• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Sab, 4 Nov 2017

Il danno da demansionamento può essere provato sulla base delle presunzioni semplici

Modifica pagina

Alessandra Inchingolo


La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22288 del 25 settembre 2017, definisce il fondamento della risarcibilità e la prova del danno non patrimoniale nell´ambito del rapporto di lavoro


Sommario: 1. Inquadramento del lavoratore e demansionamento; 2. La tutela del lavoratore contro il demansionamento illegittimo. Onere della prova e presunzioni; 3. La sentenza della Suprema Corte del 26 settembre 2017 sul danno da dequalificazione professionale.

1. Inquadramento del lavoratore e demansionamento.

Per principio generale un lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato. Il fine del divieto è quello di tutelare la professionalità acquisita dal lavoratore, altrimenti si parla di demansionamento.

Infatti, all’atto dell’assunzione, il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui viene assunto. In mancanza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda.

Comunemente si distinguono il demansionamento dalla dequalificazione, ricorrendo il primo quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività, mentre si parla di dequalificazione professionale, quando il lavoratore viene impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Tuttavia, entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

In talune ipotesi il ricorso al demansionamento è lecito quando interviene una modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso, e/o previste dai contratti collettivi. In entrambi i casi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Le modifiche apportate con il Jobs Act hanno reso possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita). Mentre il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.

Proprio in materia di onere della prova e risarcimento del danno, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, stabilendo che sia escluso quando: a)Il lavoratore sia adibito a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza; b) sopravviene un’infermità permanente; c) vi è riclassamento del personale, ovvero un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni da parte del nuovo CCNL.

La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori sarebbe legittima sia che fosse disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.

Per valutare un demansionamento è necessario che l’incarico cui il lavoratore sia adibito non sia di natura temporanea, pertanto se il lavoratore viene adibito solo provvisoriamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni è chiaro che non si è concretizzato alcun demansionamento.

2. La tutela giurisdizionale del lavoratore contro il demansionamento illegittimo. Onere della prova e presunzioni

E’ evidente che il lavoratore ha il diritto a conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore.

Dunque, se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo e quindi il lavoratore potrà adire le vie legali, attivando una causa di lavoro, onde poter chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche solo provvisoria.

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che conseguentemente ne deriva, necessita di una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.

Tuttavia, se da un lato il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica acclarabile attraverso referti medici, il danno esistenziale che consiste in qualsivoglia pregiudizio  -che alteri le sue abitudini e gli equilibri relazionali propri, comportando scelte di vita diverse da quelle congeniali alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento. In questi termini assume, peraltro, preminente rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi riverberati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (Così Cass. civ., SS.UU., sentenza 24 marzo 2006, n. 6572).

3. La sentenza della Suprema Corte del 26 settembre 2017 sul danno da dequalificazione professionale.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con sentenza n. 22288 del 26 settembre 2017 ha precisato che il danno non patrimoniale, che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale, deve essere risarcito quando sia conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti; la sussistenza di tale danno può essere provata anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento.

La pronuncia prende le mosse a seguito del rigetto del ricorso presentato da un’azienda condannata in appello a risarcire ad un dipendente demansionato il danno  esistenziale per "lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale", derivante da  attribuzione di mansioni inferiori per un periodo di circa 2 anni.

Il principio che emerge con chiarezza fa riferimento ad un orientamento giurisprudenziale consolidato secondo il quale l’inadempimento datoriale non cagiona automaticamente l’esistenza del danno, perché quest’ultimo non è  de plano riscontrabile a causa di un atto potenzialmente lesivo. Infatti l'inadempimento è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva. E ciò in quanto, se è vero che il risarcimento del danno mira a ristorare il pregiudizio che determina un minus nel patrimonio del danneggiato, nel caso in cui non vi sia una perdita subita o il mancato guadagno, il diritto al risarcimento non si configura. Tuttavia l’inadempimento del datore di lavoro, può ingenerare una serie di effetti lesivi per il lavoratore quali il danno professionale quali il danno all’integrità psico-fisica, danno all’immagine e alla vita di relazione, entrambi assorbibili nella nozione di danno esistenziale. Per tale motivo si rende necessaria una specifica allegazione da parte del lavoratore che deve puntualizzare quale di essi ritenga di aver subito, formendo specifiche prove dalle quali emerga il danno lamentato.

Nel caso specifico per  la Cassazione, invece, la Corte di appello  aveva  estrapolato in maniera corretta un giudizio in ordine al demansionamento del lavoratore attraverso un procedimento logico-giuridico ineccepibile fondato sulle acquisizioni probatorie assunte, che non è censurabile in sede di legittimità.

Si evidenzia quindi che la sussistenza di tale danno può essere  provata, non solo tramite l'allegazione di prove testimoniali o  documentali specifiche, ma "anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento".