Verso una nuova prescrizione: analisi dell´istituto in ottica italiana e sovranazionale
Modifica paginaI recenti sviluppi comunitari si pongono come premessa per ripensare uno degli istituti più risalenti nel tempo, recuperando anche le proposte delle varie commissioni di riforma in cui emerge, con chiarezza, la possibilità di attribuire anche un’essenza processuale alla prescrizione. Nonostante, infatti, i chiarimenti circa la natura sostanziale dell’istituto ad opera della Corte costituzionale, non sembra lontano il momento in cui il legislatore italiano sarà costretto a compiere scelte decisive sulle sue sorti.
Sommario: 1. L’essenza sostanziale e processuale della prescrizione: coordinamento con il “tempo” del processo; 2. I rapporti tra prescrizione e fasi processuali alla luce della riforma Orlando; 3. Il “caso Taricco” ed il problema dei “controlimiti” al diritto europeo: l’“anomalia italiana”; 4. Spunti comparatistici: il sistema francese; 5. Considerazioni conclusive.
1. L’essenza sostanziale e processuale della prescrizione: coordinamento con il “tempo” del processo
La prescrizione, nonostante la più volte ribadita natura sostanziale, ha assunto nel corso del tempo nuove sfumature processuali, complici anche le trasformazioni degli ultimi anni. Ciò si deve, infatti, non solo ad approfondimenti dottrinali sempre più condotti attraverso la prospettiva del processo, ma anche, e in misura determinante, alla convergenza, nella presente fase evolutiva del diritto, di fenomeni eterogenei legati dal comune riferimento al fattore “tempo” [1]. Si fa riferimento, innanzitutto, all’accresciuta consapevolezza della natura complessa, e talvolta insoddisfacente, della vigente disciplina del predetto istituto e, dunque, del suo diverso atteggiarsi a seconda dell’eventuale sovrapposizione con le fasi del procedimento penale: il fenomeno estintivo può, infatti, alternativamente intervenire prima dell’avvio dell’iter o durante le indagini preliminari o, ancora, dopo l’esercizio dell’azione penale. Tutto questo ha consentito l’ingresso, nel linguaggio giuridico, di locuzioni, apparentemente improprie, nelle quali il termine “prescrizione” si lega per l’appunto al procedimento, all’azione penale o al processo.
A ciò si aggiunga che all’espansione del campo semantico hanno contribuito i dati empirici, alquanto preoccupanti, in ordine all’altissima incidenza della prescrizione quale precoce causa di definizione del procedimento penale, dato che essa interviene già nelle sue prime fasi. Si sono poste, così, le basi per una riflessione sulle ragioni per le quali un tale meccanismo estintivo, fondato sul sopito interesse per reati ormai risalenti, possa intervenire anche quando l’iter procedimentale abbia già avuto inizio.
Non va, inoltre, trascurato che la necessità di adattare i tempi processuali al canone della ragionevole durata, come disposto dalle fonti sovranazionali e dall’art. 111 comma 2 Cost., ha imposto una rivisitazione dell’istituto de quo.
Ed infatti, de iure condito, ha avuto inizio un’articolata disamina relativa al rapporto tra prescrizione del reato e ragionevole durata del processo, con la consapevolezza, per un verso, della netta distinzione dogmatica che le separa e, per altro verso, della presenza di rilevanti interferenze reciproche sul piano pratico.
De iure condendo, invece, l’istituto prescrizionale è stato oggetto di numerosi studi, finalizzati a formalizzare la distinzione tra la prescrizione che si verifica al di fuori del procedimento e quella che matura dopo il suo avvio e a modellare, sulla base della stessa, istituti ancora vigenti, senza trascurare la necessità di contenere, però, i tempi di definizione del processo. A riprova di ciò, vi sono numerose iniziative di riforma che, benché non coronate da successo, hanno contrassegnato gli ultimi decenni.
L’orientamento prevalentemente diffuso in dottrina ha riconosciuto nell’istituto della prescrizione processuale lo strumento più idoneo a dare attuazione al dèlai raisonnable; tuttavia, proprio in tale ambito, bisogna distinguere tra coloro che vorrebbero la fissazione di un termine massimo per l’intero giudizio e quelli che, invece, prospettano un limite temporale per ciascuna fase[2].
Rispetto al fine da raggiungere, appaiono sicuramente preferibili i progetti riconducibili a quest’ultima categoria, poiché i primi rischiano di negare qualsiasi tutela agli ulteriori principi che connotano il “giusto processo” ex art. 111 Cost. Essi risultano, infatti, sicuramente più rispondenti all’obiettivo stabilito poiché riducono il pericolo che, per evitare la maturazione della prescrizione processuale in una fase, il procedimento si svolga in maniera sbrigativa e superficiale nella successiva, al solo scopo di recuperare il tempo perduto. Se, dunque, tali considerazioni inducono a preferire la “prescrizione processuale per fasi”, nel momento in cui deve stabilirsi quale sia il metodo più idoneo per dare attuazione a tale idea (basti pensare alle difficoltà che si intravedono dalla lettura della relazione alla c.d. bozza Riccio), nessuna soluzione si presenta come pienamente soddisfacente.
Invero, il problema di fondo, comune a tutti i progetti, sembra essere stato il tentativo di individuare, nella prescrizione processuale, la sanzione più idonea da applicare nell’ipotesi di violazione dei limiti temporali posti a presidio della principio della ragionevole durata: l’introduzione di termini massimi di durata per fasi o per l’intera celebrazione del processo rappresenta, infatti, uno strumento astrattamente e potenzialmente idoneo ad assicurarne la ragionevolezza e, del resto, l’attuale codice di rito prevede diversi istituti che tendono a porre, con i dovuti correttivi, dei limiti di durata alle diverse fasi o gradi del processo penale.
Le questioni principali da affrontare sono due e consistono, innanzitutto, nella difficoltà di stabilire una durata del processo indipendente dalle particolarità del singolo procedimento che non ne finisca per mortificare, al contempo, le esigenze di accertamento e le garanzie difensive; in secondo luogo, nella scelta della sanzione da applicare in caso di superamento dei termini stabiliti (nelle diverse proposte di legge, l’unica soluzione con i principi costituzionali, sembra essere appunto quella della prescrizione processuale)[3].
La prescrizione, tuttavia, è l’antitesi della ragionevole durata del processo e, pertanto, non può essere utilizzata per assicurarla, dato che agisce a posteriori nel momento in cui, cioè, il processo non si è concluso entro i tempi stabiliti. Dovrebbe essere, al contrario, proprio la ragionevolezza dei tempi dello svolgimento del processo a far sì che si eviti la maturazione dei termini di prescrizione.
L’introduzione dell’estinzione della potestà punitiva, della prescrizione dell’azione penale o del procedimento o della improcedibilità dello stesso, che dir si voglia, favoriscono il colpevole e danneggiano l’innocente: un esito che è assolutamente inaccettabile sia sul piano morale che giuridico, ponendosi, peraltro, in contrasto sia con il principio di eguaglianza che con quello di parità di trattamento. Ciononostante, la prescrizione processuale, nei progetti delle varie commissioni di riforma, risulta come la migliore sanzione da comminare a colui che ha contribuito all’allungamento del processo e che ha finito per minarne la stessa funzione. A differenza delle diverse sanzioni previste dall’attuale codice di procedura – ove la violazione del termine non preclude mai l’accertamento del fatto e, dunque, non colpisce mai la titolarità del potere ma, al limite, l’utilizzabilità dei risultati delle attività compiute oltre il limite temporale – qui, invece, si arriverebbe ad una rinuncia all’accertamento penale, non essendosi il processo concluso entro tempi ritenuti tollerabili.
Ciò considerato, è evidente che la prescrizione processuale non serva a dare attuazione al principio costituzionale della ragionevole durata, sebbene possa, certamente, influirne sul rispetto nella misura in cui assume la funzione di incentivare l’autorità giudiziaria ad operare nei tempi previsti dal legislatore, al fine di evitare una brusca interruzione del processo. L’esperienza ha dimostrato, tuttavia, che tale “rischio” non ha spinto il pubblico ministero o il giudice ad agire più celermente[4].
Il predetto istituto comporta, pertanto, solamente la rinuncia all’accertamento del fatto, funzione principale del processo penale, ed il ricorso ad esso è possibile solo se si opera un corretto bilanciamento tra valori confliggenti[5].
Se, però, una parte della dottrina considera la ragionevole durata come un principio sussidiario rispetto agli altri che connotano il “giusto processo”, appare inaccettabile l’adozione della prescrizione come sanzione per l’irragionevolezza dei tempi di svolgimento: in nome della prima, infatti, si consentirebbe una inaccettabile compressione degli altri principi formalizzati nell’art. 111 Cost.
Il discorso cambia poco nell’ipotesi in cui, alla ragionevole durata, si riconosca lo stesso rango dei principi consacrati nel comma 3 dell’art. 111 Cost. poiché, nel bilanciamento tra valori di pari protezione costituzionale, si potrebbe ricorrere all’istituto prescrizionale come estrinsecazione del principio nella sua accezione soggettiva, qualora, però, si consentisse all’imputato di potervi rinunciare. Ma, se la funzione di accertamento del processo penale rappresenta una regola pregiuridica, non sarebbe possibile impedirgli di realizzare il suo fine in nome di un diritto meramente soggettivo!
Per chi reputa, al contrario, che il dèlai raisonnable sia una regola pregiuridica, si potrebbe ritenere che la tutela di quella, rappresentando una esigenza superiore, giustificherebbe una limitazione degli altri valori costituzionalmente protetti. Tuttavia, non può disconoscersi che in tal modo si finisca per ledere la stessa funzione del processo penale, dato che «la formula che proclama la prescrizione consacra, infatti, una rinuncia alla funzione essenziale del processo, che è l’accertamento di un presunto reato: e questa rinuncia non è il frutto del riconoscimento di un diritto inviolabile o di una garanzia, che sarebbero prezzo accettabile, ma è l’ammissione di una disfunzione, di un’inadempienza all’obbligo di esercitare e di portare a compimento l’azione penale»[6]. D’altro canto, qualora si condividesse l’idea che la ragionevole durata del processo sia una regola pregiuridica, allora si potrebbe sostenere che in un bilanciamento tra valori che appartengono al diritto vivente, la tutela di uno può legittimare compressioni dell’altro. In tal senso, l’istituto prescrizionale potrebbe considerarsi compatibile con i principi fondanti il processo penale. Tuttavia, i fautori della tesi sostengono che, sebbene la ragionevole durata del processo sia, in una costruzione verticistica dei principi del giusto processo, all’apice, essa non possa mai consentire la lesione di diritti individuali. È, però, innegabile che tale prospettazione si presenta incoerente laddove finisca per comportare una lesione degli interessi della vittima del reato, la quale non potrà ottenere alcuna soddisfazione per il danno subito, se non in sede civile e di natura meramente economica. A tal proposito, appare doveroso richiamare una sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo contro l’Italia nel 2011, ove la condanna non è stata determinata solo dalla circostanza che il processo si era concluso in tempi assolutamente irragionevoli, quanto per l’effetto prescrittivo che ad esso era connesso[7].
Pertanto, lungi dal condannare l’eventuale attribuzione di una “coloritura processuale” alla prescrizione, si deve, in maniera decisa, ribadire la sua inidoneità a tutelare il principio del dèlai raisonnable; di conseguenza, con lo stesso andrebbe semplicemente coordinata.
In sede politica sono stati elaborati svariati progetti di riforma volti alla ridefinizione del predetto istituto ed in ciascuno di essi si rinviene, tra i punti principali, proprio quello del rapporto con lo svolgimento del processo. Tra essi, merita una particolare menzione lo schema di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale elaborato dalla Commissione Pagliaro[8]. Negli artt. 25 e 53, comma 5, del testo si rinvengono opzioni normative destinate ad una certa fortuna nell’ambito dei successivi progetti, tra cui l’attribuzione di un’essenza processuale alla prescrizione, concepita come causa estintiva della procedibilità, l’adozione del tetto edittale, quale indice di commisurazione del tempo prescrizionale, e l’irrilevanza delle circostanze. Di indubbio rilievo, inoltre, è la causa sospensiva correlata alla proposizione dell’impugnazione da parte dell’imputato, la cui introduzione avrebbe dovuto rispondere all’esigenza di scoraggiare gli impieghi dilatori. Sarebbe rimasta senza seguito, invece, la sollecitazione in ordine alla valutazione dell’opportunità di munire di un termine estintivo anche i delitti puniti con l’ergastolo.
Di indubbio interesse, si presenta anche il testo redatto dalla Commissione Grosso nel 1999, espressamente finalizzato a scongiurare il rischio che «la prospettiva della prescrizione (che dovrebbe essere un rimedio eccezionale) possa essere realisticamente assunta ad obiettivo di strategie difensive, con effetti pratici di appesantimento e prolungamento dei processi»[9]. Le soluzioni proposte, benché inserite in un’architettura certamente inedita, fondata sull’inquadramento della prescrizione tra le cause di estinzione della procedibilità, non si rivelano, tuttavia, particolarmente innovative, attenendo ad un ridimensionamento del tempo prescrizionale, soggetto ai tradizionali istituti che ne determinano la sospensione e l’interruzione in rapporto alle vicende processuali. Solo riguardo al novero degli atti interruttivi deve segnalarsi un tentativo di “detassativizzazione”: la vigente elencazione normativa avrebbe dovuto cedere il passo alla locuzione più generica, ma non sicuramente circoscritta, riferita a «tutti gli atti del procedimento contenenti l’enunciazione del fatto contestato»[10]. Nessun elemento di novità si rinviene sul piano dei termini prescrizionali massimi che il progetto mantiene, in coerenza con l’ottica di conservare quegli aspetti della disciplina tradizionale ritenuti dai proponenti quali incentivi alla celerità processuale.
Considerazioni analoghe debbono svolgersi per ciò che concerne l’elaborato presentato nel 2005 dalla Commissione Nordio[11], sebbene questo fosse focalizzato sull’opinione, di segno opposto, dell’estensione dei termini, nonché dell’ampliamento delle cause di interruzione, sino all’inclusione di atti non giurisdizionali[12], e della responsabilizzazione delle parti processuali, al fine di minimizzarne le mire dilatorie.
L’analisi delle innovazioni proposte dalla commissione Pisapia, in materia di prescrizione del reato, impone di tenere contestualmente conto dei lavori svolti dalla Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal Prof. Riccio, dato che il coordinamento derivava dalla scelta comune di operare nel segno della distinzione tra due meccanismi prescrittivi: prescrizione del reato e prescrizione del processo. Dalla base delle risultanze dei lavori della Commissione, si evince chiaramente che «la prescrizione non può essere delineata a prescindere dal processo penale» poiché il decorso della stessa si lega ad «un fatto storico potenzialmente qualificabile come reato, a prescindere dalla concreta esistenza di un fatto tipico e antigiuridico rimproverabile ad una persona fisica». Il punto di avvio per l’operatività del meccanismo prescrittivo deve, pertanto, individuarsi nel «reato in senso processuale», da intendersi quale «situazione suscettibile di verifica processuale» e non, invece, come «momento eventuale e successivo in cui di quel reato si rivenga l’autore». Sulla base di tali riflessioni, la Commissione ha tracciato la fisionomia della nuova disciplina, in cui si rivengono due regimi prescrizionali: uno che precede l’azione penale[13]e l’altro che interviene quando la pubblica accusa si determina per la formulazione dell’imputazione. In definitiva, quest’ultima paralizza l’operatività della prescrizione del reato, che cede il passo alla prescrizione del processo (per cui, tra l’altro, la Commissione non manca di prevedere un analitico catalogo di cause di sospensione).
Il nuovo volto della prescrizione emerge, dunque, dalla lettura combinata dei progetti di riforma del codice penale e del codice di rito delle due Commissioni summenzionate.
La “prescrizione processuale” è, indubbiamente, la vera novità della riforma proposta dalla commissione Riccio, a cui viene, pertanto, attribuita la massima rilevanza[14]. Essa, tuttavia, non va confusa con quella dell’azione poiché, differentemente da essa, la prima risulta modulata in ragione delle diverse fasi del procedimento-processo. I lavori della commissione hanno preso avvio dalla necessità di rimuovere l’ambiguità caratterizzante l’istituto in esame, considerato che l’attuale sistema di commisurazione finirebbe per «fondere e confondere in un unico compasso cronometrico il tempo dell’inerzia e il tempo dell’intervento giudiziario». La soluzione a questo problema sarebbe da ricercarsi, pertanto, nella distinzione tra “prescrizione del reato” e “prescrizione del processo” la cui diversità emerge, in maniera piuttosto nitida, dai passaggi della relazione di accompagnamento alla c.d. bozza Riccio, ove si osserva che «il tempo della punibilità è un tempo cronologico, un tempo vuoto, o meglio, indifferente a tutto ciò che si materializza durante il suo fluire (indifferente, in particolare, alla condotta dei soggetti interessati); un tempo, il cui strumento di misurazione è il calendario. Il tempo dell’agere giudiziario è, invece, un fenomeno giuridico – scandito dall’interazione dei protagonisti, dal susseguirsi di effetti interruttivi e sospensivi – il cui strumento di misurazione è la norma. Il tempo della prescrizione del reato scorre in modo lineare e costante, mentre quello del processo in modo discontinuo, conoscendo pause e riprese»[15]. I rapporti tra i due tipi di prescrizione sarebbero, dunque, di reciproca indipendenza.
Pertanto, secondo quanto proposto, verrebbe preclusa la possibilità di dichiarare la “prescrizione del reato” nel corso del processo, dovendo l’esercizio dell’azione penale rappresentare una sorta di “sbarramento”: da quel momento in avanti avrebbe, infatti, iniziato a decorrere la “prescrizione del processo”, per la cui regolamentazione la Commissione ha prefigurato «un sistema di termini di durata massima per le singole fasi e per i diversi gradi del processo, in modo da evitare che l’eccessivo protrarsi di un segmento processuale renda molto più “appetibile” e meno evitabile il maturare della prescrizione nel successivo».
Altro punto cruciale del progetto Riccio è rappresentato dal rapporto tra l’istituto prescrizionale e la ragionevole durata del processo. Viene, innanzitutto, smentita l’idea secondo cui la prescrizione assicurerebbe il rispetto del suddetto principio costituzionale, rivelandosi «doppiamente falsa (…): non è vero, infatti, né che sia sempre ragionevole la durata del processo che si inscriva nei termini prescrizionali (…), né che sia sempre irragionevole quella che li travalichi (…)». Ergo, la prescrizione si rivela come una sanzione assolutamente inidonea da comminare nell’ipotesi di violazione dei tempi processuali, essendo gli stessi legati non solo alla gravità del reato ma anche, e soprattutto, alla ragionevolezza delle circostanze concrete della fattispecie che si rinviene, soprattutto, attraverso valutazioni ex post con riguardo ai provvedimenti adottati.
Sulla stessa falsariga si pone il c.d. progetto Mastella, che ha ripreso, in ampia misura, la disciplina proposta dal progetto di delega per l’elaborazione di un nuovo codice di rito elaborato dalla Commissione Riccio.
2. I rapporti tra prescrizione e fasi processuali alla luce della riforma Orlando.
Con la legge 23 giugno 2017, n.103, vengono parzialmente modificati gli articoli da 158 a 161 del codice penale.
Il legislatore, in sostanza, non ha fatto altro che recepire il principale correttivo apportato alla legge ex-Cirielli proposto dalla Commissione presieduta dal Prof. Fiorella, istituita dal ministro Severino durante il Governo Monti. A differenza delle precedenti commissioni, aventi quale comune denominatore, pur nella diversità delle soluzioni proposte, l’idea secondo cui la prescrizione andasse tenuta distinta dalla ragionevole durata del processo, la Commissione Fiorella riteneva che «le ragioni della prescrizione sostanziale non vengono del tutto meno una volta avviato il processo», e ciò in quanto «continua ad avere un senso ben preciso l’idea che, mano a mano che ci si allontana dalla commissione del reato, sempre meno si giustifica la pena da un punto di vista generale, soprattutto, special-preventivo». Inoltre, in considerazione del sovraccarico di procedimenti che affligge il sistema italiano, la Commissione riconosceva nella prescrizione «un fatto funzionale anche alla tutela della ragionevole durata del processo penale», in virtù della sua «funzione acceleratoria (analoga alla missione attribuita ai termini massimi di custodia cautelare)», specie laddove organizzi «le cadenze del lavoro giudiziario in modo tale da evitare l’esito prescrizionale»[16].
La riforma, dunque, conformandosi anche alle iniziative precedenti, ha introdotto all’art. 159 c.p. due nuove ipotesi di sospensione, attraverso la riscrittura del comma 1 e l’introduzione dei nuovi commi 2 e 3. Dalla lettura dei predetti, si evince che all'esito del giudizio di primo grado, in caso di condanna dell’imputato, la prescrizione deve interrompersi e ricominciare a decorrere ex novo, esattamente come accadeva prima della riforma. La novità, però, è che, a partire dalla scadenza del termine per il deposito delle motivazioni (dunque, al massimo 90 giorni dopo la pronuncia del dispositivo, salvo le ipotesi di cui all’art. 544, comma 3 bis, c.p.p.), inizia il periodo di sospensione, che si protrae fino alla lettura del dispositivo della sentenza d’appello (o comunque fino ad un massimo di un anno e sei mesi dalla scadenza del termine per il deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado). La prescrizione ricomincia, quindi, a decorrere, fermi restando i termini massimi di cui all’art. 161, comma 2, c.p.
Nessuna innovazione, invece, in caso di proscioglimento dell’imputato: i termini prescrizionali continuano a maturare nell’eventuale giudizio di secondo grado, senza interruzione né sospensione.
Pertanto, risulta evidente che l’effetto sospensivo sia inequivocabilmente ancorato alle sole sentenze di condanna, con esclusione di quelle di assoluzione, proscioglimento o di annullamento. D’altra parte, il riferimento alla “sentenza di condanna” dovrà pacificamente ritenersi ricomprendere anche le sentenze di applicazione della pena su richiesta, stante l’equiparazione normativa di cui all’art. 445, co. 1-bis; mentre non si estenderà, altrettanto pacificamente, al decreto penale di condanna[17].
All'esito del giudizio d’appello, la l. n. 103/2017 ha previsto che in caso di proscioglimento, o dichiarazione di nullità con rinvio al giudice di primo grado (ex art. 604, co. 1, 4 e 5-bis c.p.p.), non solo non vi sia alcuna nuova sospensione della prescrizione, ma, ai sensi dell’art. 159, comma 3, c.p.p., viene meno ex tunc anche l’eventuale sospensione precedentemente maturata. Il testo, nonostante non brilli per chiarezza, lascia comunque trapelare il senso complessivo: nell’ipotesi in cui, nel grado successivo di giudizio, la precedente sentenza di condanna venga riformata in melius in ordine ai presupposti della responsabilità penale dell’imputato, il periodo di sospensione conseguito alla precedente condanna, ai sensi del secondo comma, verrà meno con efficacia retroattiva.
In caso di condanna, invece, fermo restando l’eventuale precedente parentesi sospensiva, la prescrizione ricomincia a decorrere ex art. 160 c.p., rimanendo, poi, ulteriormente sospesa per il periodo che va dalla scadenza del termine fissato per il deposito delle motivazioni d’appello fino al dispositivo della sentenza di Cassazione (o finché siano trascorsi 18 mesi).
Per quanto concerne, infine, il ricorso per cassazione, va sottolineato come ad esso non siano ricollegabili ulteriori periodi di sospensione ai sensi del nuovo art. 159, comma 2, c.p., neppure nell’ipotesi di annullamento con rinvio della sentenza di proscioglimento. È, però, previsto, ai sensi dell’art. 159, comma 3, c.p. che, esattamente come accade nel giudizio d’appello, in caso di sentenza favorevole all’imputato (annullamento della sentenza di condanna o dichiarazione di nullità), venga meno ex tunc l’effetto sospensivo precedentemente maturato[18].
Il nuovo comma 4 dell’art. 159 c.p., regola i rapporti tra le nuove ipotesi di sospensione e le altre formalizzate nel primo comma: viene, infatti, stabilito che «se durante i termini di sospensione di cui al secondo comma si verifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente». Tale “sospensione nella sospensione” consente, così, di superare il termine massimo di 18 mesi fissato dal comma 2[19].
Tra le principali novità introdotte, rileva la previsione secondo la quale, in caso di “autorizzazione a procedere”, la prescrizione rimane sospesa «dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità competente la accoglie» e che, in caso di «deferimento della questione ad altro giudizio», venga sospesa «sino al giorno in cui viene decisa la questione». Al comma 1 dell’art. 159 c.p., viene, inoltre, prevista un’ulteriore ipotesi sospensiva in caso di «rogatorie all’estero, dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria».
Con la l. n. 103/2017 viene ridefinita anche la disciplina dell’interruzione inserendo, all’art. 160, comma 2, c.p., tra le cause interruttive, l’interrogatorio reso davanti «alla polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero». L’intento che ha mosso il legislatore era, evidentemente, quello di colmare una precedente lacuna della disposizione, avendo le Sezioni Unite precedentemente escluso che si potesse procedere all’applicazione analogica, dato il carattere tassativo dell’elencazione degli atti interruttivi[20].
Inoltre, mentre la versione precedente dell’art. 161 c.p. prevedeva l’estensione degli effetti interruttivi e sospensivi a tutti i concorrenti nel reato, in base al nuovo testo, fermi restando gli effetti erga omnes dell’interruzione, «la sospensione della prescrizione ha effetto limitatamente agli imputati nei cui confronti si sta procedendo»[21].
Il legislatore, infine, ha regolamentato anche gli effetti di diritto intertemporale, stabilendo che «le disposizioni di cui ai commi da 10 a 14 si applicano ai fatti commessi dopo la data di entrata in vigore della presente legge». Considerata la natura sostanziale della prescrizione[22], più volte ribadita dalla Consulta, questa disposizione non può che risultare superflua: le novità sfavorevoli all’imputato (in primis, le nuove cause di sospensione a seguito di condanna non definitiva), infatti, sono già inapplicabili ai fatti pregressi in forza del principio di irretroattività in malam partem. Tuttavia, il fatto che non si consenta l’applicazione delle novità favorevoli, in deroga all’art. 2, comma 4, c.p., non può che destare talune perplessità[23], considerato che il valore tutelato dal principio della lex mitior «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo). Ergo, «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo, deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole»[24].
Ciò premesso, sono evidenti i dubbi destati dalla disciplina in esame laddove esclude l’applicazione degli effetti favorevoli ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, dal momento che la deroga all’art. 2, comma 4, c.p.[25] non sarebbe finalizzata alla tutela di alcun confliggente interesse. In fin dei conti, però, la rilevanza pratica di questo problema è abbastanza ridotta, se non addirittura nulla: l’unica modifica favorevole introdotta dalla riforma, infatti, è quella dell’art. 161 c.p., nella parte in cui sottrae agli effetti della sospensione i concorrenti che non risultino imputati nello stesso procedimento[26].
Risulta difficile, allo stato, effettuare un giudizio prognostico sul futuro atteggiamento della Corte Costituzionale in relazione al problema summenzionato: si potrebbe, infatti, addirittura arrivare alla difesa dell’innovazione legislativa sostenendo che essa sia una modifica intervenuta “in corso d’opera”, funzionale ad abbreviare il termine di prescrizione per l’imputato, finirebbe per frustrare il legittimo affidamento degli organi della giurisdizione (in primis dei responsabili degli uffici giudiziari che programmano il loro lavoro tenendo conto anche dei termini prescrizionali) sul tempo residuo, a propria disposizione, per la definizione dei procedimenti[27].
3. Il “caso Taricco” ed il problema dei “controlimiti” al diritto europeo: l’“anomalia italiana”.
Ad ulteriore conferma della necessità di revisione della prescrizione, è intervenuta, in tempi recenti, un’importante sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. In particolare, la predetta Corte, con il noto caso Taricco[28], ha dichiarato che una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato pregiudica gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) laddove impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive nei casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode grave, lesivi degli interessi finanziari europei.
La valutazione della sussistenza di tali circostanze è stata rimessa al giudice nazionale, il quale è, così, chiamato a dare piena efficacia all’articolo 325 TFUE, disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni interne che impediscano allo Stato interessato di rispettare gli obblighi imposti dall’Unione.
Date le perplessità suscitate dalla pronuncia in esame, la Corte d’appello di Milano[29] e la Suprema corte di Cassazione[30], hanno ritenuto opportuno sollevare questioni di legittimità costituzionale portando, di conseguenza, la Corte costituzionale ad affrontare il problema dei “controlimiti” al diritto comunitario, di cui, peraltro, si era già riservata il sindacato con la storica sentenza Frontini[31].
La valutazione della Consulta ha inizio con una solenne difesa degli stessi: se è vero, infatti, che «il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 11 Cost.», lo è altrettanto che «questa stessa giurisprudenza ha costantemente affermato che l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia». Dunque, «ove si verificasse il caso», che la Corte ha ribadito essere estremamente improbabile, che «in specifiche ipotesi normative tale osservanza venga meno, sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi».
La predetta ha, infine, aggiunto che il principio di legalità penale, consacrato all’art. 25, comma 2, Cost., nei suoi corollari di determinatezza e non retroattività, costituisce “un principio supremo dell’ordinamento”: pertanto, se l’art. 325 TFUE, così come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria nel caso Taricco, «comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria» a un tale principio, essa avrebbe il dovere di impedirlo[32].
La Consulta, dunque, ribadendo il carattere “sostanziale” della prescrizione, in linea con pronunce risalenti, ne ha riaffermato la riconduzione al principio di stretta legalità penale, evidenziando che la portata del principio de quo non deve, peraltro, essere circoscritta alla sola formulazione delle fattispecie incriminatrici e delle pene, attenendo, invece, a tutto ciò che incide sulla punibilità.
Essa ha, di conseguenza, ritenuto di non poter in alcun modo condividere le osservazioni dei giudici comunitari poiché contrastanti con uno dei principi supremi dell’ordinamento giuridico: attraverso la disapplicazione della disciplina interna, rimessa, peraltro, alla discrezionalità del giudice nazionale, si finirebbe per consentire l’applicazione retroattiva di norme più sfavorevoli agli indagati/imputati dei reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, non avendo avuto questi nemmeno la possibilità di prevedere ragionevolmente le conseguenze penali derivanti dalla loro condotta. A ciò, inoltre, si aggiunga che rimettere al giudice interno la valutazione in ordine alla possibilità di disapplicare la normativa interna, selezionando le fattispecie di “gravi frodi” (menzionate dai giudici comunitari), è da considerare alquanto stridente con il principio di determinatezza, corollario essenziale del principio di legalità penale.
Tuttavia, dopo aver dettagliatamente illustrato il proprio punto di vista ed evidenziato i punti critici del ragionamento seguito in sede sovranazionale, la Corte costituzionale ha preferito convincere la Corte di Giustizia a fare, da sola, un passo indietro, evitando il ricorso ai “controlimiti”.
Ha ritenuto opportuno, infatti, sollevare in veste di “giudice nazionale” (tra l’altro per la prima volta in materia penale) una questione pregiudiziale: l’intenzione era quella di sollecitare un chiarimento dei giudici di Lussemburgo sull’interpretazione dell’art. 325 TFUE, individuato quale fonte dell’obbligo per i giudici nazionali di disapplicare la disciplina della prescrizione rispetto ai reati in materia di IVA. È previsto, infatti, che gli Stati aderenti debbano lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione, attraverso la predisposizione di misure “sufficientemente dissuasive ed effettive”.
La forma scelta dalla Consulta non deve, però, ingannare: si è, infatti, dinanzi ad una “richiesta ben argomentata”, rivolta alla Corte di Giustizia, di mutare opinione[33].
Non è mancato, tuttavia, a dimostrazione di lealtà verso l’Unione e a tutela dei suoi interessi finanziari, un richiamo al legislatore affinché si attivi per evitare che la disciplina interna della prescrizione possa ostacolare il perseguimento delle frodi finanziarie che ledano gli interessi economici dell’Unione[34]; ed infatti, un monito analogo si rinviene anche nella successiva sentenza di questa “saga Taricco”.
Il riferimento è alla pronuncia del 5 dicembre 2017 della Corte di giustizia, denominata per semplicità “Taricco-bis”, che ha rappresentato, si può dire, una sorta di “compromesso” tra le posizioni delle due Corti: se da un lato viene ribadita l’interpretazione dell’art. 325 TFUE data dalla Corte di Lussemburgo nella precedente sentenza del 2015, dall’altro viene accolta la tesi della Consulta in relazione ad un possibile contrasto tra quell’interpretazione e il principio di legalità in materia penale.
Si precisa, per l’appunto, che la prima sentenza della Corte di Giustizia non produce effetti per il passato, e cioè in relazione ai reati la cui consumazione sia precedente alla sua emanazione; tuttavia, al contempo, la Corte prospetta una diversa soluzione per il futuro, cioè per quei reati la cui consumazione intervenga successivamente alla pronuncia.
È questa la conseguenza più importante della “Taricco-bis”: il primo provvedimento si riferiva, implicitamente, anche ai reati commessi in epoca anteriore (altrimenti, la questione pregiudiziale, posta dalla Consulta, si sarebbe dovuta dichiarare priva di rilevanza e, quindi, non esaminabile nel merito); da qui, in via interpretativa, si era ricavata la sua applicabilità ai reati anteriormente commessi, con l’esclusione peraltro di quelli già prescritti, come precisato nella stessa sentenza. Ora, dunque, ogni dubbio sulla irretroattività è stato eliminato[35].
Confrontando i dispositivi delle due sentenze, risulta immediatamente evidente l’aggiunta fatta dalla Corte di Giustizia, la quale, dopo aver ribadito la precedente interpretazione dell’art. 325, ha affermato che la necessità di dare attuazione alla norma non possa determinare la disapplicazione del diritto interno (effetto conseguente al primato del diritto europeo), laddove si «comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene». Nella precedente sentenza, invece, era richiesto che fosse il giudice nazionale a disapplicare le norme interne sulla prescrizione, soltanto “all’occorrenza”.
L’atteggiamento prudenziale che il giudice europeo ha assunto nella prima sentenza, si discosta, dunque, non poco dal tono deciso della seconda, con cui si impone al giudice nazionale di disapplicare le norme interne sulla prescrizione contrastanti con l’art. 325 TFUE, solo nel pieno rispetto del principio di legalità[36]
Tuttavia, demandando lo scrutinio di compatibilità della regula iuris con il principio di determinatezza al giudice nazionale, la Corte di Giustizia non soltanto ha eluso il confronto con la Corte Costituzionale ma, al tempo stesso, persevera nell’intessere un “dialogo diretto” con i giudici nazionali, demandando loro un controllo diffuso di costituzionalità, assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento[37].
Il principio di legalità, preso in scarsa considerazione dalla prima sentenza Taricco, viene analiticamente esaminato nella seconda, in quanto oggetto dei primi due quesiti posti dalla Consulta nella ordinanza del 26 gennaio 2017, n.24.
La Corte di Giustizia, infatti, se da un lato ha riconosciuto le ragioni che hanno spinto la Corte costituzionale ad effettuare il rinvio, avendo quest’ultima ravvisato un vulnus del principio di legalità penale e dei suoi corollari, dall’altro non ha mancato di precisare l’importanza del medesimo principio anche nel diritto dell’Unione, richiamando l’art. 49 e 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e l’art. 7 CEDU. Pertanto, sottolineando che il predetto trova tutela anche nel diritto comunitario, si è fatto venire automaticamente meno il problema dei “controlimiti”[38], tanto osannati nelle principali critiche alla prima sentenza della “saga Taricco” (e mai espressamente menzionati dalla Consulta).
I giudici di Lussemburgo, semplicemente, hanno dovuto prendere atto della diversità del diritto italiano per ciò che concerne la natura sostanziale della prescrizione dei reati. Tale “anomalia italiana” ha trovato, però, giustificazione solo «alla data dei fatti di cui al procedimento principale», poiché quando è stata emessa la prima sentenza, tale settore non era ancora oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione.
Infatti, la tutela degli interessi finanziari dell’Unione, ex art. 325 TFUE, rientrerebbe nei casi di competenza concorrente, la quale, però, non si sarebbe ancora estesa, almeno fino all’adozione della direttiva del 5 luglio 2017 (che dovrà essere attuata entro il 2019), alla disciplina della prescrizione del reato, restando questa, di conseguenza, nella libera determinazione dello Stato italiano. La Corte, pertanto, ha accolto solo in parte le osservazioni dei giudici italiani, condividendo l’assenza di norme europee in materia (fino all’attuazione della direttiva), ma non l’inesistenza della competenza.
Attraverso la c.d. Taricco-bis, si è precisato, pertanto, che la libertà relativa alla disciplina della prescrizione, pacificamente accettata per il passato, non potrà rimanere tale, in ragione dell’entrata in vigore di un provvedimento comunitario finalizzato proprio ad armonizzare la disciplina dell’istituto[39]. Dall’analisi del contenuto della direttiva, è evidente il discrimen che intercorre tra disciplina interna e sovranazionale: il legislatore europeo, infatti, considera la prescrizione come un istituto di natura esclusivamente processuale e non anche causa di estinzione del reato. A riprova di ciò, rileva la considerazione del termine di prescrizione quale tempo «che consenta di condurre le indagini, esercitare l’azione penale, svolgere il processo e prendere la decisione giudiziaria in merito ai reati». Inoltre, deve rilevarsi che i termini di prescrizione previsti sono decisamente più brevi di quelli stabiliti dal diritto italiano.
Il recepimento della direttiva, di conseguenza, richiederà la revisione dell’istituto, almeno nell’ipotesi in cui si faccia riferimento a reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione.
Non vi è, però, chi non abbia considerato decisamente affrettata una simile conclusione, sottolineando che, all’art. 1 del predetto provvedimento comunitario, si fa riferimento esclusivamente all’adozione di «norme minime riguardo alla definizione di reati e sanzioni in materia di lotta contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione» e non all’istituto della prescrizione in sé[40], non potendosene, tra l’altro, desumere la natura giuridica dalla semplice lettura del testo.
Nonostante le convincenti argomentazioni, sembra che si ometta di considerare che l’uniformità di disciplina in materia di prescrizione potrebbe imporsi anche quale logica conseguenza dell’istituzione della Procura europea (E.P.P.O.)[41], a cui è stato assegnato il compito di indagare ed esercitare l’azione penale per i reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione e per quelli ad essi connessi. Nonostante sia previsto che l’azione penale venga esercitata dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, la titolarità della stessa, in capo all’organo comunitario, presuppone una disciplina della prescrizione uniforme in tutti gli Stati aderenti[42].
Tutto ciò, pertanto, porta a ritenere che in un futuro, nemmeno troppo prossimo, il legislatore sarà chiamato a compiere scelte radicali per ciò che concerne le sorti dell’istituto prescrizionale, tenendo conto anche della necessità di armonizzazione e dei “moniti” provenienti dalle sedi sovranazionali.
4. Spunti comparatistici: il sistema francese.
Alla luce dei recenti episodi avvenuti in sede comunitaria, appare ormai improrogabile un’accurata revisione dell’istituto della prescrizione, iniziando a prenderne seriamente in considerazione anche i riflessi processuali. L’analisi comparatistica, in questo senso, può rivelarsi particolarmente feconda.
In particolar modo, gli ordinamenti giuridici ricompresi nell’area di civil law presentano caratteri comuni in ordine alla disciplina della causa estintiva de qua, quantomeno per ciò che concerne il fondamento e la funzione. Tuttavia, bisogna precisare come (ad eccezione della Grecia) la disciplina nostrana rappresenti un unicum nel panorama europeo: una volta che prende avvio l’iter procedimentale, infatti, il decorso della prescrizione continua, non avendo alcun effetto interruttivo gli atti compiuti durante lo stesso. Inoltre, ai fini della determinazione del tempo necessario per l’estinzione del reato, si fa riferimento quale dies a quo, al giorno in cui è avvenuta la consumazione. Le estensioni dei tempi prescrizionali sono, inoltre, piuttosto limitate, dal momento che in nessun caso le interruzioni possono comportare l’aumento in misura superiore al quarto del tempo necessario a prescrivere (tranne nelle ipotesi di recidiva o di delinquenza abituale o professionale per cui viene previsto, rispettivamente, un aumento dei due terzi e del doppio).
In Francia la regolamentazione degli effetti susseguenti al decorso del tempo è affidata al binomio “prescrizione dell’azione pubblica” e “prescrizione della pena”: la distinzione tra i due meccanismi risiede nel fatto che sia o meno intervenuta la condanna giudiziale.
Inoltre, mentre la disciplina della prescrizione dell’azione viene collocata nel Code de procédure pénal (art. 6 e ss.), l’istituto della prescrizione della pena si trova nel Code pénal agli art. 133 e seguenti.
Fatta eccezione per particolari tipologie di fattispecie penalmente rilevanti per cui l’azione penale non si prescrive o si estingue in termini derogatori, le previsioni generali degli artt. 7 e seguenti del code de procédure pénal contemplano termini prescrizionali differenziati in ragione della gravità del reato. Così, per quanto concerne i crimini, l’azione pubblica si prescrive trascorsi dieci anni dal giorno di commissione del fatto, a condizione, però, che nel frattempo non sia stato compiuto alcun atto istruttorio o di accusa; una regola diversa, tuttavia, è prevista nell’ipotesi in cui si tratti di crimini commessi a danno di minori poiché, in tali casi, il termine di prescrizione è elevato a vent’anni e, per l’individuazione del dies a quo, si fa riferimento al raggiungimento della maggiore età della persona offesa.
Rispetto a tale regime fanno eccezione i crimini contro l’umanità, per i quali è stabilito che l’azione penale sia imprescrittibile.
In materia di delitti, invece, è contemplato un termine di prescrizione di tre anni (salvo che si tratti di delitti commessi a danno di minori poiché, in tal caso, il termine prescrizionale è di dieci anni e inizia a decorrere nel momento in cui la persona offesa diventa maggiorenne); infine, le contravvenzioni si prescrivono nel termine di un anno.
Ai fini di una completa comprensione dell’operatività della prescrizione dell’azione pubblica in Francia è, però, di maggiore rilievo soffermarsi sul regime della sua interruzione. L’effetto interruttivo, infatti, è ricollegato ad ogni atto procedimentale e non è previsto alcun limite all’allungamento del termine prescrizionale, benché soggetto alla prima o all’ennesima interruzione. Appare, pertanto, fondata quella considerazione dottrinale che evoca una sorta di «sostanziale imprescrittibilità dell’azione penale», una volta avviato il procedimento e tale effetto, inoltre, è rafforzato dalla disciplina in tema di sospensione e dalle applicazioni giurisprudenziali che si orientano in senso estensivo[43].
Ciò che colpisce, non poco, il giurista italiano è, però, la circostanza che gli atti processuali dotati di efficacia interruttiva non siano individuati in modo tassativo, essendo, invece, sostanzialmente atipici[44].
La configurazione dell’istituto, se appare confacente all’esigenza di permettere un’estinzione extraprocessuale in tempi relativamente contenuti, quantomeno rispetto a quelli della legislazione italiana, e di limitare al minimo le prescrizioni in relazione ad un procedimento già avviato, non sembra funzionale, tuttavia, al contenimento dei tempi del processo entro termini ragionevoli.
Non è così remoto, infatti, il rischio che l’imputato rimanga sine die nella sua condizione. Al fine di scongiurare ciò, tuttavia, sono stati elaborati vari espedienti.
Sul piano normativo, si segnala la l. n. 516/2000 che inserisce nel codice di rito un article préliminaire, cui si deve l’espressa enunciazione, tra i principi cardine del processo équitable, dell’obbligo di emissione di una statuizione definitiva sull’accusa dans un délai raisonnable. L’attuazione del principio viene demandata, inoltre, ad istituti quali il c.d. juge unique e ad organi di nuova introduzione, come la c.d. jurisdiction de proximité, competente a decidere sui reati di minore gravità. Alle riforme ordinamentali si affiancano gli strumenti della mediazione, della conciliazione penale e le innovazioni in materia di riti speciali. Più recentemente, il legislatore d’oltralpe ha definito i c.d. délais boutoir per le varie fasi del processo, assicurandone l’effettività attraverso un meccanismo sanzionatorio[45].
Per quanto riguarda, invece, la prescrizione delle pene, il codice la colloca tra le cause di estinzione della pena e dell’efficacia delle condanne (oltre al decesso del condannato, allo scioglimento della persona giuridica, alla grazia, all’amnistia, e alla riabilitazione). Al pari di quanto previsto per la prescrizione dell’azione pubblica, tale meccanismo prescrittivo è modellato sulla base della tripartizione del reato in crimini, delitti e contravvenzioni. I primi si prescrivono una volta che siano decorsi vent’anni dal momento in cui è divenuta definitiva la decisione di condanna (ad eccezione dei crimini contro l’umanità, essendo qui le pene imprescrittibili). Le pene comminate per un delitto si prescrivono, invece, una volta che siano trascorsi cinque anni dal momento in cui è divenuta definitiva la sentenza di condanna, mentre, nel caso di contravvenzioni, vi è un termine più breve di due anni.
5. Considerazioni conclusive.
Gli scenari in precedenza descritti, senza alcuna pretesa di completezza, conducono inevitabilmente ad interrogarsi sulle future sorti dell’istituto prescrizionale. In particolare, risulta ormai improrogabile l’attribuzione di un’essenza anche processuale al predetto, in considerazione, soprattutto, delle strette relazioni che intercorrono tra questo e l’intero procedimento penale: a tal fine, è necessario procedere ad una riforma parallela e coordinata, che ne coinvolga al tempo stesso profili sostanziali e processuali (come, d’altronde, già brillantemente intuito dalle due commissioni ministeriali Riccio e Pisapia).
Uno degli aspetti più problematici concerne, senza dubbio, il rapporto tra la prescrizione e il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., dato che questa non può essere considerata un’efficace sanzione processuale da comminare nel caso di mancato rispetto dei limiti temporali previsti per l’iter procedimentale; inoltre, particolare attenzione deve essere prestata agli istituti dell’interruzione e sospensione, le quali intervengono, per l’appunto, durante l’accertamento dei fatti penalmente rilevanti e questo sembra, almeno in parte, averlo intuito il legislatore della riforma del 2017.
Si aggiunga, infine, che l’istituzione dell’EPPO e l’esigenza di armonizzazione, almeno in relazione ai reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (oggetto della precedentemente menzionata direttiva del 2017) rendono, probabilmente per la prima volta, concreto ed attuale il problema: come potrebbero esserci prescrizioni di natura diversa, in un medesimo ordinamento, a seconda dei reati che vengono in rilievo nella vicenda in esame?
Posto che sono pacificamente consentite limitazioni di sovranità per finalità di armonizzazione – come più volte ribadito dalla stessa Consulta –, bisognerà valutare fino a che punto il legislatore italiano sia, però, disposto effettivamente a modificare uno degli istituti più risalenti nel tempo, consentendo l’ingresso della “prescrizione processuale” accanto a quella sostanziale; del resto, questa soluzione, ad avviso di chi scrive, non sarebbe nemmeno poi così particolarmente innovativa, laddove si consideri ciò che avviene in altri sistemi europei appartenenti alla medesima famiglia di civil law. Ed infatti, proprio il sistema francese mostra come sia possibile la presenza contemporanea di “due volti” dello stesso istituto.
Ovviamente, i problemi che potrebbe suscitare l’introduzione della prescrizione processuale non sono di poco conto ma, sulla base di un giudizio meramente prognostico, questi non saranno più differibili a lungo. Laddove, tuttavia, si voglia salvaguardare l’“originalità italiana” della predetta causa di estinzione del reato, come autorevolmente sostenuto, potrebbe farsi ricorso ai “controlimiti”, con l’ovvia conseguenza, però, di arrestare il processo d’integrazione europeo.
Il presente contributo si inserisce nell'ambito del progetto di ricerca "L'efficienza della giustizia in una prospettiva comparata: i costi possibili di un'equa giurisdizione", coordinato dal Prof. Gaspare Dalia.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Per ulteriori approfondimenti si rinvia a C. MARINELLI, Ragionevole durata e prescrizione del processo penale, Torino, 2017, Introduzione.
[2] Vi è chi reputa del tutto errata l’equazione “durata ragionevole-durata predeterminata” considerato che, la ragionevolezza, è un valore da apprezzarsi caso per caso, con riferimento a concrete situazioni processuali quando si siano concluse ovvero quando abbiano fatto registrare un protrarsi incompatibile pure con la complessità dell’accertamento o in ogni caso viziato da ritardi che non trovano giustificazione in esigenze processuali. Al contrario, la predeterminazione presuppone una scelta generale e astratta, da applicarsi a qualsiasi procedimento sicché, qualsiasi determinazione della durata in ordine alla tipologia dei reati o alla pena edittale, rischia di vanificare il principio costituzionale.
[3] B. NACAR, I termini e la ragionevole durata del processo, Torino, 2012, p. 126 ss.
[4] Infatti, attualmente, i procedimenti penali che si concludono con un provvedimento di archiviazione perché il reato si è estinto per intervenuta prescrizione o con sentenza di non doversi procedere ex art. 531 c.p.p., sono decisamente numerosi.
[5]B. NACAR, cit, p. 129 ss.
[6]B. NACAR, cit., p. 131.
[7] Corte eur., 29 marzo 2011, Alika c. Italia. Considerato che, nel caso di specie, i ricorrenti erano i familiari di una persona uccisa, per colpa, da un agente di polizia giudiziaria nel corso di un inseguimento, la Corte ha ritenuto che la previsione della prescrizione del reato laddove si procede per un fatto commesso contro la vita e da un agente dello Stato, sia da considerare tra i rimedi “inammissibili” poiché impedisce l’esecuzione di una sentenza di condanna, sebbene vi sia stato un accertamento di responsabilità nei confronti dell’accusato. Insomma, dalla motivazione della sentenza, emerge che la celere durata del procedimento serve ad evitare la prescrizione del reato, sicché, agli occhi della Corte EDU non dovrebbe considerarsi lecito il ricorso alla prescrizione processuale, quale rimedio per realizzare la ragionevole durata del processo. Ciò non vuol dire che i giudici di Strasburgo non tollerino istituti che estinguono la punibilità in astratto, quanto piuttosto la loro applicazione in concreto se da essa deriva una compromissione dei diritti delle vittime.
[8] La Commissione presieduta da A. Pagliaro, è stata istituita con decreto ministeriale dell’8 febbraio del 1988, emanato dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia Vassalli; la predetta ha presentato lo schema di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale il 25 ottobre 1991.
[9] Cfr. C. F. GROSSO, Per un nuovo codice penale. Relazione della Commissione Grosso (1999), Padova, 2000.
[10] Relazione al progetto Grosso, in www.giustizia.it, p. 3 ss.
[11] C. NORDIO, Codice penale con più chiarezza e meno reati “rivisitato” nel solco di precedenti progetti, in Guida al diritto, n.39/2005, p. 13.
[12] Come nel caso della proposizione di querela, richiesta, istanza oppure dell’esperimento dell’interrogatorio dinanzi alla polizia giudiziaria.
[13] Nella relazione redatta dalla Commissione Pisapia, emerge l’auspicio di un ritorno al passato attraverso la previsione di termini prescrizionali “per classi (numericamente ridotte) di fattispecie (…) e non sulla base della pena massima prevista per il singolo reato”.
[14] G. RICCIO, Nota di commento tecnico, pubblicata in seguito alla presentazione della bozza del disegno di legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale e della relazione di accompagnamento, in cui si evince che «la sintesi del rapporto garanzie-tempo affida un ruolo centrale alla prescrizione, nodo essenziale per razionalizzare tempi e comportamenti processuali. Su questo fronte bisogna prendere atto che la previsione di natura sostanziale è ineliminabile quale norma di garanzia per l’individuo; epperò la manifesta volontà dello Stato di perseguire quel fatto per la tutela della collettività annulla la garanzia – qualunque ne sia il fondamento – ed attira l’organizzazione dei tempi del processo».
[15] Relazione di accompagnamento alla bozza del Disegno di legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, in www.giustizia.it, 2007, p. 29.
[16]S. ZIRULIA, Riforma orlando: la nuova prescrizione e le altre modifiche al codice penale, in Dir. pen. con., fasc. 6/2017, p. 243.
[17] F. VIGANO’, La nuova disciplina della prescrizione del reato: la montagna partorì un topolino?, in Dir. pen. proc., vol. 10/2017, p. 1292.
[18] S. ZIRULIA, cit., p. 245.
[19] S. ZIRULIA, cit., p. 246.
[20] Cass., Sez. Unite, 11 luglio 2001, n. 33543, Brembati, CED 219222.
[21] Si tratta, evidentemente, di una previsione “in bonam partem”, giacché per i concorrenti del reato non imputati nel procedimento ove si verifica una causa di sospensione di cui all’art.159 c.p., il termine di prescrizione continua a decorrere normalmente.
[22] Cfr. da ultimo la nota ordinanza della Corte Cost. n. 24/2017 relativa al "caso Taricco".
[23] S. ZIRULIA, cit., p. 247.
[24] C. Cost. n. 393/2006, n. 6.3 del considerato in diritto; C. Cost. n. 72/2008, n. 12; C. Cost. n. 236/2011, nn. 10, 11.
[25] Si veda per ulteriori approfondimenti G. DALIA, La successione delle leggi penali nel tempo: irretroattività e ultrattività della lex mitior. Il problema dell’overruling e la casistica più attuale, in SANTISE – ZUNICA, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, Torino, 2017, p. 96 e ss, secondo cui il principio di retroattività della legge più favorevole, a differenza di quello di irretroattività, non ha trovato copertura a livello costituzionale nella disposizione di cui all’art. 25, co.2, Cost. Oltre che all’art. 7 CEDU, il principio de quo ha, tuttavia, trovato consacrazione da parte della giurisprudenza costituzionale in quanto considerato quale proiezione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. In relazione alla portata del principio di retroattività/ultrattività della lex mitior nell’interpretazione della Corte EDU, è intervenuta, da ultimo, una sentenza della Consulta, in cui viene affrontato lo specifico tema della prescrizione (Scoppola c. Italia). Alla luce delle fonti sovranazionali ed europee, la Corte, per la prima volta, ha affermato il principio dell’applicazione retroattiva della lex mitior come corollario implicito dell’art. 7 CEDU.
[26] S. ZIRULIA, cit., p. 248.
[27] F. VIGANO’, cit., p. 1296.
[28] Corte di Giustizia UE, 8 settembre 2015, Taricco, C-105/14.
[29] Corte App. Milano, ordinanza 18 settembre 2015, n. 6421.
[30] Corte Cass., III sez., ordinanza 30 marzo 2016, n. 28346.
[31] Corte Cost., 1 18 dicembre 1973, n. 183. La creazione del concetto di “controlimiti” ha impresso una decisa svolta all’evoluzione del diritto europeo, il quale, sino a quel momento, non si era rivelato sufficientemente rispettoso dei diritti fondamentali. I predetti, pertanto, sono stati evocati come una “minaccia” in quanto, sino a quando il diritto comunitario non avesse garantito ai diritti fondamentali la stella tutelala riconosciuta a livello costituzionale interno, la Consulta si sarebbe riservata un controllo di compatibilità dello stesso con l’ordinamento italiano. Tale mossa si è rivelata particolarmente efficace dal momento che la Corte di Lussemburgo, preoccupata di vedere intaccate la primazia e l’unitarietà del diritto europeo, si è assunta il sindacato sulla conformità della normativa comunitaria a quei diritti, provvedendo a costruirli come “princìpi generali del diritto comunitario, ispirandosi a tal fine alle “tradizioni costituzionali comuni” e poi anche ai princìpi CEDU. Si è giunti, così, ad uno stabile equilibrio, favorito dagli artt. 4.2 e 6.3 TUE, attraverso cui l’Unione si impegna, per un verso, a garantire il rispetto dell’“identità della struttura costituzionale” degli Stati membri e, per l’altro, a ricomprendere i diritti fondamentali “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” tra i “princìpi generali” del diritto eurounitario.
[32] R. E. KOSTORIS, La Corte costituzionale e il caso Taricco, tra tutela dei “controlimiti” e scontro tra paradigmi, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2017, p. 6.
[33] Si è in presenza, dunque, di un ultimatum, che la Corte ha cercato di supportare con una serie di precisazioni. In particolare, dopo aver premesso che le scelte nazionali, in ordine alla natura della prescrizione, non rientrano nelle competenze dell’Unione e che, non essendovi alcuna esigenza di uniformità al riguardo, ogni Stato membro non deve rinunciare alle proprie disposizioni maggiormente favorevoli per l’imputato rispetto a quelle garantite dagli artt. 49 Carta di Nizza e 7 CEDU, la Corte costituzionale ha ribadito che in Italia la prescrizione ha natura sostanziale e deve essere conseguentemente conforme al principio di legalità penale; per tale ragione, l’obbligo di disapplicare la disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 161, ultimo comma, e 162, co. 2, c.p., enunciato dalla Corte di giustizia nel caso Taricco, si pone in palese contrasto con quel principio. Infatti, si violerebbero i requisiti della ragionevole prevedibilità, della riserva di legge e della sufficiente determinatezza consacrati all’art. 25, co. 2, Cost. La Corte,inoltre, ha osservato che il giudice non può essere chiamato a compiere valutazioni discrezionali di politica criminale, come ha preteso di fare la sentenza Taricco nel sostenere che egli dovrebbe disapplicare la disciplina nazionale della prescrizione quando ritenga che essa, non assicurando la punibilità in un “numero rilevante di casi”, renderebbe la repressione dei reati lesivi degli interessi dell’Unione non “sufficientemente effettiva e dissuasiva”. Di conseguenza, la Consulta ha formulato il quesito se una tale regola debba trovare applicazione anche quando essa sia confliggente con un principio cardine dell’ordinamento italiano.
[34] R. E. KOSTORIS, cit., p.10.
[35] È interessante osservare che l’irretroattività viene espressamente riferita, dalla Corte di Lussemburgo, alla sentenza Taricco, quando, invece, si sarebbe dovuto considerare esclusivamente la disposizione della cui applicabilità si stava discutendo, ossia l’art. 325 del Trattato di Lisbona. La scelta di ancorare la retroattività, non ad una disposizione normativa, ma ad un provvedimento giurisdizionale, costituisce un chiaro riconoscimento della funzione non meramente cognitiva della giurisprudenza (almeno di quella della Corte di Giustizia) ed un elemento a supporto della tesi sulla creatività (seppur limitata) della stessa.
[36] Con la decisione del 10 aprile 2018, la Corte Costituzionale ha, peraltro, ribadito che i giudici italiani non sono tenuti ad applicare la “regola Taricco” sul calcolo della prescrizione, stabilita dalla Corte di Giustizia Ue con la sentenza dell’8 settembre 2015 per i reati in materia di Iva. Pertanto, continueranno ad applicarsi gli artt. 160, ultimo comma, e 161 c.p. Infatti, con la sentenza c.d. Taricco bis del 5 dicembre 2017, la Corte di Lussemburgo ha chiarito che l’articolo 325 TFUE (come interpretato dalla stessa nel 2015) non è applicabile né ai fatti anteriori all’8 settembre 2015 né quando il giudice nazionale ravvisi un contrasto con il principio di legalità in materia penale.
[37] Così G. RICCARDI, La Corte di Giustizia tra “dialogo” e “monologo” nella “saga Taricco”: silenzi, fraintendimenti e surrettizie appropriazioni di competenze penali dirette, Dir. pen. cont., 2018, p. 8.
[38] Per un approfondimento relativo alle critiche, e più in generale, al dibattito originato dalla prima sentenza Taricco, si rinvia a I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali (Atti del convengo di Ferrara del 7-8 aprile 2016), a cura di A. Bernardi, Jovene, 2017.
[39] E. LUPO, cit., p. 112
[40] Si veda G. RICCARDI, cit., p.10. L’A. sostiene, altresì, che la direttiva comunitaria assuma un atteggiamento “agnostico” riguardo alla natura giuridica della prescrizione poiché non si prende in considerazione l’oggetto dell’estinzione (fatto o procedimento penale) né eventuali cause di sospensione legate all’esercizio dell’azione penale.
[41] L’istituzione è avvenuta con regolamento n. 2017/1939 del 22 ottobre 2017, entrato in vigore il successivo 20 novembre. Per una maggiore comprensione dei nuovi sviluppi processuali a livello comunitario, si veda DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 2018.
[42] Per ulteriori approfondimenti si rinvia a E. LUPO, cit., p. 119.
[43] M. L. RASSAT, Traité de proédure pénale, Paris, 2001, p. 487.
[44] P. BARTOLO, voce Prescrizione del reato, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIV, Roma, 2006, p.2.
[45] C. MARINELLI, cit., p.381 ss.