit romain, Parigi 1928; H. Siber, Confirmatio donationis, in Zeitschr. Sav.-St. f. Rechtsgesch., LIII (1933), p. 99 segg.; L. Aru, Le donazioni tra coniugi in diritto romano, Padova 1937, ecc. Arrangio Ruiz - Famiglia e successioni - Istituzioni di diritto romano. International University College of Turin.
[10] Cosi si esprime la suprema Corte di Cassazione a Sezioni 18 marzo 2010, n. 6538 in Foro it. 2010, I, 2460 ss, con nota si F. S. COSTANTINO, Adempimento di un debito altrui, fallimento del solvens e revocatoria al vaglio delle sezioni Unite (con chiose su «causa concreta» e vantaggi compensativi nelle operazioni di gruppo); in Giur. It., 2010, 2080 ss., con nota di SPIOTTA, La «causa concreta» del pagamento da parte del fallito di un debito altrui; in Contr., 2010, 1000 ss., con nota di Di BIASE, La rilevanza della «causa concreta» nella revocatoria fallimentare del pagamento del debito altrui; in Nuova giur. comm., 2010, I, 748 ss., con nota di GIULIANO, Adempimento di un debito altrui: la causa concreta quale criterio di individuazione della gratuità od onerosità dell’atto. Secondo quanto afferma la Cassazione, la qualificazione di un atto deve avvenire con riferimento a quella che si dimostra essere la causa concreta, ossia la motivazione effettiva che a monte spinge un soggetto a porre in essere un negozio, e tale motivazione deve necessariamente passare attraverso la valutazione della sintesi degli interessi che il soggetto è concretamente diretto a realizzare, al di là della forma o del modello adottato e non può fondarsi esclusivamente sulla base dell’esistenza di un rapporto sinallagmatico o corrispettivo tra le prestazioni, ma deve essere valutato necessariamente alla luce dell’interesse che effettivamente sottende all’intera operazione, valutando pertanto entità dell’attribuzione, durata del rapporto, qualità dei soggetti coinvolti, prospettiva di un possibile depauperamento del proprio patrimonio ma collegato alla possibilità che lo stesso solvens possa indirettamente guadagnarci anche in termini di risparmio di spesa, di fatto si dimostra una valutazione che considera l’equità delle prestazioni. Già nel 2006 la Cassazione si era espressa in merito vedasi a proposito Cass., 8 maggio 2006 n. 10490, in Riv. Notariato, 2007, 180. Sul punto vedasi anche PALAZZO, SASSI, Trattato della successione e dei negozi successori – negozi successori anticipatori, UTET Giuridica 2012 p. 6;
[11] Lo schema negoziale a carattere oneroso può essere attuato mediante contratti o atti a carattere oneroso (es. vendita, etc ) oppure con schemi negoziali a titolo gratuito dove  l’onerosità si realizza indirettamente (es. comodato d’uso) oppure, ancora,  quando entrambe le parti siano  di interessi non patrimoniali, quindi non è possibile parlare di negozi contrattuali ma si parlerà piuttosto di “rapporto di cortesia”  ma non di liberalità.
[12] PALAZZO, SASSI, Trattato della successione e dei negozi successori – negozi successori anticipatori, UTET Giuridica 2012;
[13] BONILINI, Trattato di diritto delle successioni e donazioni, IV Le donazioni, Giuffrè Editore 2009 p.5.
2 PALAZZO, SASSI, Trattato della successione e dei negozi successori – negozi successori anticipatori, UTET Giuridica 2012; CAPOZZI, Successioni e donazioni, Tomo II, Giuffrè Editore 2009 p. 1522.
[14] Art 769 c.c.  “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.
[15] Alcuni autori, sostengono che si tratta di una norma che non va a definire il concetto di donazione ma ne delimita esclusivamente il campo di applicazione, precisando un significato già insito nel termine lessicale di donazione , in quanto utilizzata anche al di fuori del linguaggio strettamente giuridico. Si veda in tal senso, BELVEDERE, Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano, 1977, 63.
[16] I caratteri della donazione possono così essere riassunti : a ) è un contratto tipico ; b) è un contratto consensuale , è un contratto normalmente traslativo; è un contratto formale ; è un contratto unilaterale .L’articolo 769 del codice civile vigente si pone diversamente rispetto al  codice del 1865, art. 1050 in quale prevedeva che : “La donazione è un atto di spontanea liberalità, con il quale il donante si spoglia attualmente e irrevocabilmente della cosa donata in favore del donatario”), rappresentando la modalità tipica di liberalità (così nella Relazione al Re del Ministro Guardasigilli sul codice civile vigente, nr. 164), dovremmo collocare queste fattispecie tra le liberalità atipiche  (nel senso di liberalità non donative). Quali manifestazioni dell’autonomia dei privati, queste ultime trovano perfino un riconoscimento generale all’art. 805 c.c.: “Le liberalità, anche se risultano da atti diversi da quelli previsti dall’articolo 769, sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari”. Ma guardandosi al diritto romano deve ricordarsi che esse a lungo hanno esaurito l’intero ambito della donazione, “essendo ignota la configurazione della donazione come negozio tipico di liberalità, questa poteva attuarsi mediante il compimento di un atto qualsiasi di carattere patrimoniale, il quale, qualora importasse liberalità e fosse compiuto animo donandi, era soggetto alla disciplina delle donazioni. Ma quando, ad incominciare da Costantino, le donazioni si assoggettano ad una particolare ed unica forma, la quale non risulta applicabile o non si ritiene applicabile a tutti gli atti di liberalità, si delinea la separazione tra la donazione, concepita come negozio tipico di liberalità ed altri atti di liberalità, che continuano a sussistere come validi perché nulla presentano di illecito, posto che la legge non intende inquadrare nel negozio tipico di liberalità ogni atto di liberalità”: così B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano sotto la direzione di Filippo Vassalli XII 4 (Torino 1961) 893 s. Può richiamarsi in proposito la nota statuizione di Costantino, riportata in: CTh. 8.12.1 pr. [= Brev. 8.5.1 pr.] (Imp. Constantinus A. ad Maximum pf. urbi).  Su queste testimonianze, di recente, S. DI SALVO, Note sulla donazione tra Costantino e Giustiniano, in KOINONIA 35 (2011) 227 ss.
[17] Come è stato osservato da una parte della dottrina, la dichiarazione del donatario non è mera adesione ad un acquisto ma è una dichiarazione di volontà non diversa dall’accettazione che si ha in qualunque altro contratto B. BIONDI, Le donazioni, cit., 582 s.; G. CAPOZZI, Successioni e Donazioni, cit.
[18] La donazione si caratterizza per l’accrescimento del patrimonio del ricevente a fronte del quale si produce un depauperamento nel patrimonio del disponente. È stato, infatti, affermato, da una parte della dottrina, che la donazione sarebbe solo quella attribuzione patrimoniale per la quale, ad un tempo, il donante si adopera al fine di produrre una diminuzione spontanea del suo patrimonio che però corrisponda ad un equivalente incremento del patrimonio del donatario. È stato, infatti, affermato, da una parte della dottrina, che la donazione sarebbe solo quella attribuzione patrimoniale per la quale, ad un tempo, il donante si adopera al fine di produrre una diminuzione spontanea del suo patrimonio che però corrisponda ad un equivalente incremento del patrimonio del donatario si veda A.C. JEMOLO, Lo spirito di liberalità, in Studi in memoria di Vassalli, II, Torino, 1960, 973 ss.
[19] Cfr. Cassazione 2000/6994 e cassazione 2000/1085.
[20] È ricorrente l’equivoco di identificare lo spirito di liberalità con l’animus donandi, in tal senso B. BIONDI, Le donazioni, cit. 83 s.. Quest’ultimo, anche se spesso ritenuto un sinonimo di spirito di liberalità, trova in realtà origine nel diritto romano classico e rappresentava l’elemento soggettivo della donazione, cui doveva fare riscontro l’elemento oggettivo della gratuità. In sostanza rappresentava la giustificazione causale della attribuzione gratuita. Nel corso dei secoli l’animus donandi ha avuto una notevole evoluzione concettuale tanto che secondo la dottrina prevalente la dizione codicistica dell’articolo 1050 del codice abrogato in virtù del quale la donazione è “l’atto di spontanea liberalità”, il riferimento alla spontanea liberalità sarebbe ancora l’elemento soggettivo della donazione. Elemento che si tradurrebbe nel c.d. animus donandi. Secondo la dottrina citata lo spirito di (spontanea) liberalità sarebbe la coscienza e l’effettiva volontà di porre in essere una donazione da parte del donante, SCUTO, Le Donazioni, Catania, 1928, 141 s.. Secondo una diversa impostazione, anche se non realmente difforme dalla precedente, l’animus donandi rappresenterebbe la coscienza da parte del disponente di impoverire se stesso e di arricchire il patrimonio altrui, N. COVIELLO, Donazione, Siracusa, 1927, 52 s.. Alcuni autori, dilungandosi sull’aspetto soggettivo delle attribuzioni gratuite, hanno affermato che l’animus donandi sarebbe un aspetto non autonomo della gratuità oggettiva. In sostanza secondo siffatta impostazione, ogni qualvolta un soggetto disponesse gratuitamente a favore di un terzo, in mancanza di una causa effettiva e specifica, quell’atto sarebbe caratterizzato dall’elemento soggettivo dell’animus donandi. Sembra ragionevole concordare con diversa dottrina, la quale ritiene che l’animus donandi sia un elemento assolutamente separato ed indipendente dalla gratuità. Ciò implica che anche la gratuità oggettiva potrebbe essere indipendente dall’animus donandi. In argomento si rinviene, ad esempio, il caso dell’adempimento della obbligazione prescritta o derivante da titolo annullato. In tali casi, pur trattandosi di un atto gratuito oggettivo, non necessariamente ricorre l’animus donandi, ASCOLI, Trattato delle Donazioni, Firenze, 1935, 72 s.. Sulla scorta dell’articolo 1050 del codice civile del 1865, alcuni studiosi hanno sostenuto che l’espressione “atto di spontanea liberalità” potesse giustificare l’idea di una identificazione tra animus donandi e spirito di liberalità, SCUTO, Le Donazioni, cit., 141 s. In realtà il termine “spontaneo” non sembra aver mai avuto un autonomo significato e mal si conciliava con l’intera struttura normativa della donazione. Conferma ne viene dalla sua abrogazione con il codice civile del 1942. Invece, a parte l’identificazione dei termini della questione (animus donandi e spirito di liberalità), che con la scomparsa del termine spontanea ha perso gran parte della sua giustificazione in termini letterali, è opportuno sottolineare che, già sotto il vigore dell’abrogato codice, una parte della dottrina non condivideva in pieno l’idea di un animus donandi inteso quale requisito soggettivo della donazione V. MAROI, Delle Donazioni, Torino, 1936, 34 s.. Più precisamente, secondo siffatta impostazione, l’animus donandi non sarebbe stato requisito necessario delle donazioni. In altre parole, sarebbe donazione qualunque disposizione a titolo gratuito in quanto non può essere fatta una distinzione giuridica sulla base di una intenzione. Pertanto, all’animus donandi, ovvero si ripete, la concerta volontà di porre in essere una donazione, sarebbe restato solo il ruolo di mezzo di prova della gratuità. Risultava tuttavia prevalente l’opinione opposta a quella da ultima riportata, in quanto gli autori ritenevano più rispondente al dato testuale dell’articolo 1050 codice del 1865 e logicamente più rispettoso della ratio legis, l’idea che la donazione necessitasse di un requisito soggettivo e di un requisito oggettivo. Tali requisiti erano appunto la gratuità (elemento oggettivo) e l’animus donandi (elemento soggettivo) anche se quest’ultimo presentava discordanti interpretazioni ricostruttive. Con l’entrata in vigore del codice del 1942, con i cambiamenti apportati alla definizione, si assiste al rinnovato interesse per il concetto di liberalità, senza però che si sia ancora abbandonato il richiamo all’animus donandi che ancora è identificato con lo spirito di liberalità menzionato nell’articolo 769.
[21] La giurisprudenza insiste sulla questa ricostruzione, affermando che l’animus donandi partecipa «della causa del contratto come qualificazione in senso oggettivo della gratuità» (Cass., 16.10.1976, n. 3526). Si segnala che un orientamento a contrario, pone l’accento sullo spostamento patrimoniale dal donante al donatario, e trova la causa del negozio nell’arricchimento di questo ultimo.
[22] PALAZZO, SASSI, Trattato della successione e dei negozi successori – negozi successori anticipatori, UTET Giuridica 2012 p 14.
[23] Cass. 12-11-2009 n. 23941, in Nuova giur. Comm. 2010, I, 448 ss.
[24] BONILINI, Trattato di diritto delle successioni e donazioni, IV Le donazioni, Giuffrè Editore 2009 p. 25
[25] In dottrina, però, si avverte che accogliendo la tesi dell’intenzione di donare la distinzione tra causa e motivo diventa quasi impalpabile; tanto che la causa della donazione andrebbe a sovrapporsi, sempre più spesso, con il motivo che ha spinto il donante a compiere l’atto di liberalità (Alpa, G., Atto di liberalità e motivo dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 1972, 354 ss.). In tale prospettiva, pur accordando al motivo una accezione oggettiva, vale a dire quella di circostanza esterna alla psicologia del donante, la distinzione tra motivo e causa resta difficile.
[26] L. Mengoni, Gli acquisti a non domino, Milano, 1975, p. 5.
[27] E. Betti, Istituzioni di diritto romano, 1928, p. 340 ss.
[28] Il sostantivo «competenza»  è «un termine non consueto al linguaggio del diritto privato», è utilizzato a proposito della legittimazione da P. Rescigno, voce “Legittimazione”, in Dig. disc. priv., X, Torino, 1993, p. 519.
[29] È la c.d. legittimazione, che è presupposto di efficacia del negozio giuridico e che impone una «coincidenza fra il soggetto del negozio (o il soggetto per il quale il negozio è compiuto) e il soggetto degli interessi, in particolare dei rapporti giuridici, sui quali verte il negozio», in tal senso E. Betti, Teoria del negozio giuridico, Napoli, 1994, p. 221.
[30] Questa teoria trova fondamento logico dei lavori preparatori del codice civile. Il criterio generale su cui si fonda la tesi negativa sarebbe nell'intenzione di porre un freno alla prodigalità. La medesima logica è un valido punto fondante per il divieto di donazione di cosa futura come donazione di un bene non esistente e dunque vietata. In dottrina: Maroi, Delle donazioni, ne Il codice civile. Commentario, diretto da D'Amelio, libro II, Firenze, Barbera, 1941, p. 726; Messineo, Manuale di dir. civ. e comm., vol. IV, 9º ed., Milano, Giuffrè, 1958, p. 17; Balbi, La donazione, in Tratt. dir. civ., diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, vol. II, fasc. IV, Milano, Vallardi, 1964, p. 43; non prende posizione Bonilini, L'oggetto della donazione, in Tratt. di diritto delle successioni e donazioni, vol. VI, Le donazioni, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 444-446.  In giurisprudenza: Cass. 20 dicembre 1985 n. 6544, in Giust. civ. Mass., 1985; Cass. 18 dicembre 1996 n. 11311, in Contratti, 1997, p. 460; Cass. 5 maggio 2009 n. 10356, in Riv. not., 2010, p. 124 e ss., con nota di Grossmann, La nullità della donazione dispositiva di cosa altrui; Cass. 23 maggio 2013 n. 12782.
[31] Secondo la tesi negativa, la donazione obbligatoria di cosa altrui genererebbe un'obbligazione di fare (cioè, acquistare la cosa dal terzo proprietario o procurarne comunque l'acquisto in capo al donatario). Questa obbligazione non comporta l’arricchimento per il donatario con corrispondente impoverimento del donante e quindi non conforme al dettato dell’art. 769 c.c. Verrebbe a mancare  l'attualità.( in tal senso Torrente).
[32] Biondi, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. it., fondato da Vassalli, vol. XII, tomo 4º, Torino, Utet, 1961, p. 346 e ss.; F. S. Gentile, Il possesso, 2ª ed., in Giur. sist. civ. e comm., fondata da Bigiavi, Torino, Utet, 1977, p. 258; Carrabba, Donazioni, in Tratt. dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato, a cura di P. Perlingieri, sezione IV, vol. 27, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 386 e ss.
[33] Cass. 5 febbraio 2001 n. 1596, in Riv. not., 2001, p. 862, con nota di F. M. Gazzoni, Donazione di cosa altrui ed usucapione abbreviata. La sentenza ha ritenuto inefficace e non nulla la donazione di cosa altrui. Il concetto parte dall’assunto che i beni futuri sono solo quelli non esistenti in rerum natura. Questa donazione sarebbe titolo astrattamente idoneo all'usucapione abbreviata ai sensi dell'art. 1159 c.c.
[34] Per annotazioni specifiche relative all’inquadramento dottrinario si veda Pastore D., Cassazione civile, 23 maggio 2014, n.11545, sez. II con nota Pastore D., Donazione di quota di bene ereditario e donazione di cosa altrui, in Rivista del Notariato, fasc.6, 2014, pag. 1210.
[35] Per approfondimenti sulle posizioni dottrinali si veda monografia di Celli V., La donazione di cosa altrui, in Rivista del Notariato, fasc.3, 1, Giugno 2017, pag. 451.
[36] Si confrontino in tal senso Cass. civ., 20 dicembre 1985, n. 6544; Cass. civ., 18 dicembre 1996, n. 11311, in Contratti, 1997, 460, con nota di Bonilini; e in Urb . app., 1996, 646. Ancora in tal senso Cassazione civile, sez. II, 05/05/2009, n. 10356, in Giustizia Civile Massimario, 2009, dove la Corte conferma in questa pronuncia, le conclusioni alle quali era pervenuta una precedente sentenza della Suprema Corte n. 1596/2001,  ove pure aveva argomentato in modo diverso. Essa, infatti, partiva dalla premessa dell'inefficacia anziché della nullità della donazione dispositiva di beni altrui, e, per tale strada perveniva - così consolidando l’orientamento della sentenza Cass. civ., 23 giugno 1967, n. 1532-  alla conclusione secondo la quale il negozio, quando conformato in termini di atto di alienazione, stante l'ignoranza delle parti circa l'alienità della res donata, è suscettibile di fungere da titulus adquirendi ai fini dell'usucapione abbreviata ai sensi dell'art. 1159 c.c., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un titolo idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisito del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare. Si confronti in tal senso Cass. 5 febbraio 2001 n. 1596, in Rivista del notariato 2001, 862, con nota di Gazzoni, Donazione di cosa altrui e usucapione abbreviata.  Nello stesso senso della pronuncia qui riferita si veda in dottrina, Carnevali, Le donazioni, in Trattato di dir itto priv ato, diretto da P. Rescigno, 6, t. II, Torino, 1997, II ed., 527; Bonilini, L'oggetto della donazione, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, VI, Le donazioni, Milano, 2009, 444).
[37] Le pronunce che esprimono tale indirizzo fanno leva sul fatto che, nella formulazione dell'art. 771 c.c., "il riferimento del divieto" è "ai soli beni non ancora esistenti in rerum natura", ma non manca di sottolineare l'"argomento logico costituito dal fatto che, ad altri fini, il legislatore ha considerato separatamente gli effetti di atti di disposizione di beni futuri e di beni altrui (artt. 1472 e 1478 c.c.)". Si confrontino in tal senso Cass. civ., 5 febbraio 2001, n. 1596, in Giust. civ., 2002, I, 471; e in Contratti, 2001, 760, con nota di Ferrario.
[38] A. Spatuzzi, Futurità e altruità dei beni oggetto di donazione, in Rivista del Notariato, 2015, V, p. 970, esprime una ipotesi interpretativa del tutto isolata in dottrina. L’autore parte dalla ratio sottesa all’art. 771 c.c. per escludere un’applicazione estensiva del divieto de quo così da condurre a reputare la donazione di bene altrui non quale titolo nullo, ma come un negozio ad efficacia traslativa differita, idoneo a trasferire il diritto quando e se il donante diverrà proprietario alla stregua di quanto stabilito nell’art 1478 c.c.
[39] Cass. S.U., 15 marzo 2016, n. 5068, annotata da C. Cicero, Donazione di beni altrui. Le vicissitudini giurisprudenziali della donazione di beni altrui, in Giur. it., V, 2016; U. Carnevali, La donazione di beni altrui nella sentenza delle Sezioni Unite, in Corr. giur. (il), V, 2016; L. Ballerini, La donazione (dispositiva) di bene altrui è nulla: così le Sezioni Unite, in Nuova Giur. civ. comm., VII/VIII, 2016; E. Depretis, Le Sezioni unite sull'invalidità della donazione di bene altrui, in I Contratti, X, 2016.
[40] La sentenza è reperibile in Notariato, 2009, V, p. 486, con nota di F. Magliulo, Il problema della validità della donazione di bene altrui; in Riv. Not., 2010, IV, parte II, p. 1119 ss., con nota di M. Checchi, Donazione di cosa altrui; ivi, I, parte II, p. 127 ss., con nota di M. Grossman, La nullità della donazione dispositiva di cosa altrui; in Giust. civ., XI, parte I, 2609, con nota di P. Furgiuele, La donazione di cosa altrui. Note in tema di atto dispositivo e titolo astrattamente idoneo.
[41] Si osservi quanto in testo Cass. 5068/2016, cit. alla precedente nota 39 «La donazione di bene non appartenente al donante è quindi affetta da una causa di nullità autonoma e indipendente rispetto a quella prevista dall'art. 771 c.c., ai sensi del combinato disposto dell'art. 769 c.c. (il donante deve disporre “di un suo diritto”) e dell'art. 1325 c.c., e art. 1418 c.c., comma 2».
[42] la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dall’art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’art.184 c.c..(Sez. 1, Sentenza n. 4033 del 2003; Sez. 1, Sentenza n. 4890 del 2006).  La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Nei rapporti con i terzi ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dall’art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene; ne consegue che il contratto preliminare di vendita di un immobile stipulato da un coniuge senza la partecipazione e il consenso dell’altro è efficace nei confronti della comunione legale, ma annullabile, ai sensi dell’art. 184 c.c., nel termine di un anno decorrente dalla conoscenza dell’atto o dalla data di trascrizione. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14093 del 2010).    La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione (principio affermato ai sensi dell’art. 363 c.p.c.).(Sez. 3, Sentenza n. 6575 del 2013).
[43] In senso conforme di recente, Cass. n. 23278/2013.
[44] in senso conforme di recente, Corte di Cassazione , SEZ. II Civile, 14 ottobre 2013, n.23278.
[45] Si veda di recente in tema di donazioni indirette Cassazione Sezioni Unite, 27/07/2017, n. 18 725 (relatore A. Giusti) in argomento Sartoris C., il problema della struttura e del funzionamento della donazione indiretta: la soluzione delle Sezioni Unite, in Persona e Mercato (a cura di Giuseppe Vettori), 2017.
[46] A. Spatuzzi, op. cit.
[47] Si confronti per tutte Corte di Cassazione Sez. II, Sentenza n. 14093 del 2010 infra in nota 42 con altre sentenze. In tema di legittimazione e competenza si confrontino a proposito della legittimazione da P. Rescigno, op, cit.; per la  legittimazione, E. Betti, op cit.

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