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Pubbl. Sab, 10 Mar 2018

L´aspetto patologico della responsabilità contrattuale

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Giuseppe Mainas


Il lato patologico del rapporto obbligatorio emerge nel caso di frustrazione del diritto del creditore e quindi nel caso di mancata cooperazione da parte del debitore.


Sommario: 1. Introduzione; 2. Azione di esatto adempimento; 3. Risarcimento del danno; 4. Risoluzione per inadempimento; 5. Elementi costitutivi della responsabilità contrattuale.

1. Introduzione

Tre premesse sono doverose prima di affrontare l’esame della tematica richiamata nel titolo: la prima riflessione è di carattere terminologico: l'espressione “responsabilità contrattuale" è sbagliata, perché presuppone la fonte contrattuale dell’obbligazione inadempiuta e quindi evoca una distinzione tra responsabilità da contratto e una non da contratto (aquiliana). 
Non è importante che l’obbligazione inadempiuta sia riferibile ad un contratto, ma è essenziale che non derivi dall’inadempimento di un dovere generico di neminem laedere, bensì dalla violazione di una obbligazione tra soggetti determinati aventi ad oggetto una prestazione ben individuata.
Dovremmo quindi parlare di responsabilità da inadempimento di qualsiasi obbligazione, sia essa derivante da contratto, dalla legge o da qualsiasi atto o fatto idoneo a produrlo.
Ciò che conta affinché si configuri la responsabilità contrattuale è che il danno non derivi da doveri generici, ma da violazione di obblighi derivanti da un rapporto.
La seconda attiene alla fattispecie dell’inadempimento, questa, è estremamente complessa e variabile e vi rientrano molte tipologie, in particolare, possiamo classificarla in 5 criteri:
a) inadempimento totale (ossia l’assenza totale di adempimento da parte del debitore) o inadempimento parziale (ossia l’inesatto adempimento);
b) secondo criterio: interno al macrocosmo dell’inesatto adempimento che poi rappresenta il settore più ricco di casi pratici, è l’inesattezza di tipo diverso: di carattere qualitativo, quantitativo, soggettivo, territoriale (luogo dell’adempimento differente da quello pattuito) o teleologico (adempimento non funzionale all’interesse del creditore);
c) terzo criterio: differenza tra inadempimento di obbligazioni di prestazione e inadempimento di obblighi di protezione, posti sia nei confronti della controparte sia nei confronti dei terzi in posizione di vicinanza al rapporto obbligatorio.
La linea di demarcazione tra la prestazione e la protezione è il tipo di interesse a cui è preordinato l’obbligo. Gli obblighi di prestazione sono preordinati al soddisfacimento dell’interesse dedotto nel contratto. Invece i doveri di protezione devono essere osservati principalmente dal debitore per evitare che la prestazione produca danno a quegli interessi, della controparte o del terzo, diversi da quelli dedotti dal contratto (ad es. interesse alla salute o all’integrità fisica).
L’occasione del contratto non può essere infatti occasione di danno.
d) Quarto criterio: quello che distingue le obbligazioni principiali dai doveri accessori.
e) Quinto criterio: il criterio che distingue gli inadempimenti lievi da quelli gravi, ai sensi del 1955 c.c. solo quelli gravi giustificano la risoluzione del contratto. L’azzeramento del contratto è un evento così grave da richiedere un inadempimento di grave entità.
f) Sesto criterio: anche nei contratti in cui v’è obbligazione a carico di una sola parte, non è mai vero che il creditore è solo tale e il debitore è solo tale, perché alla luce della buona fede anche al creditore si impongono dei doveri di solidarietà tesi a salvaguardare la sfera giuridica del debitore.
g) E quindi come settimo criterio: l’inadempimento non riguarda solo il debitore ma anche il creditore.
Il terzo ed ultimo punto attiene alla responsabilità, in quanto, non è l’unica azione di tutela a favore del creditore che sia vittima del comportamento del debitore. Salvo le norme speciali e settoriali, ci sono tre rimedi a tutela del creditore vittima dell’inadempimento. Ci sono due rimedi generali, che riguardano tutti gli inadempimenti, uno è l’azione di esatto adempimento, l’altro è l’azione di risarcimento del danno da inadempimento e quindi la responsabilità contrattuale; ce n’è un altro che non è universale, perché non riguarda tutti gli inadempimenti, ma solo gli inadempimenti gravi nell’ambito solamente delle obbligazioni nascenti da contratti a prestazioni corrispettive: l’azione di risoluzione.

2. Azione di esatto adempimento

A questo punto occorre chiarire quali siano le caratteristiche di questi rimedi. 

L’azione di esatto adempimento è lo strumento mediante il quale l’ordinamento consente una tutela specifica e qualitativa del diritto di credito, perseguendo una funzione di tipo reintegratorio e satisfattorio.
E’ una tutela specifica perché mediante questa azione al creditore non viene riconosciuto un bene equipollente o consolatorio, ma gli viene riconosciuto il bene specifico che gli spetta e quindi la piena utilitas che gli sarebbe stata attribuita in caso di adempimento; quindi il conseguimento del bene oggetto del rapporto obbligatorio.
Anche nel processo amministrativo, ex art. 34 co. 1 c.p.a., è stata introdotta l’azione di esatto adempimento.
Volendo distinguere l’azione di esatto adempimento da un’altra azione in forma specifica, come può essere il risarcimento in forma specifica, deve tenersi conto che in entrambi i casi si raggiunge un obiettivo identico: la ricostituzione dello status quo ante e successivamente l’eliminazione di tutte le conseguenze negative prodotte nell’inadempimento. Nel caso di esatto adempimento il soddisfacimento viene garantito attraverso una pronuncia che obbliga il debitore ad eseguire la medesima prestazione prevista dalla fonte dell’obbligazione; il precetto stabilito dalla sentenza ha il medesimo contenuto del precetto obbligatorio rimasto inadempiuto. Di qui la tutela specifica che non presuppone un danno né una differenza tra il precetto imposto e quello originario.
Nel risarcimento in forma specifica, invece, anche se il fine è la tutela specifica, si presuppone che ci sia un danno, e soprattutto si impone un comportamento riparatorio, sostitutivo, e in questo senso diverso da quello rimasto inadempiuto. Si presuppone quindi che per riparare alle conseguenze dannose create è necessario obbligare il debitore non solo al comportamento ordinario, ma obbligarlo al comportamento riparatorio - diverso - che elida le conseguenze negative prodotte dall’inadempimento.

La peculiarità dell’azione di esatto adempimento è la perfetta simmetria tra l’obbligo contenuto nel precetto giudiziario e quello previsto dall’obbligazione rimasta inadempiuta. Per questa ragione l’azione di esatto adempimento è l’azione maggiormente satisfattoria, nonostante la legge non la preveda in modo esplicito, ma solo indiretto attraverso l’articolo 1453 c.c. e solo nei contratti ad obbligazioni corrispettive; d’altronde nei sistemi di civil law vige il principio ubi ius ibi remedium e, quindi, se l’ordinamento tutela un diritto di credito devono esistere anche gli strumenti necessari alla tutela dello stesso credito.

Definendo questa prima azione che, come detto, non ha una base normativa diretta, ma trova fondamento indiretto nell’art. 1453 c.c. ed all' interno delle norme settoriali ex art. 130 co. 7 del codice del consumo, per la vendita di beni di consumo, di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c. che disciplinano la vendita in generale e nell’appalto.

A questo punto occorre tracciare il discrimen che c’è tra azione di adempimento in natura e l’azione di risarcimento in natura. Innanzitutto Giova fare un esempio che ha trovato riscontro in dottrina, ossia il caso del giardiniere che non abbia adempiuto all’obbligo di tagliare le siepi e manutenere il giardino. E’ chiaro che in questo caso, se l’inadempimento dura per un giorno, ben potrà il creditore richiedere una sentenza – attraverso azione di esatto adempimento – affinché il giardiniere esegua la prestazione che in questo caso sarà identica a quella oggetto dell’obbligazione.

Ma se l’inadempimento del giardiniere dura per un anno, non sarà possibile soddisfare il creditore solo attraverso l’esecuzione della prestazione originaria da parte del creditore,  perché servirà una straordinaria manutenzione, quindi, una prestazione succedanea e differente da quella oggetto dell’originario rapporto,  proprio per elidere le conseguenze negative dell’inadempimento.

3. Risarcimento del danno

La seconda azione da trattare a tal proposito è il risarcimento del danno che si suddivide in: azione di risarcimento per equivalente (1123 c.c.) e risarcimento in forma specifica (2058 c.c.) il quale è previsto solo per la tutela aquiliana ma è estensibile ai casi di responsabilità da inadempimento.

Quanto al risarcimento per equivalente l’azione mira ad una tutela quantitativa e non qualitativa, valoristica e non specifica. Mira a consentire al creditore di ottenere un valore economico che lo consoli dell’inadempimento e che reintegri quantitativamente il patrimonio leso dall’inadempimento. E’ una azione che mira ad un fine compensativo/riparatorio e non ad un fine reintegratorio/satisfattorio.  Il risarcimento del danno viene tutelato attraverso la teoria differenziale, in base alla quale occorre garantire al creditore insoddisfatto che elida tutte le conseguenze negative che nel patrimonio sono state create grazie all’inadempimento. Si basa su una prognosi, ossia "in che condizioni oggi si troverebbe il patrimonio se non vi fossero state le conseguenze negative dell’inadempimento"; una volta identificate le conseguenze, si devono riparare le stesse.

In nessun ordinamento del mondo però la teoria differenziale viene applicata in modo integrale, ma si tende a distinguere all’interno del danno materiale, qual è il danno normativo, ossia  qual è il danno giuridicamente apprezzabile; se si applicasse la teoria differenziale in modo puro si andrebbero a risarcire danni illogici e impreventivabili. Tutti gli ordinamenti riducono l’area del danno prodotto e stabiliscono qual è l’area del danno risarcibile, è il criterio anglosassone che mira ad evitare il risarcimento di quei danni "too far", ossia troppo lontani dall’inadempimento.

Nel nostro sistema i danni giuridici risarcibili sono i danni caratterizzati da tre requisiti, previsti rispettivamente dall’art. 1223 c.c. a tenore del quale sono risarcibili solo i danni di conseguenza immediata e diretta, danni da conseguenza normale e non anomala in base ad un giudizio ex ante, l’art. 1225 c.c., afferma che sono risarcibili i danni prevedibili al tempo in cui è sorta l’obbligazione e non anche quelli imprevedibili, tranne nel caso di dolo; l’art. 1227 co 2. c.c. mediante il quale il legislatore ha statuito che non sono risarcibili solo i danni inevitabili, e non vi rientrano invece quei danni che il creditore avrebbe potuto evitare utilizzando l’ordinaria diligenza.

Per quanto riguarda la quantificazione del danno per equivalente, infine, la teoria differenziale si basa su una "fictio iuris", ovvero, su una mera ipotesi: ad esempio, nel caso in cui l’illecito non si sia verificato, occorrerebbe valutare come sarebbe il patrimonio e si attua una differenza. Ma la determinazione del danno deve evitare la locupletazione, cioè deve evitare che il danneggiato si arricchisca, perché il risarcimento ha solo una funzione riparatoria. Nel caso quindi che il fatto illecito sia produttivo anche di un vantaggio, oltre che di un danno, va effettuato uno storno, quest'ultima é la famosa teoria dei benefici collaterali, che prevede il riconoscimento di quegli effetti benefici causati dall’illecito che senza di esso non ci sarebbero stati. Un esempio molto semplice che chiarirebbe quanto appena affermato è il seguente: se il lavoratore viene licenziato e il giorno dopo trova un altro lavoro, non si può risarcire tutta la retribuzione mancata, ma si devono defalcare quei proventi derivanti dall’altro lavoro trovato. L’azione risarcitoria mira ad una tutela quantitativa/riparatoria grazie alla corresponsione di una somma di denaro che – mediante la teoria differenziale - elida tutte le conseguenze negative derivanti dall’inadempimento. L’elisione deve essere però valutata considerando anche le conseguenze positive dell’illecito.

Per ciò che attiene al risarcimento in forma specifica, esso non è previsto dal codice civile in materia di responsabilità per inadempimento, ma solo per la tutela aquiliana ex art. 2058 c.c.. L’assenza di riferimenti non esclude l’operatività della stessa in campo contrattuale, per cui tutte le volte in cui l’azione di esatto adempimento non sia utile a ripristinare lo status quo non può che soccorrere l’azione di risarcimento in forma specifica; il codice non prevede tale azione perché prevede che – in materia di responsabilità contrattuale – non ci sia bisogno di tale azione al fine di tutelare al meglio la posizione del creditore, visto che esiste già l’azione di esatto adempimento.

Ci sono però due casi in cui l’azione di esatto adempimento non è possibile ed è necessaria l’azione di risarcimento in forma specifica.

La prima ipotesi riguarda il caso in cui l’inadempimento abbia prodotto delle conseguenze per le quali non sia possibile elidere i danni attraverso l’esecuzione della prestazione originariamente prevista nel rapporto obbligatorio, ma è necessaria una prestazione diversa, più significativa, un surplus.

Il secondo caso attiene all’inadempimento delle obbligazioni negative che presuppongono un’astensione da parte dell’obbligato, come per esempio l’obbligo di non costruire, in tal caso è evidente come le conseguenze dell’inadempimento non sono più eliminabili attraverso l’imposizione del comportamento originario, ma è necessaria una prestazione differente che elida le conseguenze negative generate dall’inadempimento dell’obbligazione negativa.  

4. Risoluzione per inadempimento

L' ultima azione riguarda la risoluzione per inadempimento.

Tale rimedio ha carattere speciale ed è consentito nei casi di rapporti contrattuali a obbligazioni corrispettive solo nel caso d'inadempimento grave. Le finalità perseguite dal rimedio in oggetto sono di carattere liberatorio, restitutorio, ripristinatorio. Liberatorio perché libera il debitore della obbligazione, restitutorio in quanto permette la restituzione delle prestazioni, infine, ripristinatorio dato che permette l’elisione di tutte le conseguenze negative che si sono prodotti nella sfera giuridica del creditore a causa dell’inadempimento.

Ai sensi dell’art. 1458 c.c. ha efficacia ex tunc, tranne nei confronti dei terzi in cui la risoluzione opera solo ex nunc.

Questi tre rimedi sono rimedi per i quali l’ordinamento italiano offre una tutela ampia nei confronti creditore e non si caratterizza per la gerarchizzazione, il creditore è cioè libero di scegliere l’azione più idonea al suo interesse.

Lo stesso risarcimento può essere non solo autonomo ma anche dipendente alle due azioni.

A questo punto della discussione è necessario un esame sull’art. 1453 c.c. su cui c’è un’importante pronuncia, SS. UU. n. 8510/14 ed è la seconda pronuncia che si occupa dell' art. 1453 c.c. dopo la sentenza n. 553/2009. L’art. 1453 c.c.si occupa dei rapporti tra azione di risoluzione ed azione di esatto adempimento e stabilisce due precetti, uno che vieta la variatio della domanda in corsa di giudizio e l’altro che ammette la variatio in corso di giudizio.

Il primo precetto stabilisce che il creditore, il quale ha deciso di intraprendere l’azione di risoluzione non può proporre l’azione di esatto adempimento, invece, é ammessa la variatio contraria, ossia che proposta la domanda di esatto adempimento venga successivamente proposta domanda di risoluzione del contratto. 

La ratio è molto chiara: quando il debitore viene a sapere che il creditore chiede la risoluzione del contratto, egli confida nel fatto che il creditore non ha più interesse alla prestazione e allora l’ordinamento onde evitare che il debitore rimanga condizionato ai capricci del creditore, ritiene tutelabile l’affidamento del debitore circa la non reversibilità della manifestazione di disinteresse all’attuazione del credito, che non è più compatibile con una successiva azione di esatto adempimento.

E’ possibile che il creditore - dopo che si siano verificati fatti risolutivi di diritto del rapporto obbligatorio o dopo che sia stata adottata una sentenza che abbia comportato la risoluzione del contratto – abbia interesse a rinunciare alla risoluzione per ottenere la prestazione oppure che la risoluzione già avvenuta per fatto giuridico verificatosi o per una sentenza sia rinunciabile da parte del creditore. A tal proposito le Sezioni Unite con la sentenza n. 553/2009 chiariscono che se il sistema tutela l’affidamento del debitore con riguardo al disinteresse del creditore all’adempimento manifestato con la proposizione di azione di risoluzione, a maggior ragione dovrebbe tutelarsi l’affidamento del debitore quando non ci sia stata solo la domanda, ma addirittura la risoluzione sia avvenuta con una sentenza o con una causa di diritto prevista dall’ordinamento. Il consolidamento dell’affidamento del debitore, quindi, fa sì che la risoluzione non è rinunciabile. L’art. 1453 c.c. quindi pone un concetto – quello che impedisce la proposizione della domanda di esatto adempimento quando sia stata presentata domanda di risoluzione - che per analogia iuris a vale per tutti i fatti che abbiano prodotto la risoluzione e non solo alla domanda.

Il secondo precetto è l’ammissibilità della variatio opposta: la ragione è data dal fatto che chi chiede la risoluzione manifesta un disinteresse al contratto, non è vero l’opposto, ossia che chiede l’adempimento non ha interesse alla risoluzione. Se infatti in pendenza della domanda si aggrava l’inadempimento, il creditore bene può avere interesse alla risoluzione soprattutto quando i tempi del processo possano pregiudicare la propria posizione. La ratio della variatio opposta è quella per cui il creditore non ha necessariamente interesse ad ottenere la prestazione e quindi merita tutela l’eventuale volontà di far sciogliere il vincolo che sia avvenuta in via successiva all’azione di adempimento proposta in precedenza.

Alle SS. UU. è stato posto il seguente quesito: se per esempio è stata proposta una azione di esatto adempimento senza chiedere il risarcimento del danno e successivamente intervenga la variatio e magari in appello venga convertita la domanda. A questo punto oltre alla domanda, occorre valutare se può essere richiesto il risarcimento e la restituzione congiuntamente. In merito a tale quesito c’è chi nega tale possibilità, perché l' art. 1453 c.c. è una norma eccezionale che prevede una mutatio libelli e non una emendatio libelli ai sensi dell’art. 183 c.p.c.. Essendo quindi una norma eccezionale che consente una mutatio con conseguente diverso petitum è una norma interpretabile restrittivamente, consentendo quindi solo l’eventuale proposizione della risoluzione e non degli altri rimedi come il risarcimento del danno o la restituzione.

Diversa invece la posizione delle SS UU che invece ritengano la variatio comprensiva anche dei due sottorimedi, perché in primo luogo viene tutelata l’economia dei mezzi giuridici, in secondo luogo c’è identità della causa petendi perché l’inadempimento è lo stesso; ma la ragione principale è la terza, ossia l’argomento teleologico: qual è il fine della variatio? La tutela del creditore, che in ogni momento può decidere di liberarsi dal contratto evitando tutti i pregiudizi derivanti dal mantenimento del contratto. Ma questa finalità presuppone che non solo si ottenga la liberazione e quindi la risoluzione, ma anche la restituzione e si ottenga anche la riparazione del pregiudizio economico sofferto con l’inadempimento. In questo senso appare importante anche l’inciso “in ogni caso” dell’art. 1453 c.c. con cui la legge prevede un modello unitario di tutela, quello di risoluzione, di cui la domanda di restituzione e di risarcimento sono componenti accessori. La risoluzione deve essere quindi prodotta con gli effetti triplici che essa ha: la risoluzione del contratto, la restituzione delle prestazioni e la riparazione delle conseguenze cagionate dall’inadempimento. Altrimenti opinando non avrebbe senso la variatio, perché il creditore potrebbe opporre un’eccezione di inadempimento. Questa sentenza si inserisce in un filone teso ad allargare la variazione delle domande in corso di giudizio, sostenendo che una sentenza molto importante che in via generale chiarisce il confine tra mutatio ed emendatio, confine che rispetto al passato viene modificato. In passato, infatti, il confine tra mutatio vietata ed emendatio ammessa erano gli elementi costitutivi della domanda. Ogni qual volta si modificava il petitum o la causa petendi c’era inammissibilità della variatio.

Ora, invece, la Cassazione sancisce che non è importante che si modifichino il petitum o la causa petendi, purché non si verifichi la mutazione dell’elemento sostanziale, ossia del rapporto controverso. Quindi se il lato soggettivo e oggettivo del rapporto è lo stesso, la variazione del petitum o della causa petendi non ostacolano la variatio.

Il caso di specie riguardava le parti di un presunto preliminare inadempiuto e una delle parti aveva proposto domanda ex art. 2932 c.c. e quindi una azione in forma specifica finalizzata ad ottenere una sentenza costitutiva che sostituisca il contratto definitivo non concluso dalle parti. In corso di giudizio le parti reinterpretano il preliminare arrivando a dire che esso non è un preliminare ma è già un contratto definitivo, per cui convertendo la prima domanda propongono non più una domanda mirata ad ottenere una sentenza costitutiva, ma una sentenza di accertamento che chiarisca come sia già avvenuto il trasferimento di proprietà (quindi una sentenza non costitutiva, ma dichiarativa). La Cassazione, verificato che il rapporto controverso è lo stesso, che le parti sono le stesse, che il fine è l’ultimo è lo stesso, perché mirato ad avere un titolo di trasferimento della proprietà e conclude per l’ammissibilità della variatio della domanda.

5. Elementi costitutivi della responsabilità contrattuale

È d' uopo a questo punto, in relazione alla responsabilità da inadempimento, capire quali sono i tre elementi costitutivi della responsabilità contrattuale e da chi devono essere provati in corso di giudizio.

Primo elemento: la fonte. Il creditore deve provare il credito, dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa, provare il contratto, il contatto, il fatto, l’atto o il rapporto da cui deriva il credito insoddisfatto.

Secondo elemento: l’inadempimento. Il creditore deve provare l’inadempimento; cioè dimostrare il fatto storico dell’inadempimento, a prescindere dalla colpa; egli dovrà dimostrare che la prestazione non è stata eseguita o che non è stata eseguita in modo esatto.

Terzo elemento: il danno conseguenza. Il danno risarcibile nell’ordinamento italiano è solo quello che è stato prodotto come conseguenza della lesione di una posizione soggettiva. Non è la lesione in sé a dover essere riparata, ma le conseguenze negative che tale lesione crea nella sfera giuridica del soggetto, riparazione che viene effettuata ai sensi dell' art. 1223 c.c..

La lesione del diritto non è di per sé risarcibile, ma valuta le conseguenze dannose dell’illecito e quindi il terzo indefettibile elemento del risarcimento del danno è che la lesione di una posizione abbia provocato una conseguenza dannosa patrimoniale o non patrimoniale che viene risarcita ai sensi dell’art. 1223 c.c.. 

Per aversi responsabilità contrattuale sono questi tre elementi ad essere cumulativamente necessari: ci deve essere il credito, l’inadempimento nella propria tripartizione:oggettivo, soggettivo e causale e il danno conseguenza, mentre per quanto riguarda l'onus probandi dei tre elementi suddetti il codice non si occupa della disciplina contrattuale, nella responsabilità aquiliana invece il danneggiato deve provare – anche in via presuntiva – tutti gli elementi necessari.

Nel campo contrattuale, invece, il danneggiato deve dimostrare solo l’elemento del credito e il danno conseguenza, ma solo allegare l’inadempimento nella triplice partizione.

Chi agisce in giudizio deve provare di essere creditore per la semplice ragione che chi fa valere il diritto deve dimostrare di essere titolare del diritto, deve quindi provare i fatti costitutivi del diritto, si applica quindi l’art. 2697 c.c. che impone a chi agisce di dimostrare i fatti costitutivi del proprio diritto. A prescindere dall’art. 2697 c.c., vige poi il principio di vicinanza della prova. La prova dei fatti deve infatti essere fornita da chi è nella possibilità di provare i fatti che intende come esistenti, e nessuno meglio del creditore può provare la fonte da cui deriva il proprio credito. Costui, infatti, deve provare di essere diventato tale,  perché nel nostro ordinamento vige il principio per il quale i diritti una volta entrati nella sfera del soggetto si presumono ancora esistenti. Anche l’art. 2697 c.c. al secondo comma sancisce che spetta al convenuto dimostrare i fatti estintivi del diritto altrui. Quindi il creditore non deve dimostrare che oggi è ancora creditore, ma che ieri è nato il suo credito e sulla base di tale dimostrazione si presume che il diritto non si sia ancora estinto. Questo onere probatorio viene invertito in tutti i casi eccezionali in cui la legge attribuisce una diversa distribuzione dell’onus probandi, ad esempio nel caso dell' art. 1988 c.c., norma che fa riferimento alla ricognizione del debito e alla promessa di pagamento e afferma che se il creditore ha ricevuto da debitore una promessa di pagamento o una ricognizione di debito egli è dispensato dall’onere della prova del fatto da cui nasce il credito; sarà il debitore in questo caso a dover dimostrare l’inesistenza del rapporto che si presume esistente in quanto è lo stesso debitore ad aver affermato di essere tale. L’ art. 1988 c.c., quindi, dispensa il creditore dall’onus probandi allorquando ci sia una dichiarazione con cui il debitore ha dichiarato di essere stato tale.

Per ragioni di completezza espositiva occorre analizzare quale sia la natura giuridica dell’atto con cui un debitore afferma di dover eseguire una prestazione nei confronti di un soggetto oppure promette di eseguire una prestazione nei confronti di un soggetto, poichè se fossero negozi giuridici potrebbero essere impugnati per vizi di volontà, mentre se fossero dichiarazioni di scienza potrebbe essere smentiti dal creditore il quale potrebbe affermare la non veridicità di tali fatti, senza impugnare le stesse dichiarazioni per vizi di volontà.

Una prima tesi afferma che si tratta di negozi giuridici: all’interno di tale macro-tesi ci sono due orientamenti, uno che ritiene tali dichiarazioni come negozi ad effetti obbligatori, secondo un altro orientamento sarebbero dei negozi che avrebbe come unico effetto la dispensa dall’onere della prova, quindi con una natura probatoria/processuale, ed infine secondo  l' ultimo orientamento sarebbe un negozio di accertamento di una situazione controversa. Queste tre tesi non sembrano accettabili alla luce del fatto che nella prima sotto-tesi, innanzitutto, l’effetto obbligatorio non è prodotto dalla dichiarazione, ma è prodotto dal rapporto sotteso ed è precedente alla dichiarazione; non c’è la produzione o la modifica o l’estinzione di una obbligazione, manca quindi l’effetto obbligatorio.

Non è neanche affermabile che è un negozio che ha un effetto sull’onus probandi; a questo punto anche la confessione sarebbe un negozio, dato che i negozi non producono effetti dal punto di vista probatorio/ processuale.

Non è neppure un negozio di accertamento: innanzitutto i negozi di accertamento sono una categoria discussa, perché i negozi che si limitano ad accertare e non innovare non sarebbero tali. Ma non si può affermare con certezza che un negozio di accertamento non produca una innovazione o un precetto al quale le parti debbono omologarsi dato che il negozio di accertamento ha, al pari dell’azione di accertamento, un presupposto essenziale, la res dubbia. Il negozio di accertamento ha come causa essenziale il chiarimento in merito ad una situazione dubbia. Non si può accertare ciò che non necessita di accertamento perché è già chiaro. L’atto con cui, ad esempio, si ripete l’esistenza di una situazione chiara non è un negozio, ma una dichiarazione di scienza, il negozio di accertamento ha senso solo se c’è un contratto inizialmente poco chiaro. Ma se la causa del negozio di accertamento è la dissoluzione di un dubbio ermeneutico,non è possibile anche affermare che il negozio di accertamento non ha effetto innovativo o obbligatorio perché il negozio che accerta la situazione controversa pone un vincolo, ed il precetto deriva dal chiarimento imposto. Ad esempio, se è controverso il prezzo stabilito in un iniziale contratto, con il negozio di accertamento si chiarisce quale sia il prezzo e le parti non possono più discostarsi da quanto sancito nel negozio di accertamento. Il negozio di accertamento, quindi, preclude l’interpretazione del contratto o della situazione iniziale che esso va a chiarire. Il negozio di accertamento della res dubbia è quindi un negozio che produce un vincolo comportamentale coerente con il contenuto dell'accertamento e quindi è esso stesso obbligatorio. È questa la differenza con la promessa di pagamento e la ricognizione di debito, queste ultime non presumono che vi sia un’incertezza e quindi non hanno carattere negoziale ma hanno carattere di mera dichiarazione di scienza e quindi non soggiacciono al rimedio dell’impugnazioni negoziale ma soggiacciono al rimedio della dimostrazione in giudizio  della non veridicità dei fatti.

Se non si tratta di un negozio obbligatorio perché il rapporto obbligatorio è preesistente, se non è un negozio probatorio/processuale perché i negozi hanno effetti sostanziali e non processuali e se non è un negozio di accertamento perché manca la res dubbia, allora è evidente che non si tratta di negozi, ma queste due dichiarazioni (ricognizione di debito e promessa di pagamento) sono due dichiarazioni di scienza, cioè atti giuridici in senso stretto che non hanno carattere negoziale, ma che hanno effetti probatori/processuali; sono confessioni stragiudiziali, peculiari perché hanno per oggetto fatti complessi, cioè rapporti giuridici e non meri fatti storici.

Il terzo problema riguarda il meccanismo probatorio che tali dichiarazioni innescano. La norma non è chiara, perché prevede che tali atti vanno contrastati con la prova contraria, si presume quindi che il fatto generatore del credito ci sia a meno che il debitore non dimostri l’inesistenza, nonostante la sua dichiarazioni, del rapporto da cui genera il credito.Per quanto riguarda le modalità in cui la prova nel caso delle dichiarazioni di scienza debba essere provata occorre fare una distinzione tra la dichiarazione c.d.pura o astratta che nulla dice sulle origini del credito e quindi del debito e la dichiarazione c.d. causale o titolata, in cui un certo soggetto non solo dice di dovere una somma, ma dice anche il perché, ossia la fonte di tale debito.

La dichiarazione totalmente pura o astratta in cui si menziona solo l’oggetto del credito ma non la causa e quella c.d. causale, in cui non solo si riporta l’oggetto del credito, ma anche la sua causa addirittura in senso giuridico, cronologico, etc. pongono problemi differenti in tema di prova liberatoria. Ovviamente più il fatto da confutare è specifico più la confutazione è facile, perché basta provare la non veridicità di una delle componenti del fatto specifico; più il fatto è generico più la prova è essa stessa generica e difficile.

La confutazione di un atto dichiarativo di tipo totalmente generico anche se risulterebbe più difficile,può avvenire o con la dimostrazione di un fatto positivo contrario e quindi incompatibile con l’altro fatto evinto nella dichiarazione (dimostrando che il debito dichiarato è incompatibile con una situazione positiva); oppure – più facilmente – ci si potrà avvalere della specificazione nel fatto del giudizio. Per esempio, se nel giudizio l’attore specifica determinati fatti e allora il convenuto può opporre la non veridicità di quei fatti. O, ancora, laddove la specificazione avvenga per mano del convenuto e i fatti specificati non siano contestati dall’attore, ad esempio: “è vero che ti devo cento euro, ma è vero anche che quei cento euro te li ho dati il giorno dopo”, dimostrando come alcune sentenze consentono una spiegazione della non veridicità della dichiarazione senza entrare nella specifica confutazione di tutti i fatti.

Infine, il terzo tema d’attenzione posto dall' art. 1988 c.c. concerne l’ambito di applicazione dello stesso. È stato precedentemente affermato che la norma nella propria genericità è applicabile sia alle dichiarazioni pure che a quelle titolate.

In secondo luogo la tesi prevalente sostiene che l' art.1988 c.c. si applica solo alle dichiarazioni recettizie – secondo il dato letterale dichiarazione “a favore del quale” - per cui è dispensato solo il creditore in favore del quale è fatta tale dichiarazione.

Ancora, in ultimo, una tesi propende per l’applicabilità dell' art. 1988 c.c. anche alle dichiarazioni verbali (con la necessità, però, di provare che tali dichiarazioni ci siano state), altra tesi invece propende per una necessaria formalità delle dichiarazioni, sia in virtù della recettizietà delle dichiarazioni che sembra invocare una forma nella quale le dichiarazioni devono concretizzarsi, sia per la ratio della norma che è la facilitazione della prova ed è chiaro che una dichiarazione orale creerebbe ulteriori problemi scontrandosi con la finalità della norma.

Infine, la natura della norma occorre chiedersi se la natura della norma abbia carattere eccezionale o meno: i fautori della tesi tradizionale reputano che la norma sia eccezionale, si ritiene non estensibile ai diritti diversi da quelli di credito, come quelli reali, mentre coloro i quali la ritiengono principio generale, sostengono che sia applicabile anche alle ricognizioni dei diritti reali e non solo dei diritti di credito.

In sostanza, la prima prova che il creditore deve fornire è quella dell’esistenza del credito, questa prova compete, in base all' art. 2697 c.c. e al principio di vicinanza della prova, al creditore; a meno che non sussista un caso di astrazione processuale dipinte dall’art. 1988 c.c. o altre norme speciali; l' art. 1988 c.c. che prevede forme di dichiarazioni di scienza e non negozi, e che pone una prova liberatoria che si articola diversamente a seconda se una dichiarazione è titolata o meno e che in quanto all’ambito applicativo è recettizia, a forma scritta e forse estensibile anche ai diritti reali.

Riferimenti bibliografici

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