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Pubbl. Mer, 25 Ott 2017

L´inferiorità psichica nella violenza sessuale

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Chiara Anna Pia Giordano


Commento a Cass. III sezione penale, sentenza 18 luglio 2017, n. 35145, sul tema dell´inferiorità psichica nella violenza sessuale.


L'art. 609-bis c.p., rubricato "Violenza sessuale", sancisce:

"Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi"[1].

Presupposto necessario di tale delitto è il costringimento subito dal soggetto passivo che può aversi tramite violenza fisica, minaccia e abuso di autorità[2]. Il comma secondo comprende due ipotesi di violenza sessuale mediante induzione, cioè posta in essere non mediante azione diretta sulla persona offesa, ma secondo modalità specificamente descritte idonee a suggestionare la volontà della vittima, sostituendo, di tal guisa, l'abrogato delitto di violenza carnale presunta ex art. 519 c.p., comma secondo.

La Corte di Cassazione III sez. penale con sentenza 18 luglio 2017, n.35145 ha recentemente affrontato tale delicato tema. Nello specifico, la Corte di Appello di Roma ha confermato una sentenza emessa dal Gup del Tribunale di Roma, in sede di giudizio abbreviato, con la quale l'imputato, in qualità di psicoterapeuta, è stato condannato per il delitto di cui all’art. 609 bis, comma 2 n.1, c.p. per avere avuto un rapporto sessuale completo con una sua paziente contro la sua volontà, abusando della sua condizione di inferiorità psichica. Volendo utilizzare la precisa terminologia dei giudici di appello il terapeuta ha usato "subdolamente la sua posizione di psicoterapeuta [...] approfittando di tale condizione per accedere alla sfera intima della persona offesa nonché della condizione di inferiorità psichica della stessa"[3], facendo leva sul rapporto di soggezione tra paziente e terapeuta, al punto tale da indurre la donna a soggiacere rispetto al rapporto sessuale, minandone la capacità di reazione e di opposizione. In questo modo, i giudici di appello hanno concluso che la minore capacità della vittima di esprimere efficacemente il proprio dissenso fosse stata generata dalla fragilità psicologica che l’aveva indotta a richiedere il sostegno del terapeuta, oltre che dal rapporto di soggezione che normalmente si instaura tra lo psicoterapeuta ed il paziente stesso.

Avverso tale pronuncia l’imputato ha eccepito, in primis, travisamento della prova, atteso che non potevano bastare le sole dichiarazioni della donna, in quanto inattendibili. Già questa prima doglianza a sostegno della difesa del terapeuta, non è affatto convincente, in quanto sono proprio le modalità con le quali è stato denunciato quanto accaduto che convincerebbero chiunque – giurista, medico o “profano” – del ridotto stato di capacità volitiva nel quale versava la paziente. Infatti, se in un primo momento la donna raccontò “come se fosse la cosa più normale di questo mondo che lo psicoterapeuta a cui si era rivolta aveva avuto con lei un rapporto sessuale completo[4]”, passato lo stordimento derivante dallo shock che l’evento le aveva ingenerato, parlando con una sua amica realizzò la gravosa situazione, fino a confidare ad una ginecologa dell’Asl di Roma di essere stata vittima di “plagio” per aver subito un rapporto sessuale completo con il suo psicoterapeuta “senza usare violenza fisica, ma sicuramente contro la sua volontà”. A ulteriore conferma del racconto della persona offesa, i giudici hanno rilevato che costei aveva cancellato i successivi appuntamenti, già calendarizzati.

L’ulteriore motivo a sostegno della difesa consiste nel ritenere che “le donne nei primi approcci assumono un comportamento falsamente passivo, perché il gioco delle parti, ereditato dalle madri, questo imponeva alle fanciulle”[5]. Tale spiegazione è assolutamente aberrante: proprio tale passività avrebbe dovuto letteralmente bloccare il terapeuta dal perpetrare le avance già precedentemente iniziate. Si nota, infatti, che già nel corso delle visite precedenti, il professionista toccò il seno della paziente, lasciando la stessa attonita, spiazzata ed intimidita. Ciò avrebbe dovuto, ovviamente, frenare non solo l’uomo medio[6], quanto soprattutto il terapeuta il quale, non essendo un quisque de populo, ha le conoscenze e competenze tecniche e professionali tali da riconoscere in una paziente una difficoltà cognitiva.

A tutto ciò si aggiunga l’esposto che alcuni giovani avevano presentato contro il terapeuta in questione al Consiglio dell’Ordine degli Psicologi di Roma, nel quale si riferiva che, in occasioni delle sedute terapeutiche tenute dall’imputato, “i racconti dei vissuti personali venivano espressi in psicodinamiche caratterizzate comunque da una forte fisicità, estremizzati e da scontri violenti e dalla simulazione di amplessi di coppia e di gruppo”.

La Suprema Corte di Cassazione, dunque, rigetta le argomentazioni difensive attraverso le quali il ricorrente cerca di offrire una spiegazione alternativa rispetto a quella offerta dalle sentenze di merito, presentandola come maggiormente plausibile sul piano del senso comune, secondo l’id quod plerumque accidit.

Ciò perché vi è un ormai consolidato orientamento in seno alla giurisprudenza di legittimità, concernente i criteri di valutazione della testimonianza delle persone offese in materia di reati sessuali: in argomento, questa Corte ha ripetutamente affermato che la deposizione della persona offesa possa configurarsi, nel vigente ordinamento processuale, come prova piena, come tale non necessitante di alcun elemento di riscontro[7]. Tale peculiare disciplina costituisce un riflesso del dato, tratto dalla comune esperienza giudiziaria, per cui, in genere, la vittima delle condotte di abuso sessuale costituisce l’unico testimone del reato, e quando l’abuso viene realizzato senza l’esercizio di una brutale forza fisica, è frequente che non residuino tracce materiali di quanto patito dall’offeso.

Essendo ineccepibile il ragionamento logico – giuridico posto a fondamento di tale pronuncia di condanna, i Giudici di legittimità sanciscono il seguente principio di diritto: la persona offesa non deve versare necessariamente in uno stato di conclamata psicopatologia ma anche in una semplice condizione di menomazione dovuta sia a fenomeni patologici, permanenti o passeggeri, di carattere organico o funzionale, e sia a traumi e fattori ambientali tali da incidere negativamente sulla formazione della personalità dell’individuo. È, dunque, richiesto che la vittima venga indotta all’atto sessuale mediante abuso della predetta condizione di inferiorità, atteso che in tale evenienza il consenso, pur apparentemente prestato in un contesto di assoluta libertà, è in realtà viziato da una assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni.  La condizione di inferiorità deve, dunque, evidentemente sussistere al momento dell'atto sessuale e si riferisce non solo alla condizione di minorazione o deficienza dovuta a patologie organiche o funzionali, ma anche alla situazione di carenze affettive e familiari.

La stessa Cassazione con pronuncia n. 14085/2013 ha sancito che l'idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima va esaminata non secondo criteri astratti e aprioristici, ma valorizzando in concreto ogni circostanza oggettiva e soggettiva, sicché essa può sussistere anche in relazione ad una intimidazione psicologica attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima

In ultimo, la Suprema Corte con sentenza n. 14437/2014 ritiene che non può essere riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di minore gravità (ex art. 609-bis, ultimo comma, c.p.) – chiesta, nel caso in esame, dalla difesa ma rigettata dalla Cassazione – ove “il reato di violenza sessuale sia commesso da un docente all'interno di un istituto scolastico, posto che questo è un luogo all'interno del quale l'alunno deve sentirsi protetto e che, però, rende particolarmente vulnerabile la vittima per il rischio di attenzioni sessuali illecite derivanti dall' approfittamento del rapporto fiduciario intercorrente con l'insegnante”. Evidente è il collegamento con col casus di specie, in quanto si tratta dello stesso rapporto fiduciario intercorrente tra medico e paziente e della stessa protezione che il primo deve al secondo.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] L'art. 609 ter. prevede una serie di circostanze aggravanti, in particolare:
"La pena è della reclusione da sei a dodici anni se i fatti di cui all'articolo 609-bis sono commessi:
1) nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici;
2) con l'uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa;
3) da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio;
4) su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale;
5) nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni sedici della quale il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore;
5 bis) all’interno o nelle immediate vicinanze di istituto d’istruzione o di formazione frequentato dalla persona offesa.
5-ter) nei confronti di donna in stato di gravidanza;
5-quater) nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza;
5-quinquies) se il reato è commesso da persona che fa parte di un'associazione per delinquere e al fine di agevolarne l'attività;
5-sexies) se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.
La pena è della reclusione da sette a quattordici anni se il fatto è commesso nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci
".
[2] Tanto di pubblica autorità (ad es. nei confronti di un soggetto detenuto), tanto di autorità privata (ad es. tra datore di lavoro e lavoratore)
[3] Già in passato la Cassazione con pronuncia n. 20766/2010 ritenne che l'abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica (art.609 bis, comma secondo, n. 1, c.p.) consiste nel doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica quando le richiamate condizioni sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in uno stato di difficoltà, viene ridotta ad un mezzo per l'altrui soddisfacimento sessuale.
[4] È questa la terminologia specificamente usata in un primo momento dalla paziente in un confronto con un medico.
[5] Così l’imputato a foglio 5 del ricorso per Cassazione.
[6] Si intende colui dotato della c.d. diligenza del buon padre di famiglia, senza alcuna specifica competenza tecnica.
[7] Diversamente dalle dichiarazioni degli ordinari testimoni, cui si applica il più rigoroso regime stabilito dall’art. 192, comma 3 c.p.p.