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Pubbl. Mer, 18 Feb 2015

Ragionevole durata del processo, brevi cenni ad un principio posto a garanzia del cittadino.

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Matteo Consiglio


L´Italia riceve continuamente condanne per il mancato rispetto dei precetti Cedu in tema di "ragionevole durata" dei processi. Scopriamo qui le previsioni legislative per rimediare alle disfunzioni del nostro sistema giudiziario.


Tra i principi del giusto processo, disciplinato dall’art. 111 della Carta costituzionale, vi è il diritto ad un processo che abbia una durata ragionevole.

L’art. 111 co.1 Cost. prevede espressamente: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.”.

Il testo del disposto costituzionale de quo è stato così novellato con legge costituzionale  n. 2 del 1999, la quale si ispirò a quanto sancito all’art. 6 co.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (CEDU). Tale ultima disposizioone richiamata, nella prima parte del comma 1, prevede che “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (..)”.

L’art. 6 succitato sancisce il c.d. principio di ragionevolezza in ambito processuale che deve mediare tra due forze, quali:

  • la celerità della decisione;
  • il rispetto del diritto di difesa delle parti.

Spesso è accaduto che l’Italia fosse condannata per la eccessiva durata dei processi in violazione dei precetti comunitari.
Si è tentato, allora, di provvedere con una legge, c.d. Legge Pinto, che ha riconosciuto alla parte lesa dall’eccessiva durata del processo una “equa riparazione”.
L’equa riparazione è concessa in favore di chi ha subìto un danno patrimoniale o un danno non patrimoniale scaturente dal non rispetto dei termini sanciti all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Il ricorrente dovrà esperire ricorso, durante la pendenza del procedimento o a pena di decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva, dinanzi la Corte d’Appello competente. Questa, nella valutazione dell'eventuale violazione del principio di ragionevole durata, dovrà tenere conto di due fattori: 1) la complessità del caso; 2) il comportamento tenuto dalle parti del processo, dal giudice e da ogni altra autorità chiamata a concorrere al procedimento ed a contribuire alla sua definizione.
Vi sono dei casi, come ad esempio quello dell’abuso dei poteri processuali, che dilatano eccessivamente e senza adeguata giustificazione i tempi del procedimento, nei quali, tuttavia, non matura il diritto ad alcun tipo di risarcimento.
La misura del risarcimento sarà valutata dal giudice con riferimento al caso concreto e secondo il suo prudente apprezzamento in ragione di una valutazione equitativa.

Per quanto riguarda il comportamento delle parti, esse hanno l’obbligo di evitare comportamenti dilatori non giustificati dall’economia del processo; mentre quanto al giudice, si configura il divieto di tenere comportamenti che siano d’ostacolo ad una celere definizione del giudizio, cosa che può avvenire, ad esempio, attraverso un inutile dispendio di energie processuali causato dall’esperimento di formalità non richieste.
La disciplina della ragionevole durata, deve essere analizzata anche in ragione dell’istituto dei termini perentori.
I termini perentori sono termini che il legislatore od il giudice impongono alle parti per il compimento, entro un determinato lasso temporale previsto a pena di decadenza, di determinate attività del processo.
La giurisprudenza costituzionale ha "giustificato" la previsione di termini perentori richiamandosi al criterio della congruità degli stessi; essi devono essere tali, cioè, da non rendere difficile agli interessati la difesa delle proprie ragioni.