Pubbl. Ven, 11 Ago 2017
L´attitudine del coniuge al lavoro per la determinazione dell´assegno di mantenimento
Modifica paginaLa recente pronuncia della Cassazione civile, sez. VI, 20.07.2017, n. 17971 ha stabilito che “In tema di separazione ed assegno di mantenimento, l´attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un´attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche.”
Negli ultimi mesi l’assegno di mantenimento è stato oggetto di importanti pronunce da parte della Corte di Cassazione anche se, va osservato, tali pronunce si sono limitate all’esame del caso dell’assegno divorzile: ad esempio, con la sentenza n. 12196 del 16.05.2017 è stato previsto che, solo dopo il divorzio, il mantenimento dell’ex moglie non va più determinato sulla base del tenore di vita di cui si godeva in costanza di matrimonio mentre nel caso della separazione resta ancora il vincolo tra i due coniugi.
Nella recente pronuncia n. 17971 del 20.07.2017, la Suprema Corte si è pronunciata sulla rilevanza della capacità lavorativa del coniuge richiedente stabilendo che “l’attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche”.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Venezia, riformando la sentenza del Tribunale di Padova, aveva rideterminato il quantum dell’assegno mensile dovuto dal marito in favore della moglie, in quanto aveva valutato come sussistesse tra i coniugi una “consistente disparità economica”. La Corte aveva infatti posto in evidenza come, mentre il marito potesse contare su “una fonte di reddito stabile e continuativa”, la moglie non aveva più svolto, dall’agosto 2014, attività lavorative di carattere continuativo e pertanto “non rileva la sua astratta attitudine al lavoro proficuo, difettando comunque qualunque concreta capacità di guadagno”.
Avverso tale pronuncia, il marito proponeva ricorso per Cassazione adducendo tra i motivi la statuizione sull’an ed il quantum dell’assegno di mantenimento determinato in favore della moglie: i giudici hanno ritenuto infondata tale censura ribadendo come la capacità lavorativa rilevi solo se “effettiva”. Dunque, i Giudici provvedevano al rigetto del ricorso proposto.
Ma quali sono i criteri per la determinazione dell’assegno di mantenimento? L’articolo 156 del codice civile pone quale presupposto per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento che la separazione non sia addebitabile al richiedente e che questi non abbia un reddito proprio sufficientemente adeguato; inoltre la dottrina maggioritaria ritiene che tra i presupposti vi sia anche quello, implicito, dello squilibrio economico tra i due soggetti.
Con riguardo a quest’ultimo parametro, questo viene individuato nel tenore di vita tenuta durante la convivenza coniugale per cui l’assegno di mantenimento dovrebbe consentire al coniuge che non ha un reddito sufficiente di poter conservare quel medesimo tenore di vita.
L’articolo 156 del codice civile non fa alcun riferimento alla capacità lavorativa del coniuge che richiede l’assegno, tuttavia, si ritiene essere un parametro necessariamente rilevante al fine di valutare la capacità reddituale. Va, inoltre, osservato come, diversamente da quanto stabilito per il divorzio dalla legge n. 898 del 1970, all’articolo 5 comma 8, la norma codicistica non prevede che per l’ottenimento dell’assegno di mantenimento il coniuge debba procurarsi un reddito adeguato.
La ratio di tale scelta legislativa, è stata oggetto di chiarimenti da parte della Suprema Corte che, con la pronuncia n. 18920 del 2003, poiché nel caso della separazione si conservano (per quanto possibile!) gli effetti del matrimonio, ha ritenuto che “una mancata previsione del genere, nell’art. 156 c.c., appare niente affatto priva di ragion d’essere, in quanto, se prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto per facta concludentia) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione (evitando, così, tra l’altro, che il coniuge che non lavorava sia costretto di colpo a trovarsi un’occupazione), atteso che la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore ed il tipo di vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio, capace di scogliere a tutti gli effetti il matrimonio, la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminente assistenziale che, in quanto tale, presuppone nell’ex coniuge assistito non solo la mancanza di mezzi economici adeguati, ma anche l’oggettiva impossibilità di procurarseli mettendo altresì a frutto le proprie capacità di lavoro”.
Per cui si evince la “sostanziale” diversità tra l’assegno di mantenimento e quello di divorzio: mentre il primo ha il fine di consentire al coniuge avente reddito insufficiente di mantenere il medesimo tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, l’assegno divorzile fa esclusivamente riferimento alla mancanza di indipendenza dell’ex-coniuge (senza alcun riferimento, come posto in evidenza dalla già citata pronuncia n. 12196 del 16.05.2017, al tenore di vita matrimoniale).
In ogni caso, nel valutare la capacità lavorativa bisogna bilanciare l’interesse del coniuge beneficiario dell’assegno a mantenere un certo tenore di vita ma anche evitare un abuso di tale previsione normativa: è per questo che l’attitudine al lavoro del coniuge va valutata nella sua effettività con riferimento a fattori concreti (ad esempio, può essere valutata la lunga inattività oppure, se la separazione è avvenuta dopo che fosse trascorso poco tempo, un breve periodo di inattività non può ritenersi poter compromettere le potenzialità lavorative.