Il confine tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale
Modifica paginaIl dibattito tra queste due tipologie di danno ha assunto particolare pregnanza dal 1979 in poi, ossia dopo il noto arresto della Consulta. Occorre chiarire fin dove si possa protrarre l´ ambito applicativo di un istituto e dove inizi quello dell´altro, in quanto il confine risulta estremamente labile e particolarmente complesso da circoscrivere.
Sommario: 1. Premessa; 2.1. Relativizzazione del principio di riserva di legge in materia di danno non patrimoniale; 2.2. Suddivisione del danno non patrimoniale in due macro categorie; 3. Problematiche; 4. Unitarietà del danno; 5. Natura unitaria del danno ed integralità del risarcimento.
1. Premessa
Le "diatribe" dottrinali e giurisprudenziali sul danno patrimoniale e danno non patrimoniale sono, almeno dal 1979, all’ordine del giorno, momento questo, in cui intervenne la prima sentenza della Corte Costituzionale mediante la quale si è cercato di conciliare la tutela risarcitoria ed i diritti inviolabili e fondamentali della persona, che diversamente necessitano di una tutela illimitata.
Far “convivere” uno strumento limitato e diritti illimitati è stata un’operazione estremamente complicata, realizzatasi mediante più pronunce della Consulta prima nel 1979, successivamente nel 1986, poi con diverse e plurime pronunce della Cassazione a Sezioni Unite ed infine, per concludere, con la sentenza del 22 luglio 2015, n. 15350 sul danno tanatologico.
Tali problematiche in materia di danno non patrimoniale sono affrontate dalla Cassazione con la sentenza del 21 novembre 2008, n. 26972 (e le due successive pronunce gemelle) e la sentenza del 22 luglio 2015, n. 15350.
La prima fissa lo “statuto del danno non patrimoniale”, mentre la seconda, nel confermare la prima, trae le relative conseguenze anche in materia di danno tanatologico. La prima è la sentenza cornice, la seconda invece applica l’arresto della prima in applicazione alla disciplina del più complesso e definito danno tanatologico.
Occorre effettuare due necessarie premesse relativamente alla relazione tra danno non patrimoniale e diritti fondamentali della persona, di seguito elencate.
2.1. Relativizzazione del principio di riserva di legge in materia di danno non patrimoniale
Il confine tra le due fattispecie di danno si rintraccia nell’ atipicità del danno patrimoniale e nella tipicità del danno non patrimoniale. Il primo è, infatti, risarcibile sempre quando è ingiusto, se deriva dalla compressione di un interesse giuridico meritevole di tutela, anche se non dovesse avere il rango di diritto assoluto; l’ingiustizia è sufficiente, da sola permette la risarcibilità.
Diversamente l’ingiustizia non è sufficiente nel danno non patrimoniale, in quanto, deve sussistere, ma non è da sola rilevante ai fini del risarcimento. Nella disciplina enunciata dall’art. 2059 c.c. – che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge – il compito di individuare i danni risarcibili non è attribuito alla sola clausola generale dell’ingiustizia, ma anche al filtro della legge, poiché, se non fosse tipizzato non sarebbe risarcibile.
Questa summa divisio (danno patrimoniale sempre risarcibile alla presenza di una lesione derivante dalla semplice ingiustizia, danno non patrimoniale risarcibile se in aggiunta all’ingiustizia sia presente anche una puntuale previsione di legge) si è attenuata dopo una serie di pronunce della Cassazione del 2003 e del 2004, le quali affermano che per norme di legge non si intendono solo le norme puntuali, che espressamente prevedono la risarcibilità del danno non patrimoniale, ma a questi fini anche le norme della Costituzione, che qualificando i diritti dell’uomo come inviolabili sono esse stesse previsioni legislative che soddisfino la riserva di legge ex art. 2059 c.c., così, prevedendo l’inviolabilità ne prevedono anche la risarcibilità, ampliano la riserva di legge.
La riserva di legge si è elasticizzata, per cui sono risarcibili i danni non patrimoniali non solo alla presenza di una legge puntuale, ma anche quando il diritto rientri nel catalogo dei diritti inviolabili della persona.
La relativizzazione della riserva di legge è resa ancora più chiara dalla considerazione che l’art. 2 Cost. non prevede una enucleazione precisa di diritti inviolabili, non disciplina un numerus clausus, bensì, inquadra una clausola aperta; per cui spetta alla sensibilità del giudice in un dato momento socio-culturale definire quali sono i diritti che rientrano nella previsione dell’articolo costituzionale. Il nucleo principale è individuato dall’interpretazione giurisprudenziale ancorata al sentire sociale di quel dato periodo storico.
2.2. Suddivisione del danno non patrimoniale in due macro categorie
- Quando è previsto da una puntuale normativa, per cui non si ha riguardo alla rilevanza del diritto tutelato, basta la sola previsione di legge a definire la tutela di quel determinato diritto e la risarcibilità del relativo danno non patrimoniale;
- Quando entrano in gioco i diritti inviolabili che, pur in assenza di legge, quest’ ultima viene sostituita dalla previsione costituzionale sui diritti fondamentali della persona. Legge essa stessa precettiva che integra la riserva di legge.
Tra i danni non patrimoniali “da legge”, dunque, il genus più importante è sempre e comunque il reato ex art. 185 c.p., per cui il risarcimento spetta quando la lesione derivi da un fatto costitutivo di un reato.
A questo punto sorge il seguente problema: il reato va accertato dal giudice civile secondo logiche penali o secondo logiche civili?
L’elemento psicologico deve essere verificato attraverso regole penali, che impediscono una presunzione di colpa e che ne prevedono il sempre puntuale accertamento, ossia: è possibile accertare il reato applicando le norme del codice civile che ne disciplinano una presunzione di colpa, non mediante un accertamento completo e preciso?
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 3532/2004 ha chiarito che quando sia necessario accertare un reato ai fini della responsabilità civile, il giudice applica le regole probatorie del diritto civile, può accertare uno pseudo-reato attraverso una pseudo-colpa che si fonda su una presunzione.
Queste due premesse, relativizzazione della riserva di legge e accertamento per mezzo di forme di responsabilità civile come la colpa presunta, sono rilevanti perché la Cassazione ha superato i due principali limiti presentati dall’art. 2059 c.c. ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale: ambito di operatività del danno non patrimoniale e regole probatorie che disciplinano il danno in oggetto.
Precedentemente si affermava che il danno non patrimoniale fosse risarcibile solo in base a precise e puntuali previsioni di legge, mentre ai fini della riscontrabilità probatoria si affermava che il fatto illecito doveva essere provato con le regole penalistiche. Tale previsione, inevitabilmente, implicava una difficoltosa e rara risarcibilità del danno per il soggetto danneggiato, che doveva aver subito un danno previsto puntualmente dalla legge, nei soli casi di reato, dovendo dimostrare l’elemento psicologico dell’autore, non potendo usufruire delle forme attenuate e di presunzione previste dal codice civile.
Questi due limiti, rigorosa tipicità e probatio diabolica, rendevano ostica l’applicazione dei diritti fondamentali con la risarcibilità del danno; da ciò ne derivò la pronuncia della Consulta del 1986, con la quale si operò una forzosa patrimonializzazione di diritti fondamentali, affermando che il danno non era inquadrato come «danno-conseguenza», ma come «danno-evento», cioè come danno in sé dei diritti della persona, il patrimonio della persona era considerato in modo ampio, cioè non solo in riferimento ai beni materiali, ma si mirava a quel complesso di diritti che fanno riferimento alla persona in sé. Si cercò di trasformare in patrimoniale, ciò che invece non lo era: si voleva in questo modo sfuggire alla stringente disciplina dell’art. 2059 c.c.
Oggi, grazie alle pronunce della Cassazione del 2003 e del 2004, tale interpretazione è divenuta non più strumentale, in quanto, le regole rigide della tipicità e dell’onere della prova si sono ridotte e relativizzate, essendosi elasticizzata la riserva di legge e la prova può fornirsi con le regole prettamente civilistiche.
3. Problematiche
Vi sono, però, delle problematiche inerenti il danno non patrimoniale:
- Il danno non patrimoniale è una categoria unitaria o si divide in sottocategorie diverse? Cosa si intende in riferimento al danno morale, biologico, esistenziale, parentale? Riguarda sempre il medesimo concetto di danno, di cui si mostrano diverse forme di manifestazione, ovvero sono danni ontologicamente diversi?
- Una volta stabilito che il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non scindibile in sottocategorie, come si concilia l’unitarietà del danno con l’integralità del risarcimento?
Il danno non patrimoniale, in qualsiasi dizione si manifesti, si mostra come unica categoria che si risolve in un unico concetto: il danno non patrimoniale è sofferenza; sono cause, modi e tempi diversi ma tutti facenti capo al medesimo concetto: la sofferenza. Occorre stabilire come si concilia, dunque, la natura unitaria con l’esigenza del risarcimento integrale del danno non patrimoniale, quando questa unica categoria abbia manifestazioni tra loro diverse e non coincidenti.
Si pone il problema particolarmente complesso di evitare i rischi di risarcire due volte il medesimo danno, fornendogli una dizione ed una etichetta diversa, diversamente e antiteticamente di pretermettere il risarcimento di un danno che è autonomo rispetto ad altra tipologia di danno, come ad esempio nel caso di un incidente stradale viene risarcito il danno biologico e non il danno morale, pretermetto un danno che è del tutto autonomo rispetto all’altro, perché riguarda un tipo, un momento e forme diverse di sofferenza che sono diverse da quelle prodotte con il (diverso) danno invocato.
Quindi, la problematica in questione riguarda tre esigenze differenti: l’esigenza di conciliare l’unitarietà del danno non patrimoniale con la doppia esigenza, da un lato, della duplicazione di un danno e, dall’altro, pretermissione di danni che sono autonomi e che sono autonomamente risarcibili.
- Qual è il contenuto di questa tipicità fortemente relativizzata a questo punto? È vero che la stessa è stata relativizzata, in quanto non è più necessaria la copertura di legge, ma basta la previsione costituzionale del diritto fondamentale. Ma detta relativizzazione fino a che punto può essere spinta e che limiti incontrano i giudici nell’interpretazione ed enucleazione dei diritti inviolabili della persona; non è pensabile che i giudici possano scegliere il “catalogo dei diritti inviolabili” sulla base di previsioni meramente soggettive, allora la relativizzazione sparirebbe del tutto; la riserva di legge verrebbe totalmente meno, non si guarderebbe come mera relativizzazione della stessa, ma come totale elusione. La tipicità, pur se fortemente relativizzata, resta vigente. Si vedrà come la riserva di legge rimane comunque vigente, il giudice deve giungere all’interpretazione dei diritti fondamentali con un serio ancoraggio alla carta costituzionale, cioè faccia una individuazione dei diritti fondamentali con dei contorni sufficientemente limitati e sufficientemente chiari e precisi. Si richiedono diritti precisi e puntuali che abbiano un chiaro e sufficientemente esplicito riferimento costituzionale: salute, sessualità, autodeterminazione terapeutica, riservatezza, oblio, casa lavoro, libertà religiosa e personale; ma non possono includersi nel novero anche i diritti alla serenità, al tempo libero, all’autodeterminazione in senso ampio, al sogno, alla felicità. Questi ultimi non hanno una base giuridico-costituzionale sufficientemente precisa e definita nei loro limiti inviolabili e fondamentali.
- Sono risarcibili tutti i danni non patrimoniali, quando vi sia una previsione di legge ovvero il danno non patrimoniale, oltre ad essere fondato su una previsione legale, abbia anche il carattere di sufficiente gravità e di particolare rilevanza? Esiste nel nostro sistema la cd. bagatelle clause, la clausola bagatellare, secondo la quale non tutte le interferenze (anche quotidiane) nella sfera personale del soggetto, che sono tipiche del vivere sociale, sono danni? Non sono risarcibili tutte queste interferenze, ma solo quelle sufficientemente rilevanti, che superino la soglia della normale tollerabilità, quelle connotate da particolare rilevanza e gravità, quelle sufficientemente caratterizzate, una caratterizzazione che le differenzi da quelle che si pongono come una normale e naturale interferenza nella sfera personale del soggetto coinvolto.
- Sarebbe possibile fare un discorso analogo per i danni che non siano esclusivamente di carattere non patrimoniale, derivanti da violazione del contratto, danni non patrimoniali contrattuali? Ad esempio, il danno affettivo andrebbe risarcito? Sicuramente non in campo aquiliano, in quanto, come suddetto sono risarcibili esclusivamente i danni tipizzati. Diversamente in campo contrattuale, c’è il limite della tipicità o meno? Oppure è sempre risarcibile indipendentemente dalla previsione legislativa e da un fondamento costituzionale? Nel caso di specie si versa nella totale atipicità del danno non patrimoniale da fonte contrattuale, ciò sull’assunto chiarissimo che in campo contrattuale la selezione degli interessi da tutelare non è sottoposta alla legge, ma al contratto e i contraenti anche per mezzo di contratti atipici; non si ha un problema di interpretazione della legge, ma della sola volontà delle parti, che hanno inteso includere e fissare determinati interessi all’interno delle clausole contrattuali.
- Prova del danno: il danno non patrimoniale è un danno-conseguenza, non basta dimostrare che vi è stata una violazione di un diritto della persona (cd. danno-evento), ma che tale lesione abbia prodotto delle conseguenze negative nella sfera personale, un pregiudizio che supera la sufficiente e qualificata gravità e serietà.
Si pone, infine e conseguentemente, una difficoltà ed una problematica sulla prova del quantum, poiché, mentre per il danno biologico è semplificata sulla base della determinazione delle tabelle mediche, per il danno non biologico pone una difficoltà probatoria sicuramente diversa.
4. Unitarietà del danno
L’unitarietà del danno è stata oggetto di numerosi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, dunque, occorre chiarire se quando si fa riferimento al danno biologico, esistenziale, catastrofico o parentale si intenda l’esistenza di categorie di danno diverse o una categoria di danno unitario.
A tal proposito, la Cassazione nel 2003, e soprattutto nel 2008, a Sezioni Unite con la sentenza n.26972, ha affermato che si tratta di semplici modi di manifestarsi di un danno unitario, concludendo che il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non scindibile in sotto categorie tra loro autonome e diverse.
Il danno non patrimoniale si risolve in un solo fenomeno fisico e psichico: la sofferenza. Ci possono essere cause diverse, intensità diverse, tempi diversi ma ogni tipo di danno si concretizza in una sofferenza, in un pati. Possono, dunque, essere utilizzati i differenti lemmi di: danno biologico, catastrofico, esistenziale, biologico, ma con l’idea ben chiara che non si tratta di categorie o sottocategorie diverse, di manifestazione di danni diversi, ma di locuzioni puramente descrittive che servono ad evidenziare delle particolari manifestazioni e delle particolari cause sempre però appartenenti al medesimo fenomeno e concetto di danno non patrimoniale.
Sostiene la Cassazione che: “si parla di sintesi descrittive di particolare modi di atteggiarsi dell’unico danno non patrimoniale”.
Nel danno biologico viene risarcita la sofferenza di colui che subisce un danno alla salute e peggiora la qualità della sua vita; nel danno parentale chi soffre la perdita di un congiunto e peggiora la qualità della sua vita; nel danno morale da reato viene risarcita la sofferenza di chi subisce tale fatto e in conseguenza vive una forte carica di sofferenza; nel danno catastrofico viene risarcita la sofferenza che precede l’esito morte; nel danno terminale viene risarcita la sofferenza da lesione che precede la morte. In tutti i casi pur con etichette diverse si evidenzia il concetto identico: la sofferenza che ha diverse cause, diverse intensità, diverse durate ma un’unica essenziale manifestazione.
La natura unitaria del danno non patrimoniale, manifestato per mezzo della sofferenza collegata al peggioramento della qualità della vita derivante dalla lesione di un diritto fondamentale della persona, lo si può individuare analizzando i due tipi più rilevanti di danno in oggetto:
- Danno esistenziale
- Danno biologico
Con riguardo al primo, i fautori della teoria del danno esistenziale, come danno autonomo rispetto al danno morale, hanno sempre affermato come questa prima tipologia si differenzia dal secondo fondamentalmente per due ragioni:
- perché è un danno esteriore, si concretizza nel non facere, nel mancato svolgimento delle attività realizzatrici della persona, mentre il danno morale non è da non facere, ma viene risarcito il danno interiore, la sofferenza, il pati;
- il danno esistenziale è un danno permanente, mentre invece il danno morale soggettivo è transitorio-temporale.
Le differenze, appena evidenziate, non sono sufficienti a dimostrare come i due danni non possano non essere la medesima cosa: il danno esistenziale è un danno morale e non qualcosa di diverso, si traduce in una sofferenza in un pati. Non viene risarcito il non facere in sé nel danno esistenziale, ma la sofferenza che si subisce e si concretizza nel non poter fare ciò; così anche nel danno esistenziale l’oggetto si ravvisa nel pati che il non facere produce, non è non fare qualcosa che si vorrebbe fare, ma riguarda la sofferenza che il piacere frustrato produce, ciò diviene oggetto di risarcimento. Così il danno esistenziale al pari del danno morale e di ogni altro danno non patrimoniale è un danno interiore, da sofferenza, non un danno da non facere in quanto tale, ma il voler fare quella precisa attività che viene preclusa al soggetto che provoca tale danno, tale sofferenza. L’aspetto ultimo non è il non poter fare un qualcosa, ma la frustrazione nella privazione e nell’impossibilità di poterla compiere.
In secondo luogo, viene meno anche il rilievo sull’eventuale decorrenza temporale dei due danni: chi potrebbe affermare a chiare lettere che il danno esistenziale è permanente, mentre quello morale è temporaneo e transitorio. Potrebbe avvenire esattamente il contrario. Anche sotto questa prospettiva, diviene fallace la differenziazione a cui sono giunte giurisprudenza e dottrina tradizionali.
Per cui è comprensibile come anche il danno esistenziale si traduca in una sofferenza, non configurando così un autonomo danno. Medesimo discorso potrebbe farsi per il danno biologico, l’art. 138[1] del codice delle assicurazioni individua la particolare entità dei danni derivanti da lesioni, appaiono delle quantificazioni tabellari, incrementabili con una valutazione individuale e personalistica fino al 30%, mentre l’art. 139 del medesimo codice prevede la risarcibilità delle lesioni di lieve entità fino al 9%, anch’esse incrementabili fino al 20%; ma cosa risarcisce di preciso il danno biologico? Il danno fisico in sé, sul piano statico? Se così fosse anche la minima lesione, che non avrebbe ripercussioni sulla vita di relazione sarebbe risarcibile.
Il danno biologico è l’integrità della lesione psico-fisica che si ripercuote negativamente sulla sfera personale del soggetto, con incidenza sulle dinamiche personali e sociali dello stesso. Gli artt. 138 e 139[2] ben inquadrano il danno qualificando e individuando quelle menomazioni accertabili e riscontrabili sul piano medico che incidono sugli aspetti dinamico-relazionali e personali che hanno un’incidenza negativa sulle attività quotidiane. Nel danno biologico non si risarcisce il danno alla salute in sé, come nel danno esistenziale non si risarcisce il non facere in sé, ma si risarcisce la sofferenza per il peggioramento della qualità della vita del soggetto lesa dal comportamento illecito altrui. Il danno biologico altro non è che una species del danno esistenziale e quindi una species del danno morale. Così anche il danno biologico – species del danno esistenziale – si traduce nella sofferenza e non nella menomazione in sé dell’integrità psico-fisica.
Nel rispondere alla prima domanda, dopo aver svolto le prime necessarie premesse – riserva di legge relativizzata: non è più necessaria una previsione di legge puntuale, ma la riconduzione del diritto leso nel catalogo dei diritti fondamentali della persona; ai fini civili il reato è accertabile anche attraverso una presunzione di colpevolezza – che rendono l’art. 2059 c.c. uno strumento di contrasto al danno patrimoniale, perché si superano i limiti legali e probatori, abbiamo osservato che il danno non patrimoniale non è passibile di divisione in categorie o sottocategorie plurime, ma si traduce in un’unica classificazione, rispondente alla mera sofferenza personale. Si possono utilizzare tutte le diverse locuzioni di danno (esistenziale, biologico, morale, catastrofico, terminale, ecc.) in quanto sole categorie ed espressioni descrittive e terminologiche del medesimo danno, diversi modi di manifestazione della sofferenza che rimane di per sé unitaria e identica.
5. Natura unitaria del danno ed integralità del risarcimento
Una volta che è stato accertato come il danno non patrimoniale è unitario, bisogna conciliare la natura unitaria del danno con l’integralità del risarcimento, secondo il principio per cui va risarcito tutto il pregiudizio non patrimoniale.
Il danno non patrimoniale è stato sempre soggetto ad un duplice rischio:
- Rischio c.d. “manica larga”: fin quando si è ritenuto che il danno non patrimoniale fosse divisibile in sottocategorie autonome, allora si poneva seriamente il rischio che, utilizzando più etichette, si risarcisse in modo plurimo quello che ontologicamente è il medesimo danno. Danno denominato in modi diversi e per ciò stesso risarcito più volte.
- Rischio della mancata risarcibilità complessiva e globale del danno: ulteriore rischio ricorreva nella mancanza totale, quindi nella risarcibilità parziale del danno. Diversamente da quanto suddetto, precedentemente era facile cadere in errore, in quanto, una forma di danno poteva in sé includere ogni ulteriore manifestazione diversificata di danno.
La riconduzione in ultimo del risarcimento del danno sotto una etichetta unica serve a contrastare il rischio duplice su esposto: duplicazione del risarcimento e parziale risarcibilità del danno.
Quale canone va allora seguito al fine di evitare sia la duplicazione sia l’elusione del risarcimento totale? Bisogna affrontare la problematica sul punto dell’analisi probatoria del danno di cui si chiede il risarcimento. Si vedrà come il risarcimento del danno potrebbe essere risarcibile non per il danno in sé ad un diritto inviolabile, risarcibilità del cd. danno-conseguenza, ma quando dal danno-evento siano derivate lesioni passibili di risarcibilità, danno-conseguenza. Conseguenze di cui bisogna dare dimostrazione: così, nel momento in cui il soggetto leso agisce in giudizio per la risarcibilità del danno, il giudice deve porre in essere una considerazione e valutazione giuridica sul piano dell’analisi probatoria, cioè deve chiedersi se il ricorrente/attore abbia provato di aver subito più conseguenze dannose tutte differenti tra di loro, deve chiedersi se vi siano state diverse conseguenze derivanti da diverse cause e che vadano risarcite tutte parimenti e differentemente l’una dall’altra, ovvero ha concluso per un’unica sofferenza sotto diverse etichette lessicali.
Deve così evitarsi che, da un lato, si risarcisca il danno ponendolo sotto dizioni differenti, dall’altro, deve essere utilizzato il concetto di danno non patrimoniale in modo da non andare a dirimere in senso negativo la tutela del medesimo limitandone il risarcimento anche se alla presenza di diverse e plurime sofferenze tutte parimenti risarcibili.
Ad esempio si avrebbe un’ingiusta locupletazione se si risarcisse la medesima sofferenza: risarcimento del danno biologico ed esistenziale, in quanto i due danni insistono sulla medesima fattispecie ex artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni; se si deducesse il danno sotto la duplice dizione si andrebbe a liquidare ingiustamente la medesima sofferenza.
Se diversamente si andasse a richiamare due etichette morfologicamente, sistematicamente e cronologicamente diverse non si avrebbe il bis in idem, ma si avrebbe l’esigenza della tutela risarcitoria piena derivante dalla lesione del diritto fondamentale alla persona. Per esempio se si perdesse un figlio e conseguentemente ci si ammala per la stessa causa, si avrebbero in questo caso due diversi danni da risarcire, l’uno derivante dalla perdita del figlio, l’altra dalla conseguente patologia insorta, si hanno due sofferenze diverse che vanno risarcite entrambe.
Per fare un ulteriore esempio, si potrebbe considerare la diversità che intercorre tra danno morale e danno biologico: diversità che si palesa soprattutto dai decreti intervenuti, es. danno da attentato terroristico e danno da uranio, per i quali la legge prevede la doppia risarcibilità del danno biologico e del danno morale. Dopo tutto anche le tabelle previste per la liquidazione del danno biologico, secondo il codice delle assicurazioni, prevede che sia incluso nelle stesse esclusivamente il danno biologico e viceversa non sia possibile valutare tabellarmente il danno morale.
Concludendo, si può allora ribadire, che fermo restando l’unitarietà del danno non patrimoniale, questa deve sostarsi da un lato nel rischio di evitare locupletazioni ingiustificate del danno, da lato opposto non deve cadersi nell’errore di incorrere in una risarcibilità parziale dello stesso, ritenendo che ci si trovi erroneamente in presenza di una medesima lesione. Bisogna valutare se il soggetto abbia patito la medesima sofferenza, ovvero se il danneggiato chieda il risarcimento di più sofferenze tra loro distinte, tutte parimenti risarcibili.
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