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Pubbl. Mer, 18 Apr 2018

La tutela giurisdizionale del marchio non registrato

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Ilaria Mola


Il marchio di fatto è proprietà industriale e le relative controversie rientrano nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa (Cass., Sez. VI Civ., ord. 12 febbraio 2018, n. 3399)


Sommario: 1. Premessa; 2. Il marchio di fatto nel codice della proprietà industriale; 3. Conclusioni

1. Premessa

La Sezione Sesta Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 3399 del 12 febbraio 2018[1], ha affermato che il marchio di fatto, anche se specificamente disciplinato con riferimento alla rilevanza del preuso, gode di una tutela giurisdizionale non diversa da quella del marchio registrato e le relative controversie rientrano, pertanto, nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa.

Come si precisa nella pronuncia in commento, la formulazione generalissima dell’art. 1 c.p.i.[2], che nell’espressione “proprietà industriale”[3] ricomprende “marchi ed altri segni distintivi”, consente di estendere la tutela ai marchi di fatto. Ancor più espressamente, l’art. 2 c.p.i. stabilisce che sono protetti “i segni distintivi diversi dal marchio registrato”, ricorrendone i presupposti di legge[4]. Ne consegue che anche le controversie relative ai marchi non registrati devono essere attribuite alle sezioni specializzate in materia di impresa[5], ai sensi dell’art. 134 c.p.i. competenti per i procedimenti in materia di proprietà industriale e concorrenza sleale, “con esclusione delle sole fattispecie che non interferiscono, neppure indirettamente, con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale”[6].

Conviene chiarire che la “non interferenza”, criterio attributivo della competenza ex art. 134 c.p.i., deve essere valutata in modo restrittivo e va affermata nei soli casi in cui, in base alle prospettazioni o alle difese delle parti, non risulti esserci alcuna sovrapposizione tra la fattispecie legale concorrenziale dedotta in giudizio e l’eventuale pretesa di diritti esclusivi[7]. In sostanza, l’interferenza ci sarà ogni volta che la domanda di concorrenza sleale sia accessoria a quella di tutela della proprietà industriale ed altresì qualora debba per forza verificarsi se sia pregiudicato un diritto di esclusiva[8]: sono, ad esempio, le ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile o appropriazione di pregi[9]. Restano, invece, attribuite alla cognizione del giudice ordinario le fattispecie di concorrenza sleale c.d. pura, vale a dire quei casi in cui la denunciata condotta non richieda nemmeno indirettamente l’accertamento dell’esistenza di un diritto di privativa[10].

Dunque, il marchio non registrato può trovare tutela nel codice della proprietà industriale, che appresta garanzie reali rinforzate da uno speciale assetto processuale e sanzionatorio. C’è, tuttavia, da domandarsi in quale misura la mancanza di formalità possa incidere sulle concrete chances di difendere efficacemente l’esclusiva.

2. Il marchio di fatto nel codice della proprietà industriale

Valga qui come premessa che, ai sensi dell’art. 2569 comma 1 c.c., chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio, dotato di originalità e capacità distintiva, ha “diritto di valersene in modo esclusivo” per contrassegnare i prodotti o servizi in relazione ai quali la registrazione è stata effettuata. Per le ipotesi di mancanza di registrazione, il comma 2 della norma rinvia all’art. 2571 c.c., in base al quale chi ha fatto uso di marchio non registrato ha la “facoltà di continuare ad usarne”, nei limiti del preuso, nonostante la registrazione da altri successivamente ottenuta.

Con riferimento alla disciplina tipica della proprietà industriale, l’art. 15 c.p.i. stabilisce che “i diritti esclusivi (…) sono conferiti con la registrazione”. E anche l’art. 20 c.p.i. sembra garantire soltanto al titolare di marchio registrato “l’uso esclusivo”, con “diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso”, di usare un segno identico o simile per prodotti uguali o affini, oppure anche non affini se contrassegnati da marchio celebre[11].

Secondo l’opinione per la quale l’utente di fatto non disporrebbe di un diritto esclusivo pari a quello sul marchio registrato[12], la protezione potrebbe soltanto essere indiretta in funzione della tutela dell’attività d’impresa[13] ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c., a fronte di atti di concorrenza sleale per uso confusorio di segno distintivo uguale o simile[14]. Nelle ipotesi di violazione di marchio registrato, invece, il titolare potrà esperire la speciale azione di contraffazione: ai fini della tutela, basterebbe il mero fatto dell’illecita adozione del segno, a prescindere da una relazione di concorrenza[15].

Ad ogni modo, al marchio di fatto possono senz’altro estendersi le norme del codice della proprietà industriale che non prevedono la registrazione come presupposto applicativo espresso, facendo invece riferimento generico ai diritti di proprietà industriale: in sintesi, le disposizioni sulla giurisdizione e sulla competenza, la tutela cautelare speciale e le sanzioni tipiche. Perciò, oltre alla tutela ex artt. 2598, 2599 e 2600 c.c., saranno applicabili anche in via cautelare le misure della descrizione e sequestro (artt. 129 e 130 c.p.i.) e dell’inibitoria (art. 131 c.p.i.), nonché gli strumenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. Il titolare di marchio di fatto potrà poi ottenere la dichiarazione di nullità del marchio posteriore (art. 122 c.p.i.), l’ordine di ritiro dal commercio e gli altri provvedimenti sanzionatori speciali (artt. da 124 a 127 c.p.i.).

Ciò detto, l’art. 12 comma 1 c.p.i.[16] afferma che “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che alla data del deposito della domanda siano identici o simili ad altro segno già noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione”. In particolare, “si considera noto il marchio che ai sensi dell’art. 6bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale (…) sia notoriamente conosciuto presso il pubblico interessato”, anche in forza della notorietà acquisita nello Stato attraverso l’attività promozionale. Invece, “l’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell’uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei limiti della diffusione locale”, nonostante la registrazione successiva altrui.

Per quanto concerne la rilevanza giuridica del preuso, elemento costitutivo del diritto sul marchio di fatto[17], la giurisprudenza sostiene che l’uso deve essere “ampio, costante ed esteso a tutto il territorio nazionale”[18]. Invero, “la tutela del marchio non registrato (…) trova fondamento nella funzione distintiva che esso assolve in concreto, per effetto della notorietà presso il pubblico, e pertanto presuppone la sua utilizzazione effettiva”[19].

Dunque, questo significa che soltanto il preuso di un marchio di fatto con notorietà generale comporta tanto il diritto all’uso esclusivo del segno distintivo da parte del preutente, quanto l’invalidità del marchio successivamente registrato ad opera di terzi, “venendo in tal caso a mancare (…) il carattere della novità, che costituisce condizione per ottenere validamente la registrazione”[20]. Al contrario, il preuso locale di un marchio di fatto attribuisce al preutente la facoltà di continuare ad usarlo nel medesimo ambito territoriale, ma non anche il diritto di vietare al successivo registrante l’utilizzazione dello stesso marchio[21].

Sul piano processuale, può risultare poco agevole la prova del preuso, non soccorrendo alcuna presunzione di valida costituzione del marchio non registrato[22]. Invero, è il preteso titolare che deve dimostrare la validità del segno[23], provando di averne fatto un uso attuale, effettivo ed ininterrotto[24]. E provare l’uso del segno non basta, essendo peraltro necessario dimostrarne la notorietà sul mercato, vale a dire la forza distintiva ed attrattiva[25]: in particolare, la giurisprudenza prevalente richiede una diffusione ultralocale degli affari, tale da far presumere la conoscenza del marchio da una porzione non trascurabile di consumatori[26].

Il riscontro del preuso e della notorietà generale potrà essere fornito mediante testimonianze[27], documenti (soprattutto fatture[28], ma anche cataloghi e listini[29], pubblicità su riviste non locali, fotografie, spot televisivi e ricerche di mercato[30]), presunzioni[31]. Occorrerà insomma determinare chiaramente, attraverso qualsiasi mezzo, la collocazione temporale e territoriale dell’uso di fatto. Se tale certezza non dovesse essere raggiunta, il dubbio si risolverà a svantaggio del preteso titolare.

3. Conclusioni

Volendo tirare le somme, anche il marchio di fatto costituisce “proprietà industriale”[32]. La registrazione non è d’altronde obbligatoriamente richiesta dall’ordinamento, potendo l’imprenditore costituire validamente il proprio marchio attraverso l’uso fattuale del segno distintivo e magari registrarlo in un secondo momento.

L’esclusiva sul marchio di fatto resta tuttavia circoscritta al preuso e alla notorietà generale del segno, il perfezionamento dei quali deve essere dimostrato dal preteso titolare del diritto, nei termini che si sono detti. È quindi innegabile che la protezione risulti più estesa ed intensa per il marchio registrato, anche in ragione della maggiore certezza probatoria che la formalità innegabilmente conferisce.

Alla fine dei conti, un marchio non registrato può rivelarsi molto meno competitivo sul mercato, con conseguente riduzione della sua capacità di produrre reddito[33]. Non va però taciuto che ciò che induce l’imprenditore ad omettere la registrazione potrebbe essere proprio un calcolo di convenienza economica: i costi non sono irrisori. Tanto più oggi che le infinite possibilità di comunicazione e connessione – il web, i social networks, i canali dedicati – offrono una larghissima, per non dire praticamente globale, diffusione e riconoscibilità.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass., Sez. VI Civ., ord. 12/2/2018 (ud. 16/1/2018), n. 3399, Pres. Scaldaferri, Rel. Dolmetta.
[2] Codice della proprietà industriale (d. lgs. 10/2/2005, n. 30, modificato dal d. lgs. 13/8/2010, n. 131).
[3] Nell’interpretazione data da Cons. Stato, Ad. Gen., parere 25/10/2004, punto 17, il riferimento è a tutti “i diritti di proprietà aventi contenuto intellettuale, natura immateriale, nonché attitudine ad essere sfruttati industrialmente”. La previsione appare senz’altro conforme all’Accordo TRIPS (= Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights, firmato a Marrakech il 15/4/1994 e ratificato dall’Italia con l. 29/12/1994, n. 747), che impone agli Stati aderenti di garantire livelli minimi di tutela. Ma l’ampiezza della formulazione è criticata da L.C. Ubertazzi, Osservazioni preliminari sul codice della proprietà industriale, in Contratto e impresa, 2, 2004, p. 823.
[4] Il marchio di fatto deve possedere carattere distintivo e tutti i requisiti di novità, originalità e liceità richiesti per il marchio registrato: da ultimo, Cass., Sez. I Civ., 1/2/2018, n. 2499. Come scrive M.S. Spolidoro, La registrazione e il rinnovo del marchio, Torino, 1998, p. 133, “non può dar luogo ad un diritto di esclusiva l’uso di fatto di un segno distintivo che non potrebbe essere validamente registrato da chi lo impiega nella sua attività imprenditoriale”.
[5] I tribunali delle imprese, istituiti per effetto dell’art. 2 d. l. 24/1/2012, n. 1 (convertito, con modificazioni, in l. 24/3/2012, n. 27), hanno sostituito le sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale di cui al d. lgs. 27/6/2003, n. 168, competenti – tra l’altro – per le controversie aventi ad oggetto marchi (nazionali, internazionali e comunitari), nonché per le fattispecie di concorrenza sleale interferenti con i diritti di esclusiva industriale. Per un approfondimento, P. Celentano, Le sezioni specializzate in materia di impresa, in Le società, 7, 2012, p. 805.
[6] Ai sensi dell’art. 134 c.p.i., rientrano altresì nella competenza dei tribunali delle imprese le controversie in materia di illeciti afferenti all’esercizio dei diritti di proprietà industriale ai sensi della l. n. 287/1990 e degli artt. 81 e 82 del Trattato istitutivo della Comunità Europea nonché, in generale, le controversie in “materie che presentano ragioni di connessione, anche impropria, con quelle di competenza delle sezioni specializzate”.
[7] Cass., Sez. I Civ., ord. 14/6/2010, n. 14251.
[8] Così Cass., Sez. I Civ., ord. 9/4/2008, n. 9167.
[9] Ex plurimis, Trib. Napoli, 1/7/2007.
[10] Ancora Cass., Sez. I Civ., ord. 9/4/2008, n. 9167 e, similmente, Cass., Sez. I Civ., 18/5/2010, n. 12153. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Bologna, 14/5/2004.
[11] La particolare protezione del marchio celebre è giustificata in ragione della maggiore capacità attrattiva esercitata dalla rinomanza, che può facilmente spingere all’imitazione e all’appropriazione. L’associazione tra marchi può in effetti condizionare le preferenze del pubblico, tendente a ricollegare al marchio celebre un prodotto di qualità e convincendosi così all’acquisto: Cass., Sez. I Civ., 27/5/2013, n. 13090. Secondo Cass., Sez. I Civ., 21/10/1988, n. 5716, deve escludersi la configurabilità di atti di concorrenza sleale o contraffazione se il marchio celebre è utilizzato in un settore merceologico ben distinto, perché ad esempio “un consumatore di media avvedutezza percepisce immediatamente che le sigarette Mercedes non possono provenire dalla medesima fonte produttiva che fabbrica automobili”.
[12] Per tutti, V. Mangini, Il marchio e gli altri segni distintivi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1982, p. 80, che osserva “il legislatore menziona i diritti di esclusiva soltanto in relazione all’ipotesi di marchio brevettato, mentre, con riferimento al marchio di fatto e nell’eventualità di notorietà puramente locale, non va oltre il riconoscimento, a favore del preutente, della facoltà di continuare l’uso nei limiti della diffusione precedente” e pure nei casi di notorietà generale viene concessa al preutente la “facoltà di chiedere la nullità, per mancanza di novità, della registrazione concessa ad un terzo sullo stesso marchio per merci uguali o simili (…) senza che sia mai stata fatta menzione della nascita di un diritto di esclusiva”.
[13] Secondo M. Ammendola, Considerazioni sulla tutela concorrenziale del c.d. “diritto” sul marchio non registrato, in Riv. dir. ind., 1977, p. 345 ss., il marchio di fatto non avrebbe alcuna rilevanza giuridica in sé, essendo “protetto in via ‘incidentale’ alla stregua di una qualsiasi componente dell’aspetto esteriore del prodotto”.
[14] Ai sensi dell’art. 10bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, costituisce concorrenza sleale “ogni atto contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale” e devono intendersi vietati, in particolare, “tutti i fatti di natura tale da ingenerare confusione, qualunque ne sia il mezzo, con lo stabilimento, i prodotti o l’attività industriale o commerciale di un concorrente”. Atti di confusione sono cioè quelli idonei a confondere il pubblico sulle caratteristiche merceologiche dei prodotti o servizi offerti: ex plurimis, Cass., Sez. I Civ., 4/11/1998, n. 11047. Così, ricorre un’ipotesi di concorrenza sleale per confusione qualora i servizi o prodotti siano assimilabili a quelli forniti dal titolare del marchio: Trib. Roma, 2/8/1997. Ad esempio, anche l’appropriazione del marchio celebre altrui come nome a dominio rappresenta una fattispecie di concorrenza sleale, in violazione delle norme che impongono agli imprenditori la correttezza e la lealtà dei comportamenti: Trib. Viterbo, 24/1/2000; contra Trib. Cagliari, 28/2/2000, secondo cui l’uso di un rinomato marchio di fatto altrui come nome a dominio integra gli estremi della contraffazione.
[15] Così Trib. Trento, 15/1/2013, per cui “ai fini della tutela speciale (l’azione di contraffazione) sarà sufficiente l’astratta confondibilità derivante dall’affinità tra i prodotti”, mentre la concorrenza sleale richiede un “pericolo confusorio concreto”. Contrariamente, per A. Vanzetti – V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2012, p. 243, entrambe le azioni (di contraffazione e di concorrenza sleale) richiedono l’identità o l’affinità merceologica, quindi la confondibilità concreta.
[16] Pedissequamente al disposto degli artt. 9 e 17 della legge marchi.
[17] Trib. Torino, 5/11/2011: “la fattispecie costitutiva del diritto sul marchio di fatto non comprende l’invenzione o l’ideazione o la scelta del segno distintivo, ma esclusivamente l’uso”.
[18] Ex plurimis, Trib. Torino, 22/4/2016.
[19] Ne consegue che “la tutela medesima non è esperibile in rapporto a segni distintivi di un’attività d’impresa mai (o da lungo tempo non) esercitata dal preteso titolare”: Cass., Sez. I Civ., 13/5/2016, n. 9889.
[20] Cass., Sez. I Civ., 20/5/2016, n. 10519 e, analogamente, Cass., Sez. I Civ., 2/11/2015, n. 22350.
[21] Così, Cass., Sez. I Civ., 15/6/2015, n. 12326.
[22] Il marchio registrato, invece, si presume validamente esistente dalla data di deposito della domanda di registrazione ex art. 15 comma 2 c.p.i. e l’uso è soltanto condizione per il mantenimento del diritto.
[23] Tra le tante, App. Torino, 5/2/1992.
[24] Presupposto essenziale della fattispecie costitutiva del marchio di fatto è la dimostrazione della “utilizzazione concreta ed effettiva” del segno, tale da escludere il carattere della novità del marchio registrato dopo: Cass., Sez. I Civ., 1/4/1994, n. 3224. Una volta assolto tale onere, spetterà alla controparte allegare le prove dell’interruzione dell’utilizzo, in quanto l’intermedia prosecuzione si presume: Trib. Milano, 3/2/2005.
[25] Così A. Vanzetti – V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 188: “la fattispecie costitutiva del diritto consisterà nell’uso del segno”, accompagnato dal “raggiungimento della notorietà qualificata”. Per V. Mangini, Il marchio non registrato, Padova, 1964, p. 15 ss. “presupposto della tutela del marchio non registrato è l’uso effettivo (…) da cui deve risultare l’intenzione di utilizzare il segno come marchio (…) e quell’associazione ideale tra segno distintivo e prodotto contrassegnato, indice dell’acquisita notorietà”. Secondo T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 464 ss., basterebbe invece l’uso.
[26] Ex plurimis, Trib. Bologna, 28/6/2010.
[27] Trib. Milano, 28/4/2000: “possono costituire prova chiara ed univoca di un asserito preuso del marchio con notorietà non puramente locale dichiarazioni testimoniali, non accompagnate da prove documentali, secondo le quali prodotti recanti tale segno sarebbero stati venduti in un’ampia zona”. Richiede, invece, il supporto della prova documentale App. Milano, 11/4/1995: “non costituisce prova sufficiente della utilizzazione effettiva di un marchio su tutto il territorio nazionale e della notorietà di tale utilizzo la generica dichiarazione di un teste che il prodotto recante il marchio è stato venduto su tutto il territorio nazionale, specificata soltanto con riferimento al nome di due clienti residenti nella medesima città e non accompagnata dalla produzione di documenti contabili, fatture di fornitori, listini prezzi, stampati pubblicitari e fatture di vendita”.
[28] App. Milano, 8/5/2001: “l’emissione di fatture, incidendo sui presupposti delle obbligazioni tributarie, fa presumere, in difetto di prova contraria, l’esistenza dei sottostanti rapporti di cessione di beni o prestazioni di servizi contrassegnati dal marchio”.
[29] Trib. Milano, 3/2/2005 ha ritenuto che un catalogo tradotto anche in inglese dimostri la diffusione internazionale, quindi la notorietà non strettamente locale.
[30] Ha affermato la rilevanza probatoria delle indagini demoscopiche Trib. Napoli, 5/11/1998.
[31] In questo senso, Trib. Forlì, 8/2/1999. Le considera insufficienti Cass., Sez. I Civ., 22/8/2008, n. 4531.
[32] Per M.S. Spolidoro, La registrazione e il rinnovo del marchio, cit., p. 132, anche “i marchi non registrati sono beni o, comunque, possono essere riguardati come tali”.
[33] Secondo L. Mansani, Le disposizioni in materia di marchi nella bozza di codice dei diritti di proprietà industriale, in Il Codice della proprietà industriale, a cura di L.C. Ubertazzi, Milano, 2004, p. 70, “le imprese italiane, per essere maggiormente competitive nel confronto internazionale, devono essere incentivate a registrare (…) i loro marchi e non, al contrario, ad usarli solo di fatto, confidando in un apparato sanzionatorio identico a quello che assiste chi ha assolto gli oneri della registrazione”.