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Pubbl. Gio, 1 Giu 2017

Fallibilità delle società a partecipazione pubblica: dal diritto vivente all´art. 14 d.lgs. n. 175 del 2016

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Valeria Lucia


La Corte di Cassazione, sez. I civ., con la pronuncia del 7 febbraio 2017, n. 3196, confermando la natura privatistica delle società a partecipazione pubblica, ne ha ribadito la fallibilità, in un´ottica di tutela dell´affidamento dei terzi contraenti e dell´erario dalla mala gestio societaria.


SOMMARIO: 1. La questione giuridica; 2. Il diritto vivente e l'art. 14 d.lgs. n. 175 del 2016; 3. La sentenza in esame; 4. Le conclusioni del Collegio.

 

1. La questione giuridica

La questione affrontata dalla prima sezione civile della Corte di Cassazione è, indiscutibilmente, uno dei più dibattuti per il diritto pubblico dell’economia, riguardando il quesito sottoposto al vaglio del giudice di legittimità la “fallibilità o meno di una società, costituita secondo le forme della società a responsabilità limitata, affidataria da parte dell’ente territoriale pubblico partecipante di plurimi servizi di gestione del relativo patrimonio, nell’ambito di un rapporto disputato quanto alla prossimità al controllo analogo, proprio della società in house.”.

2. Il diritto vivente e l'art. 14 d.lgs. n. 175 del 2016

Come giustamente evidenziato dalla stessa Corte, il tema è stato ormai superato e, soprattutto, definitivamente chiarito con l’introduzione della nuova normativa in materia di società pubbliche, e, in particolare, dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo Unico delle società pubbliche), a mente del quale “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi”.

Questo l’approccio giurisprudenziale al tema, reso ancor più critico dalla categoria degli affidamenti a società in house, con cui, in deroga al principio generale di evidenza pubblica, l’Ente affida direttamente il servizio. (cfr. amplius Cons. St., Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1)

Per un primo orientamento, nonostante la partecipazione azionaria dello Stato e degli altri Enti pubblici, stante la natura privatistica della società, il postulato della non assoggettabilità alle procedure fallimentari o concorsuali rappresenterebbe una lesione del principio del legittimo affidamento dei creditori, così da alterare anche le dinamiche concorrenziali del mercato, sottraendo le società pubbliche all’applicazione della normativa fallimentare e concorsuale.

Secondo altra posizione, invece, la non assoggettabilità delle società pubbliche alle procedure fallimentari e concorsuali troverebbe la sua ratio nel più generale principio di neutralità della forma societaria, per cui, peraltro, le società partecipate andrebbero ad acquisire, seppur indirettamente, natura pubblica e, quindi, la loro esenzione sarebbe giustificata normativamente dall’art. 1, comma 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), a mente del quale “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”.

Nel tempo, la giurisprudenza di legittimità ha confermato di condividere la prima delle illustrate interpretazioni, per cui una società per azioni, seppur partecipata dallo Stato, non perde la sua natura di soggetto giuridico privato, e, pertanto, verificata la sussistenza dei requisiti richiesti per legge, ben può essere sottoposta ad amministrazione controllata.

Come anticipato, le maggiori criticità si sono registrate proprio rispetto alla categoria dei servizi contraddistinti dall’affidamento in house, per cui si riteneva applicabile il citato orientamento minoritario, volto all’applicazione estensiva dell’esenzione prevista per gli Enti pubblici.

3. La sentenza in esame

In via preliminare, va chiarito che la sentenza in esame è stata pronunciata su una questione per cui ratione temporis non è applicabile la nuova disciplina introdotta con il citato art. 14 del d.lgs. n. 175/2016.

Il Collegio, in aderenza ai propri precedenti, ha ribadito che “proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato (…) può ricavarsi, a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina civilistica” (Cass. civ. n. 22209 del 2013), respingendo apertamente tutti gli orientamenti finalizzati ad una ingiustificata compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche.

Secondo il Collegio, infatti, tali operazioni ermeneutiche violerebbero il principio di riserva di legge di cui all’art. 4 della legge n. 70 del 1975, per cui è vietata l’istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo. Uno dei passaggi di maggiore rilievo è proprio quello per cui, riconoscendo la non fallibilità delle società pubbliche, l’ulteriore conseguenza sarebbe la inevitabile lesione dell’affidamento dei terzi contraenti, così come previsto dalla disciplina civilistica. Anche da questo punto di vista, sembrerebbe, pertanto, preferibile un'interpretazione rigorosa dell’art. 4 l. 70/1975, per cui la qualità di Ente pubblico, ove non attribuita da una espressa previsione di legge, deve quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro e inequivoco.

Il Collegio, infine, illustra anche alcuni indicatori, precisando che “ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto”, per cui “l’annullamento ad ogni effetto della soggettività della società, a ben vedere, procurerebbe altresì l’altro paradosso di un’azione dei creditori sociali della società in house che diverrebbero tutti creditori diretti dell’ente pubblico, con possibilità di azione esattamente ed invece scongiurata laddove l’ente pubblico abbia scelto (…) di delimitare la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società partecipata”, preservando, pertanto, l’erario dalla mala gestio degli organi sociali di società strumentali.

4. Le conclusioni del Collegio

A fronte dei passaggi fondamentali della sentenza, il Collegio ha concluso statuendo che “la disciplina di convivenza così sintetizzata permette, come efficacemente spiegato in dottrina, che le società a partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d’intervento; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione, l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario.”