La responsabilità amministrativa degli enti con particolare attenzione al caso delle holding
Modifica paginaLa ”sorella minore” nel caso ILVA: riflessioni sulla responsabilità amministrativa da reato infragruppo. Commento alla sentenza n. 52316 del 2016 della Corte di Cassazione.
Sommario: 1. Premessa; 2. Il caso; 3.I reati contestati: la truffa e l’associazione a delinquere. Profili problematici; 4. La responsabilità ex 231 nel caso di organizzazioni societarie complesse.
1. Premessa
Con la sentenza n. 52316/2016 la Corte di Cassazione affronta in modo trasversale questioni che hanno impegnato la dottrina nell’ultimo ventennio, spaziando dal tormentato rapporto tra gli artt. 640-bis c.p. e 316-ter c.p., alla responsabilità amministrativa degli enti con particolare attenzione al caso delle holding. La pronuncia potrebbe essere etichettata quale “sorella minore” della “saga ILVA” trattandosi di una statuizione a latere rispetto alle più famose vicende giudiziarie che hanno interessato il colosso dell’acciaio.
2. Il caso
La pronuncia della Suprema Corte muove dal ricorso presentato dal sig. Fabio Arturo Riva ed altri avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello di Milano confermava la responsabilità penale degli imputati già accertata in primo grado dal Tribunale meneghino. Questi venivano ritenuti colpevoli dei reati di associazione per delinquere e di truffa aggravata ai danni dello Stato per il conseguimento di erogazioni pubbliche, e per l’effetto veniva riconosciuta responsabilità ex. Dlgs 231/2001 in capo all’ente RIVA FIRE s.p.a.
Il nucleo centrale delle condotte ruota intorno al capo B) della rubrica imputativa, ovvero al contestato reato di cui all’art. 640-bis c.p. dal quale consegue la successiva imputazione associativa e la responsabilità dell’ente. In particolare, cercando di semplificare le condotte contestate agli imputati, lo scenario nel quale ci muoviamo è quello di un gruppo di imprese al cui vertice è posta la RIVA FIRE s.p.a. amministrata direttamente dal Riva Fabio Arturo. La holding del gruppo Riva, per ciò che interessa, intratteneva rapporti commerciali per mezzo di due controllate ILVA S.p.a. (società esistente) ed ILVA SA (società di comodo con sede in Svizzera, ma formalmente gestita dal gruppo Riva). L’indebita interposizione fittizia di ILVA SA (società non UE) nelle procedure di scambio tra la società ILVA S.p.a. e l’acquirente finale consentiva al gruppo della famiglia Riva di acquisire erogazioni pubbliche non dovute a sostegno delle esportazioni[1]. In particolare l’art. 14 D.L. 143/1998 prevede una procedura di finanziamento dei crediti all’esportazione per incentivare il mercato attraverso la copertura delle esposizioni bancarie da parte dei venditori italiani in favore dei terzi acquirenti[2]. Sfruttando la dimensione non europea della ILVA SA, il gruppo Riva attraverso una interposizione fittizia lucrava su operazioni di vendita di prodotti in favore di soggetti terzi acquirenti, filtrati attraverso un passaggio intermedio infragruppo, ed a saldi invariati, alla società elvetica. Questa, infatti, essendo sostanzialmente una longa manus della controllante, nonostante avesse ricevuto l’integrale pagamento cash flow dall’acquirente emetteva cambiali internazionali dal valore nominale decurtato in favore della ILVA S.p.a., poi rimborsate nella differenza dallo Stato Italiano. Si registrava pertanto un’indebita duplicazione del quantum debeatur rispetto ad una medesima operazione posto che, come emerge dalle ricostruzioni in fatto, il patrimonio della ILVA SA confluiva integralmente in quello del gruppo controllante.
3. I reati contestati: la truffa e l’associazione a delinquere. Profili problematici
La pronuncia nonostante non si dimostri innovativa in punto di diritto è comunque apprezzabile sotto il profilo espositivo in quanto affronta in modo limpido ed organico le più spinose questioni in tema di 640-bis c.p. e 416 c.p.. E' opportuno pertanto esaminare alcuni problemi giuridici posti da tutti i ricorrenti, muovendo sicuramente dalla presunta mancata integrazione del contestato reato di truffa per il conseguimento di pubbliche erogazioni (art. 640-bis cod. pen.), per non essere stati individuati il soggetto od i soggetti indotti in errore, il che avrebbe portato a ritenere configurabile una frode "ad incertam personam". Per comprendere la ragione di tale affermazione è necessario mettere a fuoco il concetto di persona offesa, al quale il legislatore ha dedicato un capo intero del codice penale, senza tuttavia darne una vera e propria definizione. Dottrina e giurisprudenza, peraltro, non sono del tutto concordi nel chiarire tale concetto, identificando la persona offesa dal reato, alcuni nel titolare dell'interesse immediatamente leso dalla norma penale, altri nella persona che dal reato viene direttamente e immediatamente offesa, e altri ancora nel titolare dell'interesse la cui offesa costituisce l'essenza del reato. Vi è, invece, assoluta concordia nel distinguere la posizione della persona offesa da quella del danneggiato civilmente, che è colui il quale, pur non essendo titolare del bene leso o messo in pericolo dall'azione criminosa, in conseguenza del reato, ha subito un danno risarcibile. La giurisprudenza in tema di truffa ha precisato che elemento essenziale del reato è che "taluno", cioè una persona fisica, sia indotto in errore, mentre non costituisce elemento essenziale l'identificazione di tale persona quando il giudice ritenga gli artifizi e raggiri tali da poter avere portata ingannatoria nei confronti di chiunque. Dall’esegesi ontologicamente orientata dell’art.640 c.p. quale fattispecie generale di truffa, ne deriva che profilo dirimente è l’accertamento giudiziale dell’idoneità menzoniera della condotta, dovendone valorizzare la natura di reato in contratto. Tuttavia si osserva, a contrario, che la disposizione prevede una genericità solo in ordine all’agente, utilizzando il “chiunque”, ma sembra, invece, invocare la necessità di una persona offesa qualificata se solo si pone attenzione al profilo di responsabilità residuale del deceptus. L’idea che i reati in contratto possano tollerare, in modo generalizzato, forme di offesa soggettivamente incerte deve essere revocata in dubbio posto che, così argomentando, si accetterebbe il rischio di configurare fattispecie fisiologicamente indeterminate in spregio ai principi penali. Sarebbe più opportuno concepire tali ipotesi come eccezionali e condizionate dalla particolare natura dell’interlocutore indotto in errore. Nel caso di coinvolgimento della P.A. ovvero di enti privati è evidente che questi, pur godendo di soggettività giuridica, si muovono e vivono per mezzo dei funzionari (persone fisiche) che vi operano all’interno. In siffatte circostanze l’individuazione della persona offesa soffre della particolare struttura soggettiva (organizzativa) dell’ente, venendo in rilievo un’esigenza immediata di ricerca dell’effettivo titolare dell’interesse leso e solo di riflesso della persona fisica disponete. Ne discende che l’inquadramento tra le persone offese dal reato di soggetti complessi, (ad esempio nei casi di truffa, malversazione, peculato, latu sensu anche le vicende di corruzione) impongono all’interprete di ricercare gli elementi sintomatici dell’alterazione della libertà di determinazione dell’ente medesimo, rifuggendo da voli pindarici e da probatio diaboliche. Pertanto, come ha argutamente osservato il Collegio, ‹‹in tema di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche gli artifici e raggiri devono essere idonei ad indurre in inganno l’ente erogatore (Sez. 5, n. 21083 del 14/04/2004, Bellesio, Rv. 229203). E' chiaro che l’ente erogatore muove le proprie decisioni attraverso le persone fisiche che lo rappresentano e che sono chiamate ad effettuare le verifiche relative alle istanze che gli sono inoltrate, ma ciò comporta, contrariamente alla truffa ad personam, che non siano necessariamente individuati i singoli passaggi volitivi a volte complessi e legati anche alla struttura organizzativa dell'ente. Il processo decisionale dell'ente si sviluppa in genere attraverso l'intervento di più soggetti cui sono demandati i diversi compiti di raccolta, verifica ed istruttoria delle istanze, nonchè di assunzione e di esternazione delle decisioni, tutti soggetti potenzialmente individuabili attraverso un indagine al riguardo. Tuttavia tale attività non appare necessaria nel momento in cui l'azione truffaldina consistente nell'immutatio veri ha, come nel caso in esame, caratteristiche tali da ingannare l'intero processo decisionale costituito dai tasselli di coloro che ne sono stati parte, ciascuno dei quali confidando nella correttezza delle informazioni prospettate e più in generale dell'intera operazione ed essendo chiamato a soli controlli formali è di fatto stato tratto in inganno.››. La natura fittizia di ILVA SA ha rappresentato in definitiva un artifizio idoneo ad indurre in errore uno qualsiasi dei funzionari Simest addetti alla trattazione della domanda di contributi cui non è stata puramente e semplicemente rappresentata una situazione non corrispondente al vero attraverso una mera falsa dichiarazione autocertificativa, ma è stata rappresentata una situazione complessa. La valorizzazione dell’idoneità menzoniera della condotta quale elemento sufficiente a ritenere integrata la tipicità del fatto reato coinvolge questioni di più ampio respiro quali il principio di offensività e quello di prevedibilità, e si colloca in una tendenza del diritto penale a privilegiare la sostanza sulla forma[3]. Il Collegio ricorda quanto da tempo sostenuto dalla giurisprudenza in tema di estorsione[4], ma del pari può essere citato quanto acquisito dalla tradizione pretoria sui concetti di pubblico agente e di PP.AA., laddove l’elemento della sostanza teleologica sembra aver annacquato il principio di stretta legalità[5]. Non sembra rilevare ai fini dell’esclusione della fraudolenta induzione in errore la circostanza che il deceptus abbia a sua disposizione strumenti di difesa, nel caso in esame non compiutamente utilizzati, poiché in siffatta situazione la responsabilità penale è sempre collegata al fatto dell'agente, ed è indipendente dalla eventuale cooperazione, più o meno colposa, della vittima negligente. Questa affermazione consente categoricamente di escludere che nell’ipotesi di truffa sia ipotizzabile un concorso nel reato in senso stretto tra agente e vittima, nonché forme di responsabilità da posizione o senza colpa atteso che questa potrà subire un rimprovero qualitativamente distinto.
L’eccezione sollevata dalla difesa dell'imputato in merito alla mancata derubricazione del reato di cui all'art. 640-bis c.p. in quello previsto e punito dall'art. 316-ter c.p. in quanto ci si troverebbe non tanto in presenza di un "artifizio" quanto in presenza di "omissione di informazioni dovute", ha concesso al Collegio l’opportunità di ritornare sull’annosa questione delle ondivaghe interferenze tra le due fattispecie. La fattispecie criminosa di cui all'art. 316-ter c.p. punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, "Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640-bis, chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità Europee". La giurisprudenza da tempo è concorde nel ritenere che l'art. 316-ter c.p., configura un reato di pericolo, e non di danno (Sez. 6, n. 35220 del 09/05/2013, Campisi Rv. 256927), e che tale reato si distingue da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, sia perché la condotta non ha natura fraudolenta, in quanto la presentazione delle dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere costituisce "fatto" strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri, sia per l'assenza della induzione in errore (Sez. 2, n. 46064 del 19/10/2012, Santannera, Rv. 254354). Deve pertanto ritenersi incontestabile potestà del giudice quella di valutare se la condotta consistente in una falsa dichiarazione, valorizzando la cornice in cui il fatto si è realizzato, integri l'artificio di cui all'art. 640-bis c.p., e se da esso sia poi derivata l'induzione in errore di chi è chiamato a provvedere sulla richiesta di erogazione. Il Collegio ha correttamente ritenuto che nel caso in esame, la falsa dichiarazione accertata non è caduta sugli elementi fattuali da rappresentare a Simest ai fini della erogazione dei contributi, ma è consistita nella immutatio veri circa l'esistenza di ILVA SA. Pregevole però è stata la scelta del consesso di dare atto degli arresti più importanti sulla questione acclarando expressis verba come ‹‹l’ambito applicativo del delitto di cui all'art. 316-ter cod. pen. è stato, approfondito sia dalle Sezioni Unite, sia dalla Corte costituzionale››[6]. Di recente la questione del limes agendi dell’art. 640-bis c.p. è stata riproposta al vaglio del supremo Consesso rinnovando le perplessità della dottrina in ordine al principio di sussidiarietà ed in particolare prospettando il quesito “se il reato di malversazione in danno dello Stato (art. 316-bis c.p.) concorra con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.)”[7]. Secondo l'informazione provvisoria diffusa dalla Suprema Corte, al quesito di è data risposta affermativa.
Del pari inconsistenti sono le censure in ordine al contestato reato associativo, in relazione alle quali il Collegio si è limitato a riprendere gli arresti più significativi. La ratio per cui il legislatore ha configurato, come autonomo titolo di reato, il delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., consiste nel pericolo per l’ordine pubblico provocato dal vincolo associativo che intercorre tra più persone legate da un medesimo fine criminoso[8]. Ne discende che per la sussistenza del delitto di associazione per delinquere sia irrilevante la consumazione dei delitti programmati, sottesi al disegno criminoso, perché ciò che costituisce allarme sociale è la persistenza di un consesso di soggetti proclivi al crimine. Non a caso in giurisprudenza con riferimento al delitto di associazione per delinquere sovente si utilizzano come indici sintomatici perifrasi quali "un ben congegnato sistema criminoso”, “un mirato programma”ecc. In punto di diritto deve ricordarsi che «L'associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, dall'indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall'accordo che sorregge il concorso di persone nel reato, e dall'esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira» (ex ceteris Sez. 2, n. 16339 del 17/01/2013, Burgio, Rv. 255359). Il criterio distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso dì persone nel reato continuato va individuato nel carattere dell'accordo criminoso, che nell'indicata ipotesi di concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati mentre nel reato associativo risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente ed al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programma. La eventuale complessità delle singole operazioni, la loro pluralità, non possono rilevare per mutare la natura del contesto criminoso, perché da esse non è possibile trarre la conclusione di una alterazione della qualità del collegamento tra i sodali, da un'unione occasionale per il raggiungimento dello scopo unico ad un'unione stabile destinata, e nella comune consapevolezza, a durare a prescindere dalla sorte dell'operazione contingente. In altri termini, la “complessità organizzativa” non è elemento per sé idoneo ad imporre la qualifica associativa dell'azione collettiva, perché essa è del tutto compatibile anche con la predisposizione delle peculiari articolate condotte rese necessarie dalla corrispondente peculiarità dell'unico obiettivo e dal contesto di fatto in cui questo si colloca e concretizza.
L'elemento distintivo tra i delitti associativi, di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., e la semplice partecipazione criminosa, di cui all'art. 110 c.p., è costituito dalla natura dell'accordo criminoso: come già detto, nel concorso di persone nel reato l'accordo avviene in via occasionale ed accidentale per il compimento di uno o più reati determinati, con la realizzazione dei quali si esaurisce; nei delitti associativi, invece, l'accordo criminoso è diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, che precede e contiene gli accordi concernenti la realizzazione dei singoli crimini e che permane dopo la realizzazione di ciascuno di essi. Tutti gli elementi sopra indicati sono ravvisabili nel caso in esame e sono stati concretamente delineati dal Collegio atteso che il vincolo ha avuto carattere indubbiamente permanente, con una partecipazione stabile ed una divisione dei ruoli all’interno dell’holding, nonchè il pactum sceleris è risultato tutt'altro che occasionale essendo finalizzato alla programmazione ed alla consumazione di una serie indeterminata di delitti.
4. La responsabilità ex 231 nel caso di organizzazioni societarie complesse
La Cassazione nella sentenza in commento si adopera nel ricostruire lo scenario normativo e giurisprudenziale nel quale inserire la responsabilità del gruppo Riva. In quest’ottica interessanti sono i passi riguardanti la natura della responsabilità delle persone giuridiche, i criteri di imputazione oggettivi e soggettivi, nonché l’esame del catalogo dei reati presupposto. È noto infatti che la responsabilità ex D. Lgs. n. 231 del 2001 è stata intesa in modo eclettico come “simmetricamente indipendente e riflessa” nel senso di muovere da un reato presupposto compiuto dalla persona fisica che opera al suo interno, ma al contempo gode di vita autonoma essendo soggetta a regole proprie. Il quesito al quale il collegio ha dato risposta riguarda essenzialmente le valutazioni afferenti il criterio ascrittivo oggettivo dell'interesse e/o vantaggio, genericamente relativo a condotte riferibili alla società ILVA, senza precisare se detti riferimenti riguardino la ILVA S.p.a. oppure la ILVA SA. Il D. Lgs. n. 231 del 2001 modella la responsabilità degli enti giuridici sulla figura degli enti singolarmente considerati, senza prendere in considerazione il fenomeno, pure espressamente disciplinato dal diritto societario (artt. 2497 ss. c.c.), dei gruppi, ovvero della concentrazione di una pluralità di società sotto la direzione unificante ed il controllo finanziario di una società capogruppo o holding. Il fatto che, formalmente, le società facenti parte del gruppo siano giuridicamente autonome e indipendenti, non impedisce che le attività di ciascuna costituiscano espressione di una comune politica d'impresa, generalmente voluta dalla holding partecipante nell'ottica della diversificazione dei rischi. Il fenomeno ha posto, quindi, una serie di interrogativi in relazione alla configurabilità della responsabilità da reato da parte di un numero indeterminato di enti che cooperano verso un obiettivo comune, cui la dottrina ha cercato inizialmente di rispondere. Il D. Lgs. n. 231 del 2001 non contiene un'espressa disciplina in tema di concorso di persone, e pertanto si è discusso sull'applicabilità in tema di responsabilità degli enti dell'art. 110 c.p., inteso quale norma generale. Parte della dottrina, citata nella sentenza, ha, in proposito, osservato che l'ammissibilità del concorso di enti giuridici nell'illecito amministrativo dipendente da reato avrebbe potuto costituire una possibile soluzione del problema della responsabilità degli enti in rapporto al fenomeno dei gruppi di imprese: ‹‹va comunque osservato come, anche in caso di riconosciuta natura penale della responsabilità degli enti, non potrebbe ammettersi senz'altro l'operatività, rispetto alle persone giuridiche, dell'art. 110 c.p.: il carattere di clausola d'incriminazione suppletiva, proprio di tale disposizione, sembra richiedere comunque un'espressa previsione nel sottosistema in esame, del tipo di quella contenuta nell'art. 26 D. Lgs. 231/2001 a proposito del tentativo››[9].
Altra dottrina aveva osservato che il dovere di organizzare l’attività d’impresa per prevenire la commissione dei reati costituenti presupposto della responsabilità ex D. Lgs. n. 231 del 2001 spettava ai soli enti singolarmente facenti parte del gruppo, non alla società capogruppo, e che, pertanto, la responsabilità da reato non poteva espandersi nell’ambito del gruppo a società estranee alla commissione del reato presupposto: ‹‹nel gruppo di imprese, nonostante la direzione unitaria della capogruppo, il rischio penale deve essere fronteggiato sul piano organizzativo in completa autonomia dalle singole società, cui spetta di valutarlo alla luce della specificità dell’attività svolta senza interferenze da parte della holding››[10]. La responsabilità amministrativa della capogruppo in ordine ai reati commessi nell’interesse oppure a vantaggio di una delle controllate era ritenuta configurabile unicamente ‹‹in ipotesi assolutamente residuali, allorquando determinati indici oggettivi dimostrino che la condotta delittuosa è stata tenuta in esecuzione di direttive e dettami provenienti da amministratori della capogruppo, i quali non solo non hanno impedito la commissione di reati, ma hanno determinato altri soggetti alla violazione della legge penale, profittando della loro posizione di primazia all’interno del raggruppamento societario››[11]. La tendenza a presumere la coincidenza dell’interesse di gruppo con quello immediato delle singole società controllate aveva indotto la dottrina[12] prevalente ad assumere un atteggiamento cautelativo escludendo ogni automatismo o responsabilità da posizione.
Tuttavia la centrale rilevanza dell’interesse di gruppo era già stata riconosciuta dalla giurisprudenza civile, che, già prima della riforma del diritto societario, aveva preso atto che determinati atti compiuti in apparente pregiudizio di una delle controllate potevano essere occasione di vantaggio per l’intero assetto sociale, realizzando l’interesse mediato dell’holding. In quest’ottica si spiegano una serie di interventi legislativi volti a dare peso a fenomeni e modelli di gestione apparentemente pregiudizievoli per le singole controllate. Si prendono in considerazione gli artt. 2497 e 2947-ter del c.c., nonché, per ciò che concerne il diritto penale, le fattispecie relative alle false comunicazioni sociali ed ai reati fallimentari[13]. Per evitare l’automatica estensione alla holding della responsabilità da reato ascrivibile ad una o più delle società controllate facenti parte del gruppo si è, pertanto, ritenuto necessario partire dalla specifica ricostruzione del caso concreto, onde verificare se la holding esercitasse effettivamente sulla controllata un controllo di fatto tanto incisivo da lasciar legittimamente ritenere che la seconda costituisse mera e fittizia appendice della prima, e che, pertanto, gli organi di gestione della controllata fossero privi di effettiva autonomia gestionale. Peraltro l'ottica compensativa accolta dal legislatore rende inequivocabile che l'interesse “particolare” non viene sacrificato in favore di un fantomatico interesse “generale”, con la conseguenza che quest’ultimo è un interesse composito dei singoli desiderata delle controllate. Questa lettura del problema consente di affermare che la coesistenza degli interessi nei termini sueposti non può rappresentare un indice di reciproca esclusione delle responsabilità. L’articolo 5, comma 2, del decreto stabilisce una coerente causa di non punibilità: “l’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”, e che, diversamente, nell’ambito del gruppo la responsabilità può espandersi ‹‹in capo a tutte le società facenti parte dell’aggregazione››[14]. Eppure, secondo la giurisprudenza penale, il gruppo d’imprese ha una valenza solo economica, non giuridica, e non scalfisce l’autonomia della singola persona giuridica, laddove, al contrario, ‹‹la ricaduta dell’interesse/vantaggio su altri enti del gruppo produce, a certe condizioni, un allargamento della responsabilità amministrativa››[15]. La fattispecie descritta è tutt'altro che sconosciuta alla normativa sulla responsabilità degli enti, identificandosi proprio con quell'interesse “misto” (…) identificabile attraverso il combinato disposto degli artt. 5 co. 2, 12 co. 1 lett. a) e art. 13 ult. co. D. Lgs. n.231/2001. Nella giurisprudenza di merito il tema è stato affrontato con riferimento alle ccdd società cartiere rispetto a vicende di corruzione o truffa, ribadendo il concetto poi accolto anche in sede di legittimità secondo cui ‹‹l’illecito amministrativo da reato può essere addebitato ad un ente che rivesta il ruolo di controllante in seno ad un gruppo di società, se commesso nell’interesse comune del gruppo, indipendentemente dal fatto che esso ne abbia tratto diretto vantaggio; si ricava quindi che, ai fini della responsabilità dell’ente, il reato possa essere destinato a soddisfare contestualmente l’interesse di diversi soggetti (siano essi persone fisiche o altri enti), purché tra questi soggetti vi sia anche l’ente nel quale chi ha commesso il reato riveste una posizione apicale rilevante ai sensi della normativa indicata, nella specie quella di soggetto che svolge funzioni di amministratore››[16]. Ed ancora si ribadisce che ‹‹la realtà economica vede sempre più il prosperare dei gruppi di società ove si aderisse all'interpretazione restrittiva del concetto di "interesse dell'ente", si sposerebbe una visione inattuale dell'ente, concepito come una monade isolata all'interno del complesso sistema economico attuale, con conseguenti evidenti lacune di tutela tutte le volte in cui l'interesse perseguito sia ricollegabile non all'ente di cui fa parte l'autore del reato, ma ad una società controllata o controllante, oppure al gruppo nel suo insieme››[17]. L’art. 5 D. Lgs. n. 231 del 2001 va, pertanto, interpretato estendendo la rilevanza del concetto di “interesse” ricomprendendo anche quella di interesse di gruppo idonea a racchiudere le condotte di chi è in grado di impegnare l’ente all’esterno in ragione della sua capacità organizzativa e decisionale.
In ordine alla configurabilità della responsabilità amministrativa da reato ex d. lgs. n. 231/2001 nell’ambito dei gruppi di società, è finalmente intervenuta la V sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 24583 del 17 novembre 2010 – 20 giugno 2011, affermando il principio di diritto secondo cui ‹‹La società capogruppo [e le altre società facenti parte di un gruppo] possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001, per il reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della capogruppo [o delle altre società controllate], perseguendo anche l’interesse di queste ultime››[18]. Ai fini dell’affermazione di responsabilità degli enti, è sufficiente che il soggetto autore del reato abbia agito per un interesse non esclusivamente proprio o di terzi, ma riconducibile anche alla società della quale lo stesso è esponente, con la naturale conseguenza che siffatto titolo di responsabilità è individuabile anche all'interno di un gruppo di società, potendo la società capogruppo rispondere per il reato commesso nell'ambito dell'attività di una società controllata laddove il soggetto agente abbia perseguito anche un interesse riconducibile alla prima. Per configurare la responsabilità (nel caso di specie) da reato di cui all'art.640-bis c.p. della holding RIVA FIRE S.p.a. non può, quindi, che farsi richiamo ai comuni criteri di accertamento della responsabilità degli enti. Nel caso in esame si è chiarito che le condotte accertate, integranti i reati-presupposto in contestazione, fossero poste in essere nell'interesse (valutabile ex ante) e si siano, comunque, risolte a vantaggio (valutabile ex post) anche della RIVA FIRE S.p.a. evidenziando un’identità tra quest’ultima ed i vertici di ILVA S.p.a.. In definitiva sembrano laconiche le parole del Collegio secondo cui ‹‹Il reato è nell'interesse ed a beneficio apparente della controllata e invece "diretto" della controllante RIVA FIRE S.p.a. nella cui effettiva disponibilità finivano le liquidità di volta in volta percepite. Il profitto della truffa è soltanto transitato, e velocemente, nel mondo ILVA per raggiungere il programmato approdo finale in FIRE››.
Note e riferimenti bibliografici
[1] La Corte si preoccupa di delineare in estrema sintesi quello che etichetta come “ciclo finanziario” cui prendevano parte la società italiana ILVA S.p.a., quale esportatore nazionale, la società svizzera ILVA SA (all'uopo costituita, facente parte del gruppo ILVA e ritenuta, secondo l'ipotesi accusatoria, solo apparentemente operativa) quale importatore estero, la società finanziaria svizzera Eufintrade SA, di cui era legale rappresentante Alfredo Lo Monaco, e Banca Intesa, istituto di credito presso il quale ILVA S.p.a. aveva conto corrente e linee di credito, che fungeva da intermediario nei rapporti tra ILVA S.p.a. e la Simest S.p.a. (ente erogatore del denaro pubblico per conto e su concessione del Ministero dello Sviluppo Economico). Si intende pertanto citare il passo della sentenza a pag.25: ‹‹Le operazioni si svolgevano nel modo che segue: 1) ILVA S.p.a. vendeva (almeno in apparenza) i tubi ad ILVA SA; 2) ILVA SA vendeva gli stessi tubi all'acquirente finale (end user), al medesimo prezzo al quale li aveva acquistati; 3) per tali operazioni, ILVA S.p.a. fatturava ad ILVA SA, ed ILVA SA fatturava all'end user; 4) entrambe le fatture venivano emesse in pari data; 5) ILVA S.p.a. provvedeva direttamente alla spedizione via mare all'end user dei prodotti oggetto della trattativa commerciale e che non erano usciti dalla propria materiale disponibilità prima del loro invio; 6) l'end user pagava cash l'intero prezzo del materiale acquistato ad ILVA SA; 7) ILVA SA, ricevuto il pagamento integrale della fornitura, pagava ad ILVA S.p.a. il 15% cash e, a fronte della dilazione accordatale da ILVA S.p.a., nonostante avesse già in cassa il denaro pari al restante 85% del prezzo, emetteva cambiali internazionali (promissory notes) per le quali ILVA S.p.a. aveva già ottenuto l'impegno allo sconto da parte della Eufintrade SA; 8) le predette promissory notes recavano l'importo dilazionato (come detto pari all'85% del valore della fornitura) maggiorato degli interessi CIRR (Commercia! Interest Reference Rates segnalati dall'OCSE - Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - per le operazioni di credito all'esportazione) ed approvati da Simest S.p.a.; 9) ILVA S.p.a. trasferiva per la concordata operazione di sconto le promissory notes presso Eufintrade SA e detta operazione avveniva ad un tasso di interesse di mercato ritenuto congruo da Simest; 10) Eufintrade SA, contemporaneamente alla ricezione dei titoli da scontare, proponeva ad ILVA SA di acquistare il proprio debito ovvero le promissory notes; 11) ILVA SA, ricevuta da Eufintrade SA tale proposta, ricomprava il proprio debito ad un valore facciale inferiore e trasferiva alla Eufintrade SA il denaro contante di cui disponeva a fronte dell'avvenuto pagamento per l'intero da parte dell'end user; 12) Eufintrade SA provvedeva quindi allo sconto a ILVA S.p.a. utilizzando il denaro ricevuto dalla ILVA SA e trattenendone una percentuale per sé; 13) ILVA S.p.a. incamerava quindi un ricavo netto inferiore al valore facciale dovuto al tasso di sconto applicato; 14) l'operazione veniva quindi comunicata alla Simest per l'erogazione del contributo finalizzato a coprire in parte la differenza tra tasso attivo (CIRR) riconosciuto all'esportatore e tasso passivo applicato dall'ente scontante (Eufintrade)››.
[2] Interessante lo sforzo profuso dai relatori che hanno ricostruito funditus nel punto 2) della parte motiva il quadro normativo di riferimento. Ciò che preme sottolineare è la sostenuta inapplicabilità della circolare interpretativa n. 1/15 del 23 febbraio 2015 a cura del Comitato Agevolazioni istituito presso la SIMEST. La menzionata circolare consente la possibilità che la trading company estera possa appartenere allo stesso gruppo dell'esportatore, ovvero che non devono necessariamente essere applicate le medesime condizioni di vendita e di pagamento praticate alla società di trading estera. Tuttavia il presupposto dirimente ai fini dell’applicazione è l’effettività della transazione, circostanza che non ricorre nel caso che ci occupa, laddove l’operazione si atteggia quale mero pretesto per accedere ai finanziamenti. Per un esame completo si rinvia a pag.35 della sentenza
[3] L’ente pubblico nella giurisprudenza penale della Corte di Cassazione di Franco Fiandanese. Secondo l’A. la natura del servizio prestato e delle funzioni svolte non sono determinanti per giungere ad affermare una diversa natura giuridica del soggetto, che rimane una società di diritto privato, pur con talune deroghe rispetto alla comune disciplina. Si osserva che il principio di legalità trova fondamento nell'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e che, nella giurisprudenza della Corte EDU, al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice astratta previsione della legge, ma alla norma "vivente" quale risulta dall'applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto, la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell'ambito applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l'elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa (Corte EDU 02/11/2006, ric. Milazzo c. Italia; Grande Camera 17/02/2004, ric. Maestri contro Italia; 17/02/2005, ric. K.A. ET A.D. contro Belgio; 21/01/2003, ric. Veeber c. Estonia; 08/07/1999, ric. Baskaya e Okcuoglu c. Turchia; 15/11/1996, ric. Cantoni c. Francia; 22/09/1994, ric. Hentrich c. Francia; 25/05/1993, ric. Kokkinakis c. Grecia; 08/07/1986, ric. Lithgow e altri c. Regno Unito). La tendenza sostanzialistica sembra porsi in forte tensione con questi principi.
[4] In tema si cita uno stralcio di p.50 ‹‹Del resto può ben trovare applicazione in questa sede il principio che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato in tema di estorsione (che pure prevede la costrizione di "taluno" con violenza o minaccia a fare o ad omettere qualche cosa) secondo il quale «In tema di estorsione, l'identificazione della persona offesa non costituisce elemento essenziale del reato, con la conseguenza che, una volta accertata la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, la responsabilità dell'autore non può essere esclusa dall'essere rimasta ignota la vittima» (fattispecie in cui è stata confermata la penale responsabilità per l'estorsione in danno di imprenditore non identificato ancorata al contenuto delle conversazioni captate) (Sez. 1, n. 48421 del 19/06/2013, Strano, Rv. 257973)››.
[5] Significative alcune pronunce in questo filone a fronte del quale si antepone la sostanza al dato positivo. Con la trasformazione dell'ente pubblico economico "Poste Italiane" in società per azioni, non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 cod. pen. (Cass. Sez. 2, sent. n. 8797 in data 11.2.2003 dep. 24.2.2003 rv 223664).
[6] Il giudice delle leggi, con l'ordinanza n. 95 del 2004, ha evidenziato il carattere sussidiario e residuale dell'art. 316-ter, rispetto all'art. 640-bis chiarendo che l'art. 316-ter assicura una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella offerta agli stessi interessi dall'art. 640-bis, coprendo in specie gli eventuali margini di scostamento - per difetto - del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode.
Le Sezioni Unite sono intervenute in argomento con due sentenze. In una prima occasione (Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv.235962), tracciando i confini tra la fattispecie criminosa di cui all'art. 316-ter e quella di cui all'art. 640-bis cod. pen., hanno sottolineato che vanno ricondotte alla fattispecie di cui all'art. 316-ter - e non a quella di truffa - le condotte alle quali non consegua un'induzione in errore per l'ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto".
Con una successiva decisione (Sez. U, n. 7537 del 16/12/2010, dep.2011, Pizzuto, Rv. 249104), le Sezioni Unite sono poi tornate ad esaminare il tema e, proseguendo sulla strada tracciata dalla propria precedente sentenza, hanno affermato il principio secondo il quale l'art. 316-ter cod. pen. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall'uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l'erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'ente pubblico erogatore. Il principio che «il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni si differenzia da quello di truffa aggravata, finalizzata al conseguimento delle stesse, per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi, della induzione in errore dell'ente erogatore, essendo quest'ultimo chiamato solo a prendere atto dell'esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamento» è stato successivamente ribadito da questa Sezione, in riferimento ad una fattispecie in tema di aiuti comunitari all'agricoltura.
[7] Si segnala sul punto FINOCCHIARO, Concorso di reati o concorso apparente di norme? Alle Sezioni Unite la vexata quaestio del rapporto tra truffa e malversazione., in DPC.
[8] D’ILARIO, Associazione per delinquere: criterio distintivo tra il delitto di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. e l’istituto di parte generale del concorso di persone nel reato continuato. In giurisprudenzapenale.it.
Storica in tal senso la sentenza degli anni ’80: ‹‹L'ipotesi concorsuale ai sensi dell'art. 110 c.p. non trova ingresso nello schema dell'art. 416 c.p. al di là del concorso morale e limitatamente ai soli casi di determinazione od istigazione a partecipare od a promuovere, costituire, organizzare l'associazione per delinquere. Pertanto, una condotta che concretamente favorisca le attività ed il perseguimento degli scopi sociali, posta in essere da un soggetto esterno al sodalizio, non potrà essere ritenuta condotta di partecipazione al reato associativo ove non sia accompagnata, non dalla mera connivenza, bensì dalla coscienza e volontà di raggiungere attraverso quegli atti, anche se di per se stessi leciti, pure i fini presi di mira dall'associazione e fatti propri, trattandosi, in tal caso, non già di concorso nel reato di associazione, bensì di attività che realizza, perfezionandosi l'elemento soggettivo e quello oggettivo, il fatto tipico previsto dalla norma istitutiva della fattispecie associativa.›› (Cass. penale, sez. I, 21/03/1988)
[9] DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, 2008 op. cit., 311
[10] AMODIO, Rischio penale di impresa e responsabilità degli enti nei gruppi multinazionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, 1289
[11] VACIAGO, La responsabilità amministrativa degli enti: profili normativi, in AA.VV., Il modello di organizzazione, gestione e controllo di cui al d. lg. n. 231/2001. Profili metodologici e soluzioni operative, Milano 2008, 71.
[12] PISTORELLI, Brevi osservazioni sull’interesse di gruppo quale criterio oggettivo di imputazione della responsabilità da reato, in Rivista 231, 2006, 1, 15
[13] Si è, così, ritenuto che integra la distrazione rilevante ex art. 216 e 223, comma 1, L. fall. (bancarotta fraudolenta impropria) la condotta di colui che trasferisca, senza alcuna contropartita economica, beni di una società in difficoltà economiche - di cui sia socio ed effettivo gestore - ad altra del medesimo gruppo in analoghe difficoltà, considerato che, in tal caso, nessuna prognosi positiva è possibile e che, pur a seguito dell'introduzione nel vigente ordinamento dell'art. 2634, comma 3, cod. civ., la presenza di un gruppo societario non legittima per ciò solo qualsivoglia condotta di asservimento di una società all'interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l'autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società imponga all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l'interesse in nome di un diverso interesse, ancorché riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell'organismo impoverito (Sez. 5, n. 7326 del 08/11/2007, dep. 2008, Belleri, Rv. 239108).
[14] SGUBBI, Gruppo societario e responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001, in Rivista 231, 2006, 1, 7
[15] Idem op.cit.
[16] Trib. Milano, sez. riesame, ord. 14 dicembre 2004, in Foro it. 2005, II, 527 ss
[17] Trib. Milano, sez. G.i.p., ord. 26 febbraio 2007
[18] Il principio affermato dalla sentenza n. 24583 del 2010 è stato successivamente ribadito, almeno in apparenza, da Sez. 5, n. 4324 dell'8/11/2012, dep. 2013, Dall'Aglio, in tema di aggiotaggio infragruppo