Pubbl. Lun, 13 Ago 2018
L´erosione del giudicato penale
Modifica paginaFocus sulle principali pronunce che hanno segnato la fine di un mito: il principio dell´intangibilità del giudicato tra le deroghe del diritto positivo e le ricostruzioni giurisprudenziali più significative degli ultimi anni
Sommario: 1. Inquadramento del principio di intangibilità del giudicato e sue deroghe alla luce del diritto positivo. 2. Le Sezioni Unite ‘Ercolano’ e la ricognizione di valori di rilievo costituzionale che giustificano la flessione del giudicato. 3. L’illegittimità costituzionale dell’art. 69 co. 4 c.p. e le sue ricadute sul diritto del condannato al ricalcolo della pena inflitta. Cassazione Penale SSUU sentenza (ud. 29-05-2014) 14-10-2014, n. 42858 (imp. Gatto). 4. L’illegittimità costituzionale della ‘Legge Fini-Giovanardi’ ed i suoi precipitati in merito ai giudizi definiti con pronuncia irrevocabile. Cassazione SSUU n. 33040 del 28 luglio 2015 e n. 37107 del 15 settembre 2015. 5. Mutamento della giurisprudenza delle SSUU e revoca della res iudicata. Corte Costituzionale n. 230/2012. 6. Osservazioni conclusive.
1. Inquadramento del principio di intangibilità del giudicato e sue deroghe alla luce del diritto positivo.
Uno dei principi immanenti al nostro ordinamento giuridico che ha sempre rivestito un ruolo sistemico di chiaro rilievo è quello della intangibilità del giudicato. Esso va inteso nel suo senso più profondo, quale principio che soddisfa l’esigenza di certezza del diritto nel caso concreto, imponendo alla/e parte/i in contesa un assetto di interessi che diverrà tendenzialmente immutabile, salvo cioè l’esperimento delle forme di impugnazione straordinarie previste dall’ordinamento.
È soprattutto in ambito penale che tale esigenza di cristallizzazione della posizione dell’imputato appare maggiormente avvertita, per ovvie esigenze di tipo garantista.
La prima osservazione che sembra opportuno rassegnare riguardo al principio oggetto della presente disamina è che l’idea del giudicato come intesa nell’immaginario collettivo (anche dello stesso giurista), quale statuizione del tutto incontrovertibile ed intangibile, appare invero, seppure in casi ben delimitati, messa in discussione dallo stesso ordinamento nazionale.
Il riferimento è in particolare agli artt. 2, co. 2 e 3 c.p., 30, co. 3 e 4 L 87/1953, 671 e 673 c.p.p.
Prescindendo da una disamina delle singole disposizioni, è evidente come le stesse postulino l’esistenza di un giudicato e la sussistenza di condizioni allo stesso successive che giustificano - seppure in termini e con un’ampiezza diversa - una ridefinizione dei contenuti del primo, con effetti sulla esecuzione della sanzione irrogata (in caso di abolitio criminis o declaratoria di illegittimità costituzionale ex artt. 2 co. 2 c.p., 30, co. 4 L 87/1953 e 673 c.p.p.), sulla possibile modifica della stessa (con la trasformazione della pena detentiva in pecuniaria, ex art 2 co. 3 c.p.), sulla entità del trattamento sanzionatorio dovuto ad una pluralità di precedenti condanne (con il riconoscimento della applicabilità della disciplina della continuazione, ex art. 673 c.p.p.).
2. Le Sezioni Unite ‘Ercolano’ e la ricognizione di valori di rilievo costituzionale che giustificano la flessione del giudicato.
Accanto a dette deroghe di diritto positivo al principio di intangibilità del giudicato, sempre più numerose sono quelle di matrice giurisprudenziale, che, sovente, traggono il loro fondamento nella giurisprudenza unionale, per essere poi recepite ed estese nei propri contenuti anche in quella nazionale.
Si pensi alla nota sentenza della Grande Camera della Corte Edu nel caso Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009, la quale, sebbene ebbe essenzialmente ad oggetto l’esatta esegesi dell’art. 7 della CEDU, rappresentò il prius logico che diede origine ad una approfondita riflessione afferente il principio di intangibilità del giudicato penale.
Ed invero, accanto alla posizione dello Scoppola, che beneficiò della esegesi in senso estensivo del principio di legalità -da intendersi come comprensivo anche di quello di retrazione favorevole- ci si pose presto il problema di quella platea di condannati alla pena dell’ergastolo, i quali, in assenza di ricorso alla Corte Edu, non ebbero a beneficiare del decisum della Corte di Strasburgo.
Era difatti di tutta evidenza che, nonostante l’art. 46 della CEDU imponesse allo Stato aderente condannato l’adozione di misure individuali necessarie al ripristino della situazione prevista dalla Convenzione, tale circostanza avrebbe di fatto creato una inaccettabile disparità di trattamento a danno dei soggetti non ricorrenti avverso le decisioni giudiziarie emesse in applicazione, in via retroattiva, del disposto dell’art. 442 c.p.p., così come modificato in senso deteriore per l’imputato dall’art. 7 d.l. 341/2000.
Ne seguì un ampio dibattito giurisprudenziale che portò la vicenda sino alla Cassazione.
Il Supremo organo della nomofilachia si espresse a Sezioni Unite nel caso ‘Ercolano’ (Sent., (ud. 24-10-2013) 07-05-2014, n. 18821), ove venne innanzitutto sollevata questione di legittimità costituzionale afferente il ridetto art. 7 d.l. 341/2000, conclusasi con la pronuncia del 18-07-2013, n. 210, che ne dichiarò l’illegittimità costituzionale per avvenuta violazione dell’art. 117 co. 1 Cost., integrato dall’art. 7 CEDU, così come fatto oggetto di interpretazione a seguito della sentenza della Grande Camera della Corte EDU Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009.
Fondamentale lo snodo motivo della decisione della Consulta nella quale la stessa poneva in evidenza come “Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell'assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all'espansione della legge penale più favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza (sentenza n. 236 del 2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l'obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l'ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell'ambito dell'ordinamento nazionale.
Quest'ultimo, difatti, conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato.
Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: «per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l'abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236 del 2011)[…] A questa Corte compete perciò di rilevare che, nell'ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l'ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato.” .
Secondo la Consulta, pertanto, alcuni valori fondamentali immanenti al sistema, quale la tutela della libertà individuale ex art. 13 Cost. ed il principio di legalità della pena - da intendersi non solo come sua conformità alla legge al tempo della sua irrogazione ma anche con riferimento a tutto il periodo di espiazione - appaiono preminenti rispetto al principio di intangibilità del giudicato, che andrà considerato necessariamente recessivo rispetto ad essi.
Le SSUU ‘Ercolano’, a completamento dell’iter logico innestato dalla declaratoria di illegittimità costituzionale assumono che “L'istanza di legalità della pena, per il vero, è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. "situazione esaurita", che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale.
Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (art. 13, comma 2, art. 25, comma 2) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall'art. 27, comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d'incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perchè ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell'art. 117 Cost., comma 1.
E, allora, si impone un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo [...]. Il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti mortificato, per una carenza strutturale dell'ordinamento interno rilevata dalla Corte EDU, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare una tale situazione”.
Ribadito pertanto l’ubi consistam sotteso alla pronuncia della Consulta e quindi la sussistenza nella fattispecie di fondamentali valori di rilievo costituzionale tali da giustificare una flessione del giudicato, le Sezioni Unite si soffermano sullo strumento processuale ritenuto all’uopo più opportuno.
Esso, secondo l’arresto in commento, non può ravvisarsi nell’art. 630 c.p.p., non essendo necessaria una riapertura dell’intero processo, bensì l’applicazione di una pena conforme al dettato convenzionale.
Ed allora sarà necessario il ricorso allo strumento dell’incidente d’esecuzione, fondato tuttavia non sul disposto dell’art. 673 c.p.p., ma su quello dell’art. 30 co. 4 della L 87/1953, apparendo la prima disposizione sottoposta al limite, insuperabile, della sua riferibilità alle sole ipotesi di abolitio criminis e di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e manifestando, ex adverso, la seconda, una latitudine applicativa più ampia, in grado di ricomprendere anche le ipotesi di illegittimità costituzionale incidenti sul solo trattamento sanzionatorio.
Altra ipotesi trattata dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di flessione del giudicato penale, è quella afferente ai casi di rilevata illegittimità costituzionale di norme direttamente incidenti sul concreto trattamento sanzionatorio applicabile, in quanto statuenti circostanze aggravanti, oppure, come nel caso dell’art. 69 co. 4 c.p., determinanti sul giudizio di bilanciamento.
Quanto al primo profilo, viene in rilievo la questione dei riflessi della declaratoria di illegittimità costituzionale della cosiddetta ‘aggravante di clandestinità’ ex art. 61 n. 11 bis c.p. sulle decisioni di condanna passate in giudicato che siano state pronunciate con un computo della pena viziato dalla sua applicazione.
In effetti, ad un primo orientamento che assunse la necessità di una rideterminazione del trattamento sanzionatorio somministrato, con elisione di quella porzione scaturente dall’applicazione della norma costituzionalmente illegittima tramite lo strumento rappresentato dall’art. 30 co. 4 c.p. (anche in tale fattispecie ritenuto di portata più ampia rispetto all’art. 673 c.p.p. in quanto riferibile ad ogni norma penale incidente sulla dosimetria della pena), se ne contrappose un altro, secondo cui l’intangibilità del giudicato osterebbe ad un consimile risultato, poiché, analogicamente a quanto previsto dall’art. 2 co. 4 c.p., tale stato del decisum costituisce fondamento assolutamente ragionevole della distinzione tra le posizioni giuridiche ascrivibili ai diversi condannati.
3. L’illegittimità costituzionale dell’art. 69 co. 4 c.p. e le sue ricadute sul diritto del condannato al ricalcolo della pena inflitta. Cassazione Penale SSUU sentenza (ud. 29-05-2014) 14-10-2014, n. 42858 (imp. Gatto).
Il tema della intangibilità del giudicato, riacceso dalle questioni sollevate in merito alla aggravante di clandestinità, trovò ampio svolgimento ed approfondita analisi grazie alla pletora di pronunce di illegittimità costituzionale che attinsero l’art. 69, co. 4 c.p., nel testo novellato dalla Legge ex Cirielli (n. 251/2005), nella parte in cui lo stesso statuiva il divieto di prevalenza e di equivalenza di alcune circostanze attenuanti indipendenti rispetto alla recidiva reiterata, con il consequenziale problema (analogo a quello registratosi in relazione alla aggravante di clandestinità) della necessità (o meno) di procedere ad una rimodulazione del trattamento sanzionatorio irrogato con decisione ormai definitive.
Anche in tale circostanza la sussistenza di ampi contrasti giurisprudenziali spinse ad una immediata rimessione alle SSUU, le quali, con sentenza (ud. 29-05-2014) 14-10-2014, n. 42858 (imp. Gatto), statuirono innanzitutto la legittimità e doverosità, tramite lo strumento dell’incidente d’esecuzione ai sensi dell'art. 666, comma 1 c.p.p. ed in applicazione della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 4, della rideterminazione della pena ogni qual volta la stessa sia stata determinata, come nella fattispecie, (anche) tramite l’applicazione di una norma attinta dalla pronuncia di illegittimità costituzionale.
Le direttrici su cui si fonda il pronunciamento delle SSUU ‘Gatto’ sono essenzialmente due. Innanzitutto viene rimarcata la distinzione tra il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo con eventuale abolitio crimins e quello della illegittimità costituzionale di norma penale. Il primo - si sostiene nella pronuncia – rappresenta un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico, attinente ad una nuova valutazione del contesto politico-sociale ad opera del Parlamento, mentre il secondo evidenzia una patologia del corpus normativo, che impone una sua radicale elisione.
Il corollario che ne traggono le SSUU è che appare logico affermare che riguardo al primo fenomeno la res iudicata possa apparire un limite invalicabile, costituendo la successione di leggi penali nel tempo un meccanismo di delimitazione della efficacia temporale di ciascuna norma; assunto che, per converso, non può risultare sostenibile qualora venga in evidenza una illegittimità costituzionale della norma determinante il trattamento sanzionatorio, poiché tale disposizione non avrebbe dovuto mai esistere nell’ordinamento giuridico, trattandosi di invalidità originaria, per cui appare doverosa la sua eliminazione unitamente alle conseguenze che essa ha determinato.
La seconda direttrice è quella della fine del ‘mito’ della intangibilità del giudicato.
La Corte spiega infatti che la tradizionale prospettazione della intangibilità del giudicato è stata tradizionalmente correlata all’idea della primazia del potere statale, quale forza superiore in grado di imporsi sulle volontà dei consociati. Tale concezione è da ritenersi oramai superata alla luce dei dettami della Carta Fondamentale, i quali impongono una rilettura dello stesso principio in funzione di garanzia dei diritti del singolo: esso pertanto è riconnesso in ambito penale “all'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem”.
Il processo di erosione dell'intangibilità del giudicato è maturato grazie ad una pluralità di novelle legislative e di importanti arresti giurisprudenziali.
Con particolare riferimento a questi ultimi, la Corte evidenzia la fondamentale necessità di interferire su di un giudicato che non appaia conforme, in riferimento alle norme che ne hanno costituito il sostrato, ai diritti fondamentali riconosciuti al singolo dalla CEDU; necessità che spinse la stessa Consulta alla declaratoria di illegittimità costituzionale, per la violazione degli artt. 117,comma 1 Cost. e 46 CEDU, dell'art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell'uomo (Corte cost., sent. n. 113 del 2011).
Le stesse SSUU ‘Gatto’ valorizzano altresì i principi già espressi nella summenzionata ‘sentenza Ercolano’ al cui iter logico-giuridico dimostrano pienamente di aderire per dirimere la questio iuris proposta.
Ribadito pertanto il principio essenziale posto a base della antecedente pronuncia, secondo cui “L'istanza di legalità della pena, per il vero, è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. "situazione esaurita", che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale.”, il Supremo Consesso evidenzia ulteriormente come “Nel bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, va data prevalenza a quest'ultimo, giacchè . Garante della legalità della pena in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione, cui compete, se richiesto ex art. 666 c.p.p., di ricondurre la pena inflitta a legittimità.”.
È necessario pertanto accedere in ambito penale, secondo la Corte, ad una nuova accezione di ‘rapporto esaurito’, il quale non potrà riconnettersi al formale passaggio in giudicato della sentenza che lo ha definito in maniera irretrattabile, bensì alla effettiva e definitiva espiazione della pena inflitta, con la conseguenza che la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma potrà spiegare la sua portata retroattiva, travolgendo (totalmente o parzialmente) gli effetti della sentenza, sino a quando non sia avvenuta la totale espiazione di quanto in essa statuito.
Anche in questo caso viene considerato quale strumento processuale idoneo a ricondurre a legalità l’espiazione della pena l’incidente d’esecuzione fondato sull’art. 30 co. 4 della L 87/1953, per ragioni analoghe a quelle emarginate dalla precedente sentenza ‘Ercolano’.
4. L’illegittimità costituzionale della ‘Legge Fini-Giovanardi’ ed i suoi precipitati in merito ai giudizi definiti con pronuncia irrevocabile. Cassazione SS.UU. n. 33040 del 28 luglio 2015 e n. 37107 del 15 settembre 2015.
Altro fondamentale passaggio nella disamina del processo di erosione del giudicato fu segnato dalla nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 32/2014 con la quale il Giudice delle Leggi statuì la declaratoria di illegittimità costituzionale della cosiddetta Legge 'Fini-Giovanardi' (decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 - Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 - convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49) per violazione dell’art. 77, co. 2 Cost., statuendo la reviviscenza dell’art. 73 D.p.r. 309/1990 nel testo antecedente la riforma, con conseguente elisione della parificazione di trattamento sanzionatorio tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”.
Il decisum della Consulta ha riproposto l’esigenza di ricalcolo della pena alla stregua dei principi evidenziati nelle precedenti pronunce delle Sezioni Unite nei casi ‘Ercolano’ e ‘Gatto’, evidenziandosi tuttavia ulteriori profili problematici – non fatti oggetto delle precedenti decisioni – quali, ad esempio, se la necessità di rimodulazione del complessivo trattamento sanzionatorio praticato fosse sempre dovuta o solo nelle ipotesi in cui l’entità della sanzione applicata esorbitasse dalla cornice edittale applicabile alle “droghe leggere” o, ancora, se il detto meccanismo di ridefinizione fosse suscettibile di applicazione anche nelle ipotesi (piuttosto frequenti nei reati concernenti gli stupefacenti) di applicazione della pena a seguito di patteggiamento.
I dubbi ermeneutici sollevati da Corte Cost. 32/2014 trovarono risposta a mezzo di importanti pronunciamenti del Giudice di Legittimità (Cfr. Cassazione SSUU n. 33040 del 28 luglio 2015 e n. 37107 del 15 settembre 2015), secondo cui i principi di legalità (art. 25 co. 2 Cost., 7 CEDU) e proporzionalità della pena impongono che la stessa cornice edittale presa a riferimento dal giudicante ai fini della dosimetria del trattamento sanzionatorio debba essere legittima, altrimenti determinandosi una illegittimità della pena in concreto determinata a prescindere dalla circostanza che quest’ultima non fosse comunque esorbitante rispetto alla cornice edittale che avrebbe dovuto essere presa in considerazione sin dall’origine.
Anche in relazione ai procedimenti oggetto di patteggiamento si affermò il generale diritto del condannato ad una rinegoziazione della pena con la pubblica accusa in sede di incidente d’esecuzione (tenendo a mente la corretta cornice edittale), con l’ulteriore previsione che, solo in mancanza di nuovo accordo o di accordo su di una pena ritenuta incongrua, sarà lo stesso giudicante a procedere alla rideterminazione ex artt. 132, 133 c.p..
5. Mutamento della giurisprudenza delle SSUU e revoca della res iudicata. Corte Costituzionale n. 230/2012.
Ultimo passaggio da segnalare è quello afferente al quesito circa la possibilità di ipotizzare una erosione del giudicato penale in forza di un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale nella giurisprudenza nazionale o comunitaria.
È necessario distinguere tra il caso in cui si rilevi il contrasto tra una norma incriminatrice ed il diritto unionale - che ha comportato, secondo l’esegesi accolta dalla giurisprudenza maggioritaria, una rilettura dell’art. 673 c.p.p. nel senso di considerare tale norma come applicabile anche alle ipotesi di ‘sostanziale’ abolitio criminis (rectius: inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale collidente con il diritto comunitario) - dal tema, più ampio, concernente la quaestio iuris se il disposto dell’art. 2 co. 2 c.p. possa considerarsi applicabile anche qualora un pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione provveda ad una rimodulazione della latitudine applicativa di una norma incriminatrice, escludendovi casi prima considerati rientranti nel proprio spettro di afferenza.
Ebbene, a dirimere l’affascinate interrogativo è intervenuta una decisione della Corte Costituzionale, la numero 230/2012, alla quale venne sottoposto un incidente di costituzionalità in merito all’art. 673 c.p.p. “«nella parte in cui non prevede l'ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale - intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato», deducendo la violazione degli articoli 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 5, 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali…”.
In particolare l’ordinanza del rimettente assume la violazione dei seguenti precetti:
- Dell’art 7 CEDU, da intendersi (anche) quale principio di retroattività dei trattamenti penali più favorevoli, nonché degli artt. 5 e 6 della CEDU, che tutelano, rispettivamente, il diritto alla libertà e alla sicurezza e il diritto all'equo processo;
- Dell’art. 3 Cost. poiché “la scelta di continuare a punire l'autore di un fatto che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto», ricostruito con decisione resa dalle Sezioni unite, non è più previsto dalla legge come reato, risulterebbe manifestamente irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza. In tal modo, persone che hanno commesso fatti identici rischierebbero di essere trattate in modo radicalmente differenziato per evenienze puramente casuali, quale il semplice ordine di trattazione dei processi.”;
- Degli artt. 3, 13 e 25, secondo comma, Cost., privilegiando ragioni di «tutela dell'ordinamento» rispetto a quelle afferenti alla protezione della libertà individuale;
- Dell’art. 27, co. 3 Cost. “giacché, nell'ipotesi considerata, l'esecuzione della pena rimarrebbe priva di scopo: né la funzione retributiva, né quella di prevenzione generale o speciale, né, ancora, la rieducazione del condannato avrebbero, infatti, alcuna ragion d'essere a fronte della commissione di un fatto che, alla luce dell'assetto giurisprudenziale sopravvenuto, deve considerarsi privo di rilevanza penale.”.
La Consulta tuttavia si dimostrò insensibile alle predette censure, evidenziando, con particolare riferimento alla prima di esse, come la giurisprudenza unionale si sia occupata della retroattività della lex mitior rispetto ai mutamenti della giurisprudenza solo con riferimento alla necessità di garantire l'irretroattività della norma sfavorevole, ritenendo contraria al principio di prevedibilità, ex art. 7 CEDU, l’applicazione retroattiva di un indirizzo giurisprudenziale sopravvenuto, estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa già esistente, ove la nuova interpretazione non rappresenti un'evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (Cfr. sentenza 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna).
Ne consegue che, ex adverso, non sussiste nel diritto convenzionale alcun principio che imponga una revocazione del giudicato non conforme al diritto vivente sopravvenuto così come enunciato dal giudice nazionale della nomofilachia, trattandosi peraltro di situazione assolutamente distonica con quella precedente in cui è evidente che l’applicazione retroattiva di un’interpretazione sfavorevole sopravvenuta comporterebbe un evidente vulnus al principio della prevedibilità da parte dei singolo consociato degli esiti delle proprie condotte.
Tant’è vero che, precisa la Consulta, dalla sentenza Scoppola c. Italia può desumersi un principio – quello secondo cui se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli (Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, paragrafo 109) - che non solo trova in quella pronuncia, per espressa previsione della Corte di Lussemburgo, un espresso limite nel giudicato, ma che non appare estensibile ai mutamenti giurisprudenziali.
Invero, anche l’asserita lesione dell’art. 3 Cost. viene disattesa, ritenendo la Consulta che non appaia irragionevole la non equiparazione tra il mutamento giurisprudenziale e quello normativo, essendo ascrivibili solo a quest’ultimo quei connotati di stabilità e vincolatività che giustificano un’applicazione retroattiva del nuovo precetto.
L’opposta soluzione contrasterebbe inoltre con il principio della riserva di legge ex art. 25 co. 2 Cost., determinando un mutamento giurisprudenziale l’obbligo da parte del giudice dell’esecuzione di rimuovere ogni decisione passata in giudicato non più conforme al diritto vivente, con un effetto di sostanziale abrogazione che non potrebbe che scaturire da un iniziativa del Legislatore.
6. Osservazioni conclusive.
Tirando le fila del discorso può quindi evidenziarsi dalla ampia ricognizione dei formanti giurisprudenziali sopra richiamati come sussista in atto nel nostro ordinamento giuridico un significativo fenomeno di flessione del giudicato penale; esso non rappresenta a ben vedere una assoluta novità di matrice giurisprudenziale, essendo presenti nel codice penale ed in quello di rito una congerie di norme di diritto positivo atte a rimodulare e, se del caso, ‘correggere’ il contenuto della res iudicata.
Tuttavia non pare possibile non rimarcare la forte spinta giurisprudenziale afferente al generale ripensamento di quel ‘mito’ della intangibilità del giudicato che, cardine di ordinamenti fondati su matrici ideologiche di tipo totalitario, si è scontrato, fino a frantumarsi, con le garanzie riconosciute ai consociati dalla Carta Fondamentale, imponendo una rilettura dello stesso in chiave più modernamente garantista.