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Pubbl. Gio, 1 Feb 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Le obbligazioni pecuniarie

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Giuseppe Mainas


L´istituto giuridico in esame ha sempre ad oggetto delle somme di denaro cosicchè, da tali rapporti giuridici, possono scaturire varie sfaccettature all´interno dello stesso rapporto obbligatorio, così complesso e articolato come quello che abitualmente intercorre tra creditore e debitore in occasione delle obbligazioni ”de quibus”.


Sommario: 1. Premessa; 2. Prospettiva diametralmente opposta; 3. Principio nominalistico come derogabile e disponibile da parte dell'autonomia privata delle parti; 4. Estinzione delle obbligazioni per mezzi diversi dal denaro.

1. Premessa

Le obbligazioni pecuniarie sono delle obbligazioni che hanno ad oggetto una somma di denaro, all’interno delle quali si pone una dicotomia tra due tipologie di debiti, che hanno ad oggetto sempre una somma di denaro; approfondendo il campo si vede come i debiti pecuniari possono essere:

  • debiti di valuta: rispondono al principio nominalistico ex art. 1277 c.c., i debiti pecuniari si estinguono con moneta al loro valore nominale. Che cosa significa? Il debito di valuta è un’entità statica, immodificabile, non risente della variazione del valore della moneta nel tempo, non si adegua al mutamento del valore del tempo, non risente della perdita del potere di acquisto, della svalutazione, è insensibile alle questioni economiche.
  • debiti di valore: entità dinamica, risponde al principio valoristico, è un debito che si adegua al mutamento del valore del denaro nel tempo, un debito che si modifica nella sua entità al mutare e al variare del potere di acquisto della moneta.

Dal punto di vista dell’analisi economica del diritto, si comprende come il debito di valuta statico è un debito che avvantaggia il debitore; il principio nominalistico sotteso al debito di valuta è un principio elaborato nell’ottica del favor debitoris. Questo pone a carico del creditore il rischio della svalutazione, della perdita del potere di acquisto della moneta. Il debitore dovrà la stessa somma che ha un valore, attualizzato al momento in cui viene estinto, minore. Il debito di valuta in una prospettiva diacronica e sotto un aspetto economico risponde al principio del favor debitoris; ma ancora sempre in un’ottica di valutazione economica, lo stesso assolve ad una funzione di certezza delle relazioni giuridiche soggettive, e quindi di certezza dei traffici economici. Il debito è certo perché immodificabile; essendo insensibile alle variazioni del valore della moneta implica una certezza del debito/credito. La certezza è un valore per i traffici giuridici ed economici.

Abbiamo un principio elaborato nell’ottica del favor debitoris e della sicurezza dei traffici giuridici ed economici.

Diversamente il debito di valore, che si modifica nel tempo, risponde all’opposto principio quello valoristico, cioè si adegua al modificarsi al potere di acquisto del denaro, e ne deriva un vantaggio per il creditore. Il debito di valore adeguandosi al potere di acquisto della moneta, avvantaggia il creditore, operando nella prospettiva del favor creditoris: pone il rischio del mutamento del potere di acquisto della moneta (nel corso del tempo) a carico del debitore. La diversità dei debiti si riconosce anche in questa diversa prospettiva di tutela in cui si pongono.

Quindi:

  • Debito di valuta: principio nominalistico - favor debitoris; rischio della variazione del potere di acquisto a carico del creditore.
  • Debito di valore: principio valoristico - favor creditori; rischio della variazione del potere di acquisto a carico del debitore.

2. Prospettiva diametralmente opposta

Questa distinzione non si rinviene all’interno del codice civile ma si ricava dal sistema codicistico. Se il codice non indica la distinzione tra le due tipologie, a maggior ragione non può indicarne i criteri per la riconduzione del debito – nell’ambito dell’obbligazione pecuniaria – in una prospettiva piuttosto che nell’altra.

Che cosa qualifica un debito di valuta o di valore? Qual è il criterio se quell’obbligazione è di debito di valuta o di valore?

Il criterio è stato elaborato dalla giurisprudenza, nel silenzio della legge. Questo si fonda sull’oggetto dell’obbligazione; il criterio distintivo e discretivo si fonda sull’oggetto dell’obbligazione.

Il debito è di valuta quando l’oggetto dell’obbligazione è direttamente ed immediatamente una somma di denaro; quando il debito si identifica immediatamente in termini pecuniari. Si guarda al momento genetico dell’obbligazione, questa sorge fin dall’origine come un’obbligazione di denaro, la prestazione è sin dall’origine una somma di denaro.

All’opposto, il debito è di valore quando l’obbligazione nel momento in cui sorge non è direttamente e immediatamente una somma di denaro, non è identificabile in termini pecuniari dal suo nascere. L’obbligazione ha ad oggetto un bene diverso dal denaro, una prestazione diversa dal denaro. Sotto il profilo funzionale, l’interesse del creditore non è immediatamente una somma di denaro, è un interesse ad un bene diverso, che viene commisurato in termini pecuniari. Il denaro nel debito di valore misura il valore del bene che forma oggetto dell’obbligazione.

In questo si riconosce e si rinviene la differenza sostanziale ed ontologica tra le due tipologie di debiti nell’ambito della categoria delle obbligazioni pecuniari.

Nel debito di valuta, l’oggetto dell’obbligazione è direttamente una somma di denaro, l’interesse del creditore è l’interesse alla somma di denaro.

Nel debito di valore nella fase genetica non ha ad oggetto la somma di denaro, questo si configura come entità di misurazione e come bene sostituto; un bene succedaneo che misura il valore del bene che forma oggetto della prestazione. Per cui nell’ottica funzionale il creditore non ha interesse immediato e diretto alla somma di denaro, ma mira all’oggetto dedotto in obbligazione, che misurato in termini di denaro porta alla soddisfazione dell’interesse pecuniario del creditore; ma la valutazione in termini pecuniari è di un bene diverso dalla somma di denaro che forma oggetto dell’obbligazione pecuniaria.

Sulla base di questo criterio distintivo, l’obbligazione risarcitoria è di valore, perché l’oggetto della stessa è la riparazione del danno ingiusto, l’interesse del creditore non è ab origine l’interesse ad una somma di denaro, ma è l’interesse a veder riparato il danno che il danneggiante mi ha cagionato. Il denaro misura esclusivamente il danno recato all’interesse originario; misura il valore del danno subito dal danneggiato, è un bene sostituto-succedaneo che permette di riparare in termini pecuniari il danno. Vero è che il risarcimento può avvenire anche in forma specifica, cioè in senso uguale e contrario al modo in cui è avvenuto ed è stato recato il danno. La riparazione per equivalente, avente ad oggetto una somma di denaro, è una riparazione diversa, una riparazione succedaneo e diversa dall’oggetto originario.

La riparazione indennitaria è un’obbligazione di valore. L’interesse del danneggiato è alla riparazione, al ristoro del danno che ha subito, è la stessa prospettiva del risarcimento del danno. L’oggetto dell’obbligazione indennitaria non è la somma di denaro in via diretta e immediata, ma è la riparazione del danno subito, che si misura in termini pecuniari. Il denaro è lo strumento che permette di valutare l’entità del danno subito, non essendo l’oggetto diretto e immediato dell’obbligazione originaria.

Si ricordi che l’indennizzo è diverso dal risarcimento del danno, il primo scatta e opera quando il fatto del danneggiante reca un danno, ma non deriva da un fatto illecito, perché il fatto del danneggiante è un fatto dannoso lecito; la riparazione indennitaria risponde ad una prospettiva equitativa, si cerca di equilibrare il danno del danneggiato con l’interesse del danneggiante, tenendo in considerazione che il fatto di quest’ultimo è un fatto lecito, per cui la misura dell’indennizzo di regola è minore a quella del risarcimento del danno, che diversamente opera in un visione vittimologica del danneggiato. Funzione riparatoria-sanzionatoria del risarcimento del danno, funzione equitativo di giustizia distributiva l’indennizzo.

La ripetizione dell’indebito è un’obbligazione di valuta. Il debitore che ha eseguito un’obbligazione non dovuta, ha interesse alla ripetizione di quanto pagato, alla somma di denaro versata all’accipiens. L’obbligo resistutorio sorgente in capo al creditore, a fronte di un pagamento non dovuto, configura un debito di valuta. Perché l’oggetto dell’obbligazione restitutoria è la ripetizione di quella somma che il debitore ha pagato indebitamente.

Il criterio di fondo, illustrato in precedenza, ci fornisce la possibilità di qualificare l’obbligazione come di valuta o di valore.

La regola – sulla base di questo criterio elaborato dalla giurisprudenza – afferma che il debito pecuniario in senso stretto, cioè il debito che ha ad oggetto immediato e diretto una somma di denaro, è di valore. Il debito pecuniario stritu sensu inteso, cioè il debito che al momento in cui sorge ha ad oggetto una somma di denaro, risponde al principio nominalistico, per cui è qualifica di valuta.

L’articolo 1277 c.c. letto alla luce del criterio individuato dalla giurisprudenza sta a significare che il legislatore ha operato una scelta di politica del diritto: quando il debito è pecuniario in senso stretto, avente ad oggetto una somma di denaro in modo diretto e immediato, è di valuta, risponde cioè al principio nominalistico. Il legislatore opta per il favor debitoris; dietro la scelta del principio nominalistico c’è un assetto, un’impostazione nel diritto del diritto dell’obbligazione: il favor debitoris, la scelta del legislatore di tutelare la parte debole del rapporto obbligatorio.

La regola che individua le obbligazioni pecuniarie come di valuta non è assoluta, subisce delle eccezioni, che possono essere di fonte legale o convenzionale.

Eccezione di fonte legale al principio nominalistico: può essere la stessa legge che derogando al principio nominalistico qualifica diversamente il debito pecuniario in senso stretto.

Eccezione di fonte convenzionale al principio nominalistico: possono essere le parti a derogare, indicando come il principio nominalistico è disponibile.

3. Principio nominalistico come derogabile e disponibile da parte dell'autonomia privata delle parti

La deroga convenzionale consta nel fatto che le clausole di indicizzazione o di adeguamento, nell’ambito del diritto dei contratti - ad esempio un contratto di durata o un contratto ad esecuzione differita - questo viene stipulato alla data X ed eseguito alla data X+1 e sussiste uno iato temporale tra conclusione ed esecuzione. Quando il contratto viene stipulato, la parti stabiliscono l’entità della controprestazione pecuniaria; all’interno del sinallagma contrattuale le parti definiscono prestazione e controprestazione pecuniaria: debito di valuta, avente ad oggetto una somma di denaro in via diretta e immediata. Con una puntualizzazione, la controprestazione viene eseguita non al momento della stipula del contratto, ma in un momento successivo. Il denaro può subire un mutamento di valore nel tempo, e tanto maggiore è il differimento dell’esecuzione della prestazione, tanto maggiore sarà il rischio di mutamento di valore. Essendo il debito di valuta il rischio è posto a carico del creditore, il debitore è avvantaggiato dal fatto che la prestazione non viene eseguita al momento della conclusione del contratto, ma in un momento successivo: principio nominalistico - visione del favor debitoris. Il rischio della perdita del valore di acquisto è a carico del creditore.

La clausola di indicizzazione o di adeguamento si inscrive in questa dinamica contrattuale; la controprestazione in danaro subirà una modifica di valore sulla base della nuova indicizzazione della moneta. Il debito pecuniario non è più un’entità statica, ma diviene dinamica, si modifica l’entità della prestazione del debitore se si modifica il valore del denaro nel tempo. Il debito di valuta si trasforma in un debito di valore: principio valoristico convenzionale, sono le parti che sulla base dell’autonomia privata derogano al principio nominalistico stabilendo un principio valoristico di fonte convenzionale, che trasforma la natura dell’obbligazione pecuniaria da debito di valuta a debito di valore.

Allo stesso modo operano le clausole di hardship, le quali attribuiscono alle parti del contratto o ad un terzo il potere di modificare il contenuto del contratto. Si fondano sul principio rebus sic stantibus e che trovano riscontro nei contratti di durato o di esecuzione differita nel tempo, quei contratti che trovano un’evoluzione nel corso del tempo, perché eseguiti in un momento differito e diverso. Al momento della stipula del contratto ci sono precise condizioni, nelle quali lo stesso si iscrive; il contesto economico e giuridico nel momento in cui il contratto è stipulato si modifica nel tempo in cui lo stesso deve essere eseguito.

Le suddette clausole sono espressione di autonomia privata, le parti nella loro esplicazione del potere di autonomia negoziale, inseriscono nel contratto una previsione che attribuisce alle parti stesse o ad un terzo il potere di adeguare il negozio al mutamento del contesto nel quale lo stesso si inscrive. Quando il contratto deve essere eseguito sono mutate le condizioni come previste al momento della stipula, per cui l’equilibrio contrattuale non è più garantito, è alterato il sinallagma contrattuale. Il contratto nel momento della sua stipula garantiva un certo equilibrio delle prestazioni, nella specie della prestazione pecuniaria; dato il valore della moneta al tempo in cui il contratto è stato stipulato, è stato fissato un determinato prezzo come corrispettivo, in modo che si abbia proporzione tra prestazione e controprestazione. Ma quando il contratto deve essere eseguito, si è modificato il valore della moneta, per cui si è modificato anche il valore della controprestazione; essendo il debito di valuta, quella controprestazione sarebbe insensibile alla variazione del potere di acquisto della moneta, con il rischio posto in capo al creditore e con il corrispondente vantaggio tratto dal debitore.

Come agiscono allora le clausole di hardship? Attribuiscono ad un terzo o alle parti il potere di modificare l’entità della controprestazione pecuniaria per adeguarla al nuovo valore, trasforma il debito di valuta in debito di valore, produce lo stesso effetto della clausola di indicizzazione.

Potendo modificare, sulla base dell’esplicazione dell’autonomia negoziale, l’entità della controprestazione pecuniaria, tenendo in considerazione la modificazione del valore della moneta nel tempo, quella clausola costituisce espressione di un principio valoristico convenzionale, una deroga del principio nominalistico, trasformando il debito di valuta in debito di valore.

L’effetto della clausola di hardship è pari a quello delle clausole di indicizzazione o di adeguamento, con la differenza che si ritrova nell’operatività delle due tipologie: la seconda opera automaticamente sulla base di criteri predeterminati-prefissati, le parti prevedono che alla modifica del valore della moneta, si modifichi parimenti il valore della controprestazione pecuniaria; l’adeguamento della prestazione pecuniaria è prestabilito sulla base di criteri rigidi e predeterminati. Al contrario la clausola di hardship non opera automaticamente, ma discrezionalmente, si rimette alla parte o al terzo il potere di rideterminare l’entità della prestazione pecuniaria, tenendo in considerazione il mutamento del valore del denaro del tempo.

La funzione è equivalente: per entrambe le clausole la funzione è di tipo manutentivo, sono clausole di manutenzione del contratto. Si consente di adeguare il contratto al mutamento delle circostanze esistenti all’atto della stipulazione del contratto; nel momento dell’esecuzione non è garantito più l’equilibrio delle prestazioni che le parti avevano inteso realizzare inizialmente, perché è cambiato il contesto che ha condotto ad una modificazione del valore della moneta. Tale mutamento ha condotto a un disequilibrio delle prestazioni contrattuali, per cui l’adeguamento che interviene per mezzo delle suddette clausole permette di manutenere il contratto, di ricondurre ad equilibrio le prestazioni dedotte in contratto al momento della stipula. Manutenere = adeguare-ristabilire l’equilibrio delle prestazioni, del sinallagma contrattuale, dell’assetto degli interessi inizialmente divisato dalle parti.

Nell’essere uno strumento di manutenzione queste clausole costituiscono un mezzo di conservazione del contratto; conservano il contratto, perché adeguandolo evitano ad esempio la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. Modificandosi il valore della moneta, la controprestazione è divenuta eccessivamente onerosa, per cui si possono configurare i presupposti dell’articolo 1467 cc e produrre un effetto caducatorio del contratto, lo scioglimento del vincolo contrattuale perché questo non è più in equilibrio.

L’ articolo 1467 c.c. esprime – per le obbligazioni pecuniarie – un principio valoristico di fonte legale.

Lo stesso articolo prevede uno strumento che consente di evitare la caducazione del contratto al verificarsi dell’eccessiva onerosità sopravvenuta. L’art. 1467 c.c., nel prevedere la caducazione per il venire meno dell’equilibrio, consente tale effetto riportando in equilibrio il contratto: secondo il disposto del comma 3, la parte può evitare lo scioglimento del vincolo contrattuale offrendo di modificare equamente il contratto stesso. La stessa norma che prevede la caducazione, offre alla parte un mezzo, attribuisce il potere alla parte di evitare tale estrema conseguenza, proponendo alla controparte una modificazione dell’entità della controprestazione pecuniaria per riportare in equilibrio il contratto, per rideterminare il valore della prestazione in relazione al valore della controprestazione pecuniaria e conservare il contratto. Il legislatore prevede uno strumento di manutenzione legale del contratto, che consente di conservarlo, riconducendo ad equilibrio lo stesso.

Inserendo tale norma all’interno della disciplina delle obbligazioni pecuniarie si attua una trasformazione del debito, che da valuta diviene di valore, mutando la sua natura statica.

L’art. 1467 c.c. nella parte in cui consente di evitare la risoluzione del contratto prevista dal medesimo articolo, introduce uno strumento di manutenzione legale di adeguamento legale del contratto inspirato al principio valoristico: l’entità della controprestazione pecuniaria non viene considerata staticamente, ma dinamicamente, può essere modificata. Il legislatore considera il valore della prestazione, non la valuta. Deroga al principio nominalistico di fonte legale.

Riassumendo:

la regola impone che la prestazione inizialmente pecuniaria risponde al principio nominalistico, che non è però assunto in modo assoluto, ma può subire e conosce delle deroghe, sia nella disponibilità delle parti, quindi convenzionale (clausole di hardship), sia previste dalla legge (art. 1467 cc). Troviamo in ciò delle eccezioni al principio nominalistico nel principio valoristico convenzionale e legale, rintracciati nelle clausole di adeguamento/indicizzazione e di hardship, ovvero nella norma prevista dall’ultimo comma dell’articolo 1467 cc.

4. Estinzione delle obbligazioni per mezzi diversi dal denaro

Le obbligazioni che hanno ad oggetto una soma di denaro si estinguono con la dazione della somma di denaro nella misura dedotta in contratto; la prestazione che forma oggetto della prestazione pecuniaria è di dare una somma di denaro, l’adempimento si sostanzia in una prestazione di dare la somma di denaro dovuta. Tale premessa è necessaria per comprende a pieno la problematica che ruota attorno alla estinzione della obbligazione per mezzo di strumenti diversi dal denaro, alternativi al contante. Il debitore che, anziché pagare con una somma di denaro, effettua il pagamento con uno strumento alternativo, effettua un adempimento che estingue l’obbligazione pecuniaria e soddisfa l’interesse del creditore alla somma di denaro? La posizione (precedente) della giurisprudenza sul punto è stata nel senso che il pagamento con uno strumento alternativo al denaro non può essere considerato adempimento, perché il debitore non effettua la prestazione dovuta; quest’ultima si sostanzia nello specifico nel dare una somma di denaro e il debitore tecnicamente adempie correttamente quando da una somma di denaro. Il soggetto, che effettua il pagamento con uno strumento alternativo al contante, non sta eseguendo la prestazione dovuta, ma sta eseguendo una prestazione in luogo dell’adempimento, cioè una datio in solutum ex art. 1197 c.c.; si sta eseguendo una prestazione diversa, sta utilizzando uno strumento alternativo al denaro contante.

La giurisprudenza sulla base di queste considerazioni, in passato, si era orientata per non considerare adempimento un pagamento effettuato in questo senso. Veniva considerata una datio in solutum, ma non un adempimento. Il creditore può dunque rifiutare la prestazione, diversamente se fosse considerata un adempimento; perché in quest’ultimo caso il creditore tramite l’offerta formale verrà messo in mora, il rifiuto darà luogo alla mora del creditore.

Perché quella prestazione alternativa, avente ad oggetto il pagamento per mezzo di uno strumento alternativo al denaro e soddisfi parimenti l’interesse del creditore, possa configurare un modo di adempimento, e di conseguenza un modo di estinzione dell’obbligazione, occorre:

  1. La volontà del debitore di effettuare quella prestazione per estinguere la prestazione;
  2. Il consenso del creditore che accetta una prestazione diversa al fine di estinguere la prestazione;
  3. L’effettiva riscossione da parte del creditore, cioè l’incasso della somma di denaro.

Affinché quella prestazione venga qualificata come un modo di estinzione dell’obbligazione, perché effettuata con uno strumento diverso dal contante, occorre che ricorrano i tre presupposti su menzionati; solo in questo caso si può parlare di estinzione, e di adempimento puntuale della prestazione, diversamente si avrebbe una datio in solutum, in quanto la prestazione, non avendo ad oggetto una somma di denaro, è una prestazione diversa.

La volontà del debitore di estinguere l’obbligazione con la prestazione diversa e il consenso del creditore concretizzano un contratto, incontrandosi proposta e accettazione della diversa prestazione; è contratto che produce i suoi effetti nel momento in cui il creditore riscuote la somma.

L’assunto della giurisprudenza, che non ammetteva il diverso pagamento, inizia a entrare in crisi quando la stessa viene chiamata a considerare la natura di alcuni strumenti alternativi che sono sostanzialmente identici al contante, primo fra tutti l’assegno circolare. Questo per le sue caratteristiche equivale ad un pagamento con denaro, cioè il debitore che paga con assegno circolare è come se pagasse con moneta. Questa equivalenza, data la natura e le caratteristiche dell’assegno circolare e la sicurezza della riscossione che viene fornita al creditore, pone la giurisprudenza nelle condizioni di considerare l’assegno circolare come denaro contante. Per cui il debitore che paga con l’assegno è come se pagasse con denaro contente, e quindi esegue esattamente la prestazione dovuta, cioè adempie l’obbligazione pecuniaria. Si ha adempimento e non più datio in solutum; di conseguenza se il debitore adempie il creditore non può più rifiutare la prestazione offerta, pena la mora credendi.

Estendendo quest’impostazione oltre il mero assegno circolare, la giurisprudenza arriva oggi in maniera unanime ad affermare che ogni strumento di pagamento alternativo al contante che garantisce al creditore la riscossione della somma di denaro, è un pagamento che equivale al pagamento con denaro, di conseguenza il creditore non può rifiutare, perché se così non facesse porrebbe in essere un comportamento contrario alla buona fede. Si vede in questo modo come la buona fede entra nell’esecuzione del rapporto obbligatorio, la buona fede opera in executiviis. Nel rapporto obbligatorio, il creditore che rifiuta il pagamento effettuato con uno strumento alternativo che assicura l’incasso, pone in essere un comportamento contrario alla buona fede; il creditore non lo può rifiutare, altrimenti si porrebbe inadempiente rispetto ad un obbligo che sorge dalla buona fede integrativa. Questa integra gli obblighi primari che derivano dal rapporto obbligatorio: vincola il creditore ad accettare qualunque pagamento effettuato con uno strumento alternativo al contante che assicura l’incasso della somma dovuta.

In questo modo, assumendo la buona fede come regola integrativa e fonte di obblighi, la giurisprudenza inverte l’onere della prova: è il creditore, al quale viene offerto il pagamento, che deve provare che quel pagamento non garantisce la sicurezza del riscatto e quindi è rifiutabile senza ledere la buona fede; non è più il debitore che deve provare che lo strumento che sta utilizzando garantisce l’incasso e quindi il creditore lo deve accettare, è il creditore, sul quale grava l’onere di buona fede, che è sottoposto alla prova contraria. Il creditore deve provare che quello strumento non gli garantisce la riscossione della somma e di conseguenze è legittimato il suo rifiuto.

Riferimenti bibliografici

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