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Pubbl. Mer, 11 Lug 2018

L´email forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate

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Matteo Bottino
AvvocatoUniversità degli Studi di Genova


La produzione in giudizio della corrispondenza intercorsa fra le parti a mezzo email - in caso di mancato disconoscimento da parte di colui contro cui viene prodotta - assolve l´onere probatorio in capo a chi voglia far valere un diritto sulla base dei fatti e delle cose ivi rappresentate, anche se priva di firma


Sommario: 1. Il caso; 2. Il ricorso davanti alla Corte di Cassazione; 3. L'infondatezza delle doglianze sollevate; 4. L'e-mail rientra fra le riproduzioni informatiche di cui all'art. 2712 c.c.; 5. La forma del disconoscimento.

1. Il caso

Con l'ordinanza numero 11606 del 2018, la Suprema Corte si esprime su una vicenda che trae origine da un decreto ingiuntivo opposto, emesso dal Tribunale di Milano a seguito del mancato pagamento del corrispettivo dovuto per alcune strumentazioni di navi da diporto, ordinate dall'intimata. Nel corso del giudizio di opposizione promosso dalla debitrice, veniva eccepito il pagamento parziale del credito, intervenuto nelle more del procedimento.

Il Giudice di primo grado, dato atto di quanto sopra, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l'opponente al pagamento della somma residua risultante dalla documentazione prodotta dalla ricorrente in sede monitoria.

La società soccombente impugnava la Sentenza di condanna nanti la Corte di Appello di Milano, la quale confermava quanto statuito dal Giudice di prime cure. Si riteneva infatti, che i rapporti commerciali tra le parti e l'esistenza del credito azionato, fossero stati sufficientemente provati dalla produzione in giudizio della corrispondenza a mezzo email intercorsa fra le imprese, con la quale la società debitrice proponeva un piano di rientro dei crediti scaduti, che veniva accettato dalla originaria ricorrente. Per tale ragione - essendo le circostanze utili ai fini del giudizio, desumibili da documento scritto - il collegio giudicante rigettava altresì le istanze istruttorie volte all'escussione di alcuni testimoni dell'opponente, in quanto ritenute superflue.

2. Il ricorso davanti la Corte di Cassazione

La Sentenza della Corte territoriale veniva dunque impugnata con ricorso alla Suprema Corte di Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell'articolo 2697 c.c., in quanto i giudici di merito avrebbero ritenuto fondato il credito della ricorrente, sulla base di documenti (nel caso specifico messaggi di posta elettronica ordinaria) che sarebbero privi di valenza probatoria, stante - oltretutto - la mancanza di qualsivoglia sottoscrizione.

Da ciò sarebbe dunque derivato, una illegittima inversione dell'onere della prova, in quanto secondo la tesi del ricorrente, non poteva ritenersi dimostrata l'esistenza del credito ingiunto, sulla base degli atti prodotti in corso di causa dalla intimante.

3. L'infondatezza delle doglianze sollevate

Gli Ermellini rigettavano il ricorso e confermavano l'impugnata Sentenza, rilevando l'infondatezza e l'inammissibilità dei motivi posti a sostegno del ricorso della società ingiunta.

Con riferimento all'asserita violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., la Corte ribadiva il proprio orientamento, evidenziando come tale doglianza potesse essere valutata nel giudizio di legittimità, solo nel caso in cui il Giudice decida la controversia sulla base di prove non introdotte nel giudizio dalle parti e che - in ogni caso - non è mai possibile duolersi che lo stesso abbia male esercitato il proprio libero apprezzamento della prova.

"Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell'art. 132, n. 4, c.p.c. - dà rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante." (Cass. civ. Sez. III, 10/06/2016, n. 11892)

Rilevava altresì l'infondatezza del secondo motivo di ricorso, con il quale veniva lamentata la violazione dell'art. 2697 c.c., in quanto tale doglianza è sollevabile esclusivamente nel caso in cui il giudice attribuisca l'incombente di provare un fatto sul quale si fonda il diritto per cui si agisce, ad una parte differente da quella effettivamente onerata sulla base della richiamata disposizione di legge.

In ogni caso la rimostranza circa la valutazione delle prove, avrebbe dovuto essere fatta valere ai sensi dell'art. 360 co. I n.5 c.p.c., indicando specificatamente l'omesso esame di un fatto storico che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e sia dirimente al fine della risoluzione della controversia.

4. L'e-mail rientra fra le riproduzioni informatiche di cui all'art. 2712 c.c.

L'ordinanza in commento approfondisce il tema della valenza probatoria della posta elettronica ordinaria (e-mail), dell'idoneità della stessa ad assolvere il relatvo onere della prova a carico di chi agisce in giudizio e sulla relativa utilizzabilità da parte del Giudice al fine di risolvere la controversia.

"Ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 1, comma 1, lett. p), (Codice dell'amministrazione digitale), la e-mail costituisce un "documento informatico", ovvero un "documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti". L'e-mail, pertanto, seppur priva di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche, ovvero fra le rappresentazioni meccaniche indicate, con elencazione non tassativa, dall'art. 2712 c.c. e dunque forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale viene prodotta non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime" (Cass. civ. Sez. VI - 2, Ord., (ud. 20-02-2018) 14-05-2018, n. 11606)

Gli Ermellini rilevano come effettivamente la e-mail costituisca un documento informatico che - in quanto tale - ben può essere annoverato fra quelli ricompresi nell'art. 2712 c.c., il quale prevede appunto come le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.

Tale lettura è resa possibile dal combinato disposto della citata norma, con l'art. 1 co. I lett. p) del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, il quale definisce il documento informatico come il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti.

Alla luce di quanto sopra pare evidente come - in caso di mancata contestazione da parte di colui contro cui il documento viene prodotto - il Giudice di merito possa legittimamente ritenere provati i fatti sulla base dei quali si è agito in giudizio per far valere un diritto, senza dover ulteriormente istruire la causa tramite l'escussione delle prove orali.

5. La forma del disconoscimento

La Corte di Cassazione ribadisce come la mancata contestazione da parte di colui contro cui le riproduzioni informatiche sono prodotte, ha la diretta conseguenza di ritenere pienamente provate le circostanze di fatto e di diritto ivi rappresentate. Si rende necessario dunque, comprendere come tale contestazione debba essere sollevata, onde scongiurare tali effetti negativi in capo a chi ne abbia interesse.

La norma non detta alcuna specifica circa le modalità del disconoscimento e - dunque - è la giurisprudenza ad aver colmato la lacuna del legislatore.

E' innanzitutto pacifico come, la contestazione prevista dall'art. 2712 c.c., non segua le regole previste per il disconoscimento della scrittura privata (artt. 214 ss. c.p.c.). Infatti la rimostranza circa l'autenticità dei fatti riprodotti, non ha gli stessi effetti di cui all'art. 215 c.p.c. e dunque - in caso di mancata verificazione - non viene precluso l'utilizzazione del documento, potendo essere utilizzato quale elemento indiziario, o verificando l'autenticità attraverso altri elementi di prova, comprese le presunzioni.

Inoltre, la parte che contesti la corrispondenza di quanto riprodotto sul documento informatico con la realtà dei fatti, ha l'onere di specificare quali elementi ed in che modo essi siano difformi, non potendosi limitare ad una generica contestazione, seppur non si rende necessaria alcuna forma sacramentale.

"In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all'art. 2712 cod. civ., il "disconoscimento" che fa perdere ad esse la qualità di prova, pur non soggetto ai limiti e alle modalità di cui all'art. 214 cod. proc. civ., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta" (Cass. civ. Sez. lavoro, 17/02/2015, n. 3122)

Secondo la dottrina - inoltre - il disconoscimento segue le stesse regole per la contestazione dei fatti allegati in causa e, quindi, può essere effettuata nel corso dell'intero giudizio di primo grado e, anche, per la prima volta in appello.