Pubbl. Mer, 28 Giu 2017
Successione nel tempo delle norme di dubbia natura sostanziale e processuale
Modifica paginaQuando la norma è di tipo processuale, la vicenda modificativa della stessa non è retta dal principio del favor libertatis (divieto di retroazione sfavorevole ed obbligo di retrazione favorevole a certe condizioni), ma dal principio tempus regit actum, ragion per cui occorre analizzare vari istituti ed orientamenti giuridici.
Sommario: 1. Premessa; 2. La prescrizione; 3. La sentenza Cestaro; 4. La sentenza Taricco; 5. La custodia cautelare; 6. La sospensione del procedimento con messa alla prova.
1. Premessa
Alla successione delle norme penali nel tempo si applica il principio di irretroattività sfavorevole e il principio della retroattività favorevole.
A monte c’è il principio del favor libertatis, cioè quando il legislatore modifica le norme che attengono all’an puniendi e alle modalità della punizione, quindi alla responsabilità e al trattamento sanzionatorio, deve trovare applicazione nel disciplinare la vicenda successoria il principio del favor che impone:
- da un lato che non retroagisca la norma sopravvenuta sfavorevole;
- dall’altro che retroagisca la norma sopravvenuta favorevole.
Questa esigenza di favor vale per le norme penali sostanziali, perché si occupano appunto dell’an puniendi e del trattamento sanzionatorio.
Tale favor non vale tuttavia per le norme che non si occupano del reato, cioè della responsabilità, degli elementi costitutivi del reato, della pena con cui punirlo, ma del luogo in cui si accerta la sussistenza del reato e cioè le norme che si occupano del processo (norme cd. processuali).
Quando la norma è processuale, la vicenda modificativa della norma in questione non è retta dal principio del favor (divieto di retroazione sfavorevole e obbligo di retrazione favorevole a certe condizioni), ma dal principio tempus regit actum, in forza del quale le fasi processuali e gli atti processuali sono disciplinati dalla norma vigente al momento in cui vengono in considerazione gli atti, con la conseguenza che intervenuta una modifica di una norma processuale gli atti compiuti prima conservano la loro validità ed efficacia, gli atti da compiere il giorno dopo soggiacciono all’operatività della nuova norma processuale, anche se l’applicazione di questa nuova norma processuale dovesse implicare effetti di sfavore per l’imputato.
Il problema si pone con riguardo alle norme di indubbia natura: processuali o sostanziali?
Cioè il problema si pone quando la novità legislativa riguarda istituti dalla dubbia natura giuridica (prescrizione, messa alla prova, custodia cautelare e altri), in questi casi occorre verificare quale sia la natura dell’istituto e della norma sopravvenuta e concludere conseguentemente per l’applicazione delle regole successorie delle norme sostanziale (art. 25 cost art. 2 c.p.) o delle norme processuali.
Ecco i temi più discussi.
2. La prescrizione
Il problema successorio non si pone nel caso in cui, previsto un certo termine prescrizionale per una fattispecie astratta contestata all’indagato/imputato, interviene una nuova disciplina della prescrizione che allunghi il termine prescrizionale per quella tipologia di reato, ma intervenga quando già è decorso per intero il termine prescrizionale previsto dalla norma vigente al momento del fatto (ad es. la norma vigente al momento del fatto prevede per il reato X contestato all’imputato il termine di prescrizione di 7 anni la norma sopravvenuta lo allunghi a 10 anni ma sopravviene quando i 7 anni sono già decorsi in concreto).
Il problema successorio si pone invece quando l’allungamento del termine prescrizionale interviene pendente il termine prescrizionale previsto dalla norma previgente (es. termine prescrizione anni 7, nel corso del 5° anno interviene una novità legislativa che allunga a 10 il termine di prescrizione).
Ci si chiese se questa novità debba applicarsi al caso di specie o se invece la sua applicazione non implichi violazione del principio di irretroattiva sfavorevole.
La soluzione della questione è connessa alla soluzione che si della natura giuridica della prescrizione e delle disposizioni che la regolano. Se si ritiene che la prescrizione e le norme che la regolano abbiano natura penale sostanziale: deve concludersi per l’applicazione delle regole successorie proprie della successione tra norme sostanziali.
Quindi se la norma sopravvenuta prolunga il termine prescrizionale previsto dalla norma previgente deve applicarsi il principio di irretroattività sfavorevole.
La giurisprudenza italiana ha considerato quasi sempre, in queste ipotesi, non applicabile la nuova disposizione che abbia allungato il termine prescrizionale la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione quale non condizione di procedibilità dell’azione penale ma causa di estinzione prevista dal legislatore sull’assunto che decorso un certo termine temporale si affievolisce l’interesse statuale e quindi viene meno la pretesa punitiva.
Quindi natura sostanziale dell’istituto, della relativa disciplina e della norma sopravvenuta = applicazione del principio di irretroattività sfavorevole, onde violare l’art. 25 comma 2 cost e art. 2 comma 1 c.p.
Se la norma sopravvenuta riduce il termine prescrizionale previsto dalla norma previgente si hanno due ipotesi:
- Nel caso in cui la norma sopravvenuta nulla dica, dovrebbe applicarsi retroattivamente in omaggio al principio di retroattività favorevole;
- Il problema si è posto nel caso in cui il legislatore, nell’introdurre la disposizione più favorevole nel punto di prescrizione, contraendo il termine, introduca al contempo un limite alla retroazione.
È quanto accaduto con la Legge Cirielli, ex art.10 comma 3, in forza del quale le più favorevoli disposizioni in punto di prescrizione non si applicano ai reati già commessi allorchè il processo al momento dell’entrata in vigore della legge Cirielli sia in grado di Cassazione, in grado di appello o in primo grado (dibattimento già dichiarato aperto). È lo stesso legislatore quindi che frappone un limite alla retroazione favorevole della sopravvenuta norma favorevole in punto di prescrizione.
Su questa norma si è sviluppato il tema del rango costituzionale del principio di retroattività favorevole, della compatibilità con questo principio di limiti frapposti alla sua operatività, si è sviluppata quella giurisprudenza che assume il rango costituzione del principio in questione affermandone al contempo la sua non assolutezza.
Tale tesi è seguita dalla Corte di Cassazione che ritiene che la prescrizione non sia condizione di procedibilità dell’azione penale ma istituto sostanziale che estingue il reato.
Questa impostazione è messa in discussione dalla sentenza Taricco (2015) della Corte di Giustizia, la quale ha messo in dubbio la compatibilità del regime italiano della prescrizione con alcune disposizioni del TUE.
3. La sentenza Cestaro
L’incompatibilità del regime della prescrizione con alcune disposizioni europee era già emersa, nella giurisprudenza europea, prima della sentenza Taricco, per effetto di una sentenza (aprile 2015) resa nel caso Cestaro (G8 di Genova), nel quale la Corte EDU aveva sostenuto che per effetto della mancata previsione nel nostro ordinamento della fattispecie astratta di tortura e della conseguenza sussunzione dei fatti addebitati ai poliziotti del G8 di Genova nelle fattispecie contemplate nel nostro ord. (lesioni, molestie, abuso di ufficio), il combinato disposto con la disciplina nazionale della prescrizione, si sarebbe determinato un effetto di assoluta ed ingiustificata impunità dei responsabili. Ad avviso della Corte Edu si poneva un contrasto tra l’ordinamento nazionale nella parte in cui non prevedeva la tortura e disciplina in modo blando la prescrizione con alcuni principi convenzionali. Quindi condannava l’Italia.
Il contrasto evidenziato riguardava disposizioni nazionali e convenzionali, contrasto che tuttavia non comporta obblighi disapplica tori da parte del giudice italiano nazionale.
4. La sentenza Taricco
Reato di frode in materia di IVA. Veniva messa in discussione la compatibilità della disciplina nazionale, in tema di prescrizione, con l’art. 325 TUE, con cui si impone agli stati membri di assicurare la previsione e il funzionamento di meccanismi repressivi, dissuasivi ed efficaci a fronte di condotte tenute negli stati membri in violazione di interessi finanziari dell’UE.
La Corte di Giustizia sostiene che con questo obbligo unionale di previsione di un meccanismo repressivo efficace e dissuasivo confligerebbe la disciplina italiana in punto di prescrizione, nella parte in cui prevede un tetto massimo alla prescrizione anche quando lungo il decorso del termine vi siano stati atti interruttivi della prescrizione.
La sentenza Taricco, proprio perché riscontra un contrasto della disciplina nazionale con le norme UE, impone ai giudici nazionali di disapplicare, a certe condizioni, la disciplina italiana in punto di prescrizione quando la disciplina sia ritenuta configgente con quella esigenza di effettività di dissuasività del meccanismo repressivo dell’art. 325TUE. I giudici nazionali quindi dovrebbero in omaggio alla disciplina dell’UE da un lato applicare il regime della prescrizione che non è quello più normato dal legislatore italiano e dall’altro dovrebbero per effetto della disapplicazione applicare all’imputato un regime prescrizione più grave rispetto a quello contemplato dalla norma vigente al momento del fatto.
La sentenza Taricco difatti ritiene che la prescrizione è una condizione di procedibilità dell’azione penale, quindi è un istituto di diritto penale processuale.
Stando così le cose l’istituto non entra in contrasto con il principio di legalità, che riguarda invece gli istituti di diritto penale sostanziale, per questo gli stati membri possono e devono disapplicare la norma nazionale configgente con quella unionale.
Cosa è successo dopo Taricco?
Alcuni giudici si sono allineati alla sentenza (es. Cassazione sez. III 2015 ha disapplicato gli artt. 160, 161 c.p. nella parte in cui prevedono un tetto massimo della prescrizione pur in presenza di atti interruttivi ritenendo in concreto configgente quando termine con l’esigenza unionale art. 325 TUE);
Corte di Appello Milano 18 settembre 2015, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 L. 2008 con cui è stata ordinata l’esecuzione nell’ord. italiano del tratto sul funzionamento dell’UE, e quindi anche dell’art. 325 TUE, nella parte in cui imponendo questa legge l’applicazione dell’art. 325, come interpretato dalla Corte di Giustizia, come norma che impone al Giudice penale di disapplicare il regime italiano della prescrizione entra in contrasto con due principi fondamentali dell’ordi. Nazionale: il principio di legalità (art. 25 comma 2 cost.) e il principio di divieto di retroazione sfavorevole (art. 25 comma 2 cost.).
La Corte di Appello sostiene che è vero che il principio di primazia dell’UE impone ai giudici italiani di disapplicare la norma nazionale configgente con la disposizione dell’UE ma è anche vero che tale principio incontra un limite invalicabile nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale (teoria cd. contro limiti).
Perché la Corte riscontra la violazione di questi due principi?
Sarebbero violati perché la prescrizione è un istituto del diritto penale sostanziale, come da sempre sostenuto dalla giurisprudenza italiana, quindi è ricoperto dalla riserva di legge rigorosamente statuale di cui all’art. 25 comma 2 Cost. (che rappresenta il contro limite per l’applicazione dell’art. 325 TUE).
La Corte aggiunge che oltre a venire in considerazione il contro limite del principio di legalità statuale viene in considerazione anche il principio di retroattività, perché la sentenza Taricco imporrebbe al giudice nazionale di disapplicare gli art. 160 e 161 c.p., nella parte in cui contengono la durata del termine prescrizionale, per fare spazio ad una prescrizione più lunga ritenuta più coerente con gli interessi finanziari dell’unione europea. Ma questo significherebbe applicare all’imputato,quando vigevano gli artt. 160 e 161 c.p., che prevedevano un termine più contratto, un termine più esteso di prescrizione con conseguente compromissione delle esigenze correlate al divieto di retroazione sfavorevole.
La Corte enuncia quindi il doppio principio quale contro limite all’operatività della primazia del diritto dell’UE e quale ragione per sottrarsi all’obbligo disapplicazione.
Il dibattito quindi di sposta ancora una volta sul tema della natura processuale/sostanziale dell’istituto della prescrizione.
5. La custodia cautelare
La disciplina della custodia cautelare è una disciplina contenuta nel codice di procedura penale che prevede delle condizioni di applicabilità e dei termini massimi di durata (che sono correlati alle pena edittale dei reati per i quali si procede) e di fase.
Possono verificarsi due ipotesi:
Prima che scada il termine di durata massima previsto per il reato per il quale si procede, il legislatore interviene aumentando la pena, conseguentemente riconducendo il reato in uno scaglione diverso e per il quale il termine di durata massima si allunga.
In questo caso il problema successorio non si pone perché la novità legislativa è sicuramente una novità di natura sostanziale e l’aumento del termine di dura massima è un effetto di una norma tutta sostanziale che ha aggravato il trattamento sanzionatorio, ragion per cui vige il principio del divieto di retroazione sfavorevole.
Il problema si pone quando il legislatore interviene, non sulla norma sostanziale che prevede la pena del reato, ma sulla norma processuale che prevede per quello scaglione un termine di durata massima maggiore.
Ci si chiede in questi casi se la norma si applica o non si applica pendente ancora il termine di durata massima originario. Tutto dipende dalla qualificazione della natura giuridica che si dà all’istituto della custodia cautelare.
Se ha natura sostanziale à si applica il principio del divieto di retroazione;
se ha natura processuale à si applica il principio tempus regit actum
La giurisprudenza di Cassazione ha sostenuto che l’istituto della custodia cautelare è un istituto processuale ( è previsto dal c.p.p. ed è un istituto del processo) quindi anche la normativa è processuale, si applica il principio tempus regit actum
La dottrina ritiene che si tratta di un istituto ambivalente perchè incide, sacrificandolo, sullo status libertatis e sulla base di alcune norme (ad esempio quella che prevede che la durata della custodia cautelare si scomputa dalla pena inflitta, quindi la custodia sia equiparabile alla pena).
Questo tema è riesploso quando il legislatore ha introdotto il meccanismo dell’automatismo cautelare per alcune fattispecie di reato, cioè ha, in deroga al principio della cd. residualità della custodia cautelare carceraria, in base al quale tale misura può essere applicata solo quando tutte le altre misure siano inidonee in concreto a preservare le esigenze cautelari del caso di specie.
Il giudice quindi avrebbe dovuto applicare automaticamente la custodia cautelare in carcere, per alcune fattispecie, salvo che nel caso di specie non si evidenziassero indizi o esigenze cautelari.
Quindi ci si è chiesti cosa dovesse accadere per quei soggetti, che a quel tempo, erano sottoposti a custodia cautelare domiciliare e questi soggetti sono stati condotti tutti in carcere.
Ratio: la custodia cautelare è una misura processuale.
Questo problema è quasi del tutto scomparso, perché la regola dell’automatismo cautelare è stato dichiarato incostituzionale.
6. La sospensione del procedimento con messa alla prova
Istituto introdotto con la L. n. 67/2014 che ha introdotto gli artt. 168 bis e ss c.p., il quale consente al giudice penale di sospendere il processo e di avviare un percorso di messa alla prova all’esito del quale dichiarare estinto il reato.
La legge oltre che introdurre tale istituto introduce anche alcune disposizioni nel codice di rito (464 bis c.p.p.) che detta le condizioni processuali di accesso all’istituto, prevedendo in particolare che il giudice, affinchè possa sospendere il processo, deve verificare che non si sia in dibattimento (dichiarazione di apertura del dibattimento). C’è quindi uno sbarramento processuale - temporale che è rappresentato dalla dichiarazione di apertura del dibattimento essendo l’istituto introdotto uno sbocco alternativo alla celebrazione del processo.
Ci si è chiesti che cosa accade per quei reati commessi prima oggetto di una vicenda processuale che all’atto dell’entrata in vigore sia in una fase del processo penale, o addirittura in grado di appello o in Cassazione.
Sono emerse due tesi nel dibattito dottrinale giurisprudenziale:
A favore della tesi che conclude per l’applicazione del nuovo istituto anche allorchè il processo abbia superato la fase della dichiarazione di apertura del dibattimento si sostiene che il nuovo istituto ha carattere penale sostanziale, come attestato da un lato che la sua disciplina è contenuta nel codice penale (Art. 168 bis ss c.p.) e dall’altro che esso comporta la non punibilità del reato, e non il venire meno della procedibilità dell’azione penale. Quindi nel silenzio del legislatore, che non detta una disciplina transitoria dovrebbe trovare applicazione il generale principio della retroattività favorevole.;
S.U. sent. 35717/2015 e Corte Cost. sent. 240/2015 sostengono la tesi opposta, sostenendo che la norma introdotta, pur regolando alcuni aspetti nel codice penale, è rigorosamente processuale, prevedendo lo sbarramento processuale temporale per l’operatività dell’istituto, individuandolo nella dichiarazione di apertura del dibattimento. Sicché non viene in rilievo il principio di retroattività favorevole perché in discussione c’è un istituto processale ed altrimenti opinando si affiderebbe al giudice caso per caso di individuare il momento processuale nel quale consentire o meno l’operatività dell’istituto.
Bibliografia
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Ferrando Mantovani, Diritto Penale, Parte generale, Cedam, Padova, 2009
Paolo Monti, Caratteri generali del diritto, in Il diritto...e il rovescio, 2ª ed., Bologna, Zanichelli, 15 febbraio 2006 [marzo 2004], p.18.
Giampiero Buonomo e Federica Resta, Recida e diritto transitorio nella " prescrizione breve" attraverso la lente della lex mitior
Corte cost. n. 346 del 1988.