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Pubbl. Ven, 23 Feb 2018

Non è punibile il convivente imputato per favoreggiamento

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Renata Maddaluna


In una recente sentenza la Corte di Cassazione conferma l´estensibilità della disciplina di favore prevista dall´art. 384 c.p. anche ai conviventi. Note a margine di Cass., Sez. III Penale, 12 gennaio - febbraio 2018, n. 6218.


Sommario: 1. Introduzione; 2. I fatti di causa; 3. L'art. 384 c.p. e la sua applicabilità al convivente more uxorio; 4. Note critiche.

1. Introduzione

Con la sentenza del 12 gennaio - 9 febbraio 2018, n. 6218 la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Messina che non aveva verificato la possibilità di applicare l'art. 384 c.p. all'imputato convivente, alla luce del principio di diritto espresso da Cass., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147.

2. I fatti di causa

Due conviventi erano stati convenuti in giudizio con due titoli di reato differenti: l'uno era stato accusato del reato di cui all'art. 73, co. 5, DPR 309/1990 (detenzione di sostanze stupefacenti), l'altra del delitto di favoreggiamento personale del convivente, punito dall'art. 378 c.p.

Condannati sia in primo che in secondo grado per i reati suindicati, gli imputati proponevano ricorso per Cassazione. In particolare, i ricorrenti contestavano, innanzitutto, la mancata rideterminazione della pena, a seguito dell’intervento normativo che ha riqualificato la fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, del DPR n. 309/1990 come autonoma e non più quale circostanza aggravante; in secondo luogo, lamentavano la mancata applicazione della causa di non punibilità prevista all’art. 384 c.p., in considerazione del fatto che i due imputati non erano legati da vincolo coniugale e sull’asserito presupposto che nella disciplina di favore contemplata dall’art. 384 c.p. rientri, senza dubbio alcuno, anche la famiglia di fatto.

3. L'art. 384 c.p. e la sua applicabilità al convivente more uxorio

La Corte di Cassazione, nell'esaminare i ricorsi proposti, li ha ritenuti fondati evidenziando, in particolare, quanto al primo, che la sentenza della Corte d'Appello, pur emessa successivamente alla modifica dell'art. 73 co 5 DPR 309/1990 - che da circostanza attenuante è stato trasformato dal legislatore in reato autonomo-, non ha mutato la pena inflitta in primo grado, in violazione di legge. Sul punto, la Suprema Corte richiama un proprio precedente a Sezioni Unite secondo cui l'imputato ha diritto ex art. 2 co 4 c.p. di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, sicché il giudice della cognizione ha il dovere di applicare la lexmitior anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, dal momento che la finalità rieducativa della pena ed il rispetto dei principi di uguaglianza e proporzionalità impongono di rivalutare la misura della sanzione sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità[1].

In relazione al secondo ricorso la Suprema Corte, richiamandosi ad un altro precedente[2], rileva d'ufficio la sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 384 co 1 c.p. in relazione al delitto di favoreggiamento personale di cui era accusata l'imputata e ritiene che la Corte d'Appello non abbia verificato la possibilità di applicare la suddetta norma all'imputata in oggetto alla luce del principio di diritto espresso dalla giurisprudenza di legittimità[3]. In particolare, la Corte afferma apertis verbis che la causa di non punibilità prevista dall'art. 384 co 1 c.p. in favore del coniuge opera anche a favore del convivente more uxorio, accusato nel caso di specie di aver commesso il delitto di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p.

4. Note critiche

La pronuncia in commento non è per nulla scontata, dato che la giurisprudenza ha lungamente ritenuto l’esatto contrario, vale a dire l’impossibilità di applicazione della causa di cui all’art. 384 c.p. al convivente.

La formulazione apparentemente limpida della norma sottende, invero, una serie di questioni non meramente dogmatiche, dettate dai dubbi sulla natura giuridica della figura de quo.

Nel delineare la portata di tale causa di non punibilità il legislatore ha chiaramente compiuto un bilanciamento tra due contrapposte istanze, il cui fondamento è parimenti rinvenibile nella Carta costituzionale. Da un lato, vi è l’amministrazione della giustizia e la conseguente punizione dei reati commessi; dall’altro, la preservazione dell’unità familiare, con una preferenza assoluta in favore di quest’ultima in presenza delle condizioni stabilite dalla legge. Tuttavia, lo stesso legislatore non ha chiarito quale sia la fonte della esclusione della punibilità, se l’assenza di antigiuridicità, l’inesigibilità di un comportamento diverso oppure una valutazione a monte sulla inopportunità della pena nel caso specifico. In altri termini, non ha chiarito se l’art. 384 c.p. evochi una scriminante, una causa di esclusione della colpevolezza oppure una causa personale di non punibilità.

La sentenza della Suprema Corte di Cassazione si pone, tuttavia, in linea con quella recentissima giurisprudenza di legittimità e, in particolare, con la nota sentenza del 30 aprile 2015, n. 34147 che, pur non prendendo espressa posizione sulla natura giuridica dell'art. 384 c.p., aveva ritenuto detta norma pacificamente applicabile anche al convivente more uxorio, alla luce della mutata sensibilità sociale e legislativa in rapporto alla famiglia di fatto, sempre più oggetto di attenzione da parte del legislatore, e richiamandosi alla giurisprudenza della Corte EDU che aveva sottolineato il carattere non più statico, bensì dinamico della nozione di famiglia[4].

In particolare, rispetto alla sentenza della stessa Cassazione del 30 aprile 2015, n. 34147 che rifuggiva da qualsiasi qualificazione giuridica della norma de quo, la sentenza in commento è da segnalare nella misura in cui per la prima volta sembra prendere espressa posizione sulla natura giuridica dell'art. 384 c.p. che viene testualmente qualificato come causa di non punibilità e ritenuto applicabile anche al convivente. Pertanto, la Suprema Corte, non evitando, come in altre occasioni, di inquadrare giuridicamente l'art. 384 c.p., lo qualifica espressamente come causa di non punibilità, in tal modo aderendo a quell'indirizzo, per vero minoritario, della dottrina, secondo cui con tale disposizione il legislatore ha tenuto conto della forza incoercibile dei sentimenti familiari e dell'istinto di conservazione della propria vita e libertà i quali giustificano la mancata punizione di fatti commessi in danno dell'amministrazione della giustizia. In altri termini, secondo questa minoritaria dottrina, l'art. 384 c.p. sarebbe da inquadrare nel novero delle cause di non punibilità in senso stretto[5].

 

Note e riferimenti bibliografici

Per un approfondimento completo: R. MADDALUNA, "Applicazione analogica delle cause di esclusione della colpevolezza: l’estensione dell’art. 384 c.p. ai conviventi prima e dopo la legge Cirinnà", in Rivista Cammino Diritto, 2, 2018.

[1]Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 46653.
[2]Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2014 n. 9727, "Grieco".
[3]Cass., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147.
[4] Rileva a tal proposito la Corte EDU, nel caso Emonet ed altri contro Svizzera del 2007in www.echr.coe.int. che: "la nozione di famiglia di fatto accolta dall'art. 8 CEDU non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su particolari legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza". Allo stesso modo il precedente Id., 13 giugno 1973, Marckx contro Belgio, ivi.
[5][5] Alla stregua dell'art. 649 c.p. Non si può non rilevare, tuttavia, che dalla qualificazione dell'art. 384 c.p. nei termini di causa di non punibilità in senso stretto discendono importanti conseguenze in relazione alla pratica possibilità di estendere analogicamente tale disposizione oltre i casi tassativamente previsti. Infatti, le cause di non punibilità in senso stretto riflettono precise scelte di politica criminale di volta in volta effettuate dal legislatore in relazione a rationes eterogenee, per cui risulterebbe, secondo la dottrina dominante, impossibile estendere le suddette norme oltre i casi tassativamente previsti, a meno di non violare il divieto di analogia in materia penale. Sul puntosi rinvia a F. MANTOVANI, Diritto penale, CEDAM, 2015, pp. 70 ss.