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Pubbl. Mar, 4 Apr 2017

La confisca ex art. 44 c. 2 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 tra diritto interno e diritto CEDU.

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Riccardo Giuseppe Carlucci


La confisca disposta dal giudice penale a fronte del reato di lottizzazione abusiva senza una sentenza di condanna, viola l´articolo 7 CEDU e l´articolo 1 del I Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato nella sentenza Varvara. La presa di posizione della Corte costituzionale con la sentenza del 26 marzo 2015 n.49.


1. Premessa

Nel panorama giuridico la confisca urbanistica è divenuto un argomento di primario interesse, sia a livello nazionale, ma soprattutto in rapporto al livello sovranazionale, divenendo in tale ultimo contesto, terreno di incontro-scontro tra la Corte costituzionale italiana e la Corte europea dei diritti dell’uomo. L’interesse per una consultazione della giurisprudenza della Corte EDU, su tale argomento, deriva anzitutto dal peculiare status che ormai viene riconosciuto alla CEDU nel nostro ordinamento giuridico. Le occasioni di confronto fra la giurisprudenza della Corte costituzionale e la giurisprudenza della Corte EDU, in effetti, si sono fatte più frequenti, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha indicato nel nuovo articolo 117, gli obblighi internazionali come limite alla potestà legislativa statale e regionale. Di conseguenza attraverso questa disposizione costituzionale, il diritto internazionale di fonte pattizia, e in particolare la CEDU, è stato sempre più frequentemente invocato come «parametro interposto di legittimità costituzionale delle leggi», da sottoporre pur sempre al previo riscontro di conformità con la Costituzione.

D’altra parte deve aggiungersi, come la Corte costituzionale se da un lato appare ben consapevole di non potere più opporsi alla penetrazione nel nostro ordinamento del diritto derivante da Strasburgo, dall’altro lato non cessa di erigere steccati, per una difesa “formale” della nostra Costituzione, e nella sostanza degli equilibri del sistema italiano vigente, oltre che a svolgere un ruolo per cosi dire di “controllore” delle valvole di ingresso nell’ordinamento di quel diritto.

È in tale contesto che si inserisce la sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, con la quale i nostri giudici delle leggi, se da una parte muovono da premesse di grande apertura al diritto di Strasburgo, in modo ancora più netto rispetto a quanto affermato nelle “sentenze gemelle” del 2007, si affrettano dall’altro ad erigere, mediante l’inammissibilità delle questioni rimesse dai giudici a quo, un nuovo steccato al diritto che proviene dalla Corte EDU.

Ancora una volta, oggetto del contendere, è rappresentato dalla sanzione della confisca urbanistica e dalla sua controversa natura.

2. La confisca urbanistica nell'ordinamento italiano.

Il ricorso alla confisca quale strumento di repressione del fenomeno degli abusi edilizi trova origine giurisprudenziale. Tale istituto ha rappresentato la reazione della giurisprudenza al fenomeno della crescente speculazione edilizia negli anni settanta, molto spesso realizzata in violazione delle norme e dei regolamenti urbanistici e nell’inerzia delle autorità amministrative competenti.

La particolare previsione di confisca, prevista dapprima nell’art. 19 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 con cui, anche a mezzo di un vastissimo condono mirante alla rigenerazione del sistema, il legislatore tentò di dar vita ad una riforma ad ampio respiro, risultando tuttavia, ancora carente sotto il profilo sistematico (il precedente assetto normativo non fu integralmente sostituito), benché migliorativa delle descrizioni delle singole fattispecie di illecito, e poi trasfusa senza modificazione nell’articolo 44 c. 2 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, si ricollega alla previsione del comma 1 dell’art. 30 dello stesso D.P.R., rubricato “Lottizzazione abusiva” che dispone che «si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione […]» e stabilendo all’art 44 comma 2 dello stesso D.P.R. che la «sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite».

I terreni lottizzati e le relative opere edili, costituiscono reato poiché sono privi di autorizzazione (ovvero le opere risultano essere in totale difformità rispetto all’autorizzazione concessa), o sono in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici. Stante il carattere obbligatorio della confisca, per potervi procedere quindi è sufficiente il semplice accertamento dell’avvenuta lottizzazione abusiva, fermo restando la necessità di una sentenza definitiva.

Deve inoltre sottolinearsi come la confisca urbanistica, non è assolutamente assimilabile alla misura di sicurezza prevista dall’art. 240 c. 1 del codice penale (confisca facoltativa): nell’ipotesi prevista dall’art. 44 del T.U. la sanzione è obbligatoria e va disposta, come visto, anche a seguito di una sentenza definitiva di proscioglimento per una causa diversa dall’insussistenza del fatto.

Ulteriore motivo sulla non assimilabilità della confisca urbanistica all’ipotesi contemplata dall’art. 240 c.p., consiste nel fatto che con la confisca ex art. 44 T.U. i beni vengono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio comunale e non statale (come invece accade nella diversa ipotesi dell’art. 240 c.p.).

La confisca di cui all’art. 44 c. 2, non è neppure assimilabile alla misura di sicurezza di cui all’art. 240 c.2 c.p. (confisca obbligatoria), poiché il fondo abusivamente lottizzato non ha caratteristiche intrinseche di pericolosità.

Sin dalla sua introduzione con la legge 28 febbraio 1985 n. 47, la confisca urbanistica accessoria al reato di lottizzazione abusiva, venne qualificata dalla giurisprudenza di legittimità prevalente, agli inizi degli anni ’90 e a partire dalla sentenza Licastro (Corte di Cassazione, III Sezione, 12 novembre 1990), come una sanzione amministrativa obbligatoria, indipendente dalla condanna in ambito penale. Tale conclusione venne giustificata dalla Corte facendo un’esegesi letterale della norma che, richiedendo una «sentenza definitiva» e non una «sentenza di condanna» (diversamente da altre fattispecie contenute nella stessa legge es. ordine di demolizione ex art. 31 D.P.R. 380/01), non esige la responsabilità per il reato, ma soltanto l’accertamento che vi sia stata lottizzazione abusiva. Tale tesi ebbe largo seguito negli anni successivi e venne infine avallata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 187/1998, ove si affermò che la confisca dei terreni, in tema di lottizzazione abusiva, “avrebbe carattere di sanzione amministrativa” e non di misura di sicurezza reale come affermava altra parte della giurisprudenza e dottrina. Da ciò conseguirebbe che essa possa prescindere da una condanna.

Da tale qualificazione come sanzione accessoria amministrativa anziché come pena in senso proprio, la giurisprudenza aveva dedotto una serie di conseguenze tra cui:

a) l’applicabilità della misura in conseguenza del solo accertamento della materialità dei fatti di reato, indipendentemente dalla prova dell’elemento soggettivo;

b) l’applicabilità della misura anche ai terzi di buona fede;

c) l’applicabilità della misura anche mediante la sentenza di non doversi procedere, in particolare per intervenuta prescrizione, allorché il fatto di reato risulti comunque accertato dal giudice penale.

3. Corte EDU Sud-Fondi

Tale orientamento, venne messo in discussione per la prima volta in conseguenza delle due pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, dapprima con la decisione sull’ammissibilità (del 2007) e poi con la sentenza sul merito (del 2009)  nel caso Sud-Fondi c. Italia. Il caso era relativo a una lottizzazione abusiva avvenuta nella località “Punta Perotti” cui era conseguita una sentenza di assoluzione da parte della Corte di Cassazione per errore di diritto inevitabile ex art. 5 c.p. come integrato dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale (dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 5 del c.p., laddove non escludeva dal principio della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale i casi di ignoranza inevitabile e perciò scusabile. Tra i criteri in base ai quali si possa emettere il giudizio sulla inevitabilità-scusabilità dell’ignoranza o errore, vi sono i criteri oggettivi puri, che cioè tengono conto di cause che rendono impossibile la conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato, quali che siano le caratteristiche personali), avendo considerato che essi versassero in tale situazione di “ignoranza inevitabile” del diritto applicabile, a causa dell’esistenza di una «legislazione regionale oscura e male formulata» circa il rilascio delle autorizzazioni edificatorie.

Nonostante la pronuncia assolutoria la Suprema Corte confermò all’esito del giudizio la confisca urbanistica, sulla base dell’accertamento materiale del fatto di lottizzazione abusiva da parte dei ricorrenti.  

Questi ultimi decisero di ricorrere alla Corte EDU, lamentando una palese violazione dell’articolo 7 della CEDU e dell’art. 1 Prot. 1 della Convenzione che riconosce il diritto di proprietà denunciando:

  • illegalità della pena (affermavano che non avrebbero immaginato di andare incontro all’inflizione di una sanzione)
  • e il carattere sproporzionato della confisca nei loro confronti.

Il Governo italiano in difesa delle Corti nazionali aveva sostenuto che il principio del nulla poena sine lege sarebbe applicabile solo alle sanzioni penali e non anche alle sanzioni amministrative.

La Corte EDU, tuttavia, nel valutare se una sanzione abbia o meno carattere “penale” ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, non risulta essere vincolata dalla qualificazione della sanzione medesima nell’ordinamento interno. La Corte di Strasburgo per stabilire tale carattere, si serve di criteri autonomi, di regola considerati alternativi e non cumulativi, criteri sono stati per la prima volta enunciati nella sentenza Engel, risalente agli anni 70 del Novecento. Essi comprendono:

  • qualificazione della sanzione da parte dell’ordinamento interno,
  • natura della violazione
  • finalità della sanzione
  • natura del procedimento che conduce all’irrogazione della medesima

Tali criteri erano stati poi precisati, in merito proprio all’istituto della confisca, nella sentenza Welch ove la Corte sottolineò, come l’affiancarsi ed il coesistere, con quella afflittività, di finalità diverse, di natura preventiva o risarcitoria ˗ in realtà, non faccia venire meno la natura penale della confisca.

Avendo ravvisato nella misura una finalità di carattere prettamente repressivo, i giudici di Strasburgo ritennero che si trattasse di sanzione di carattere penalistico (collegamento tra la confisca e il reato di lottizzazione abusiva e sulla circostanza che essa sia disposta dal giudice penale - soffermandosi sul carattere spiccatamente punitivo della misura ablatoria e sulla sua natura contemporaneamente preventiva e repressiva - confisca colpiva anche terreni non edificati pari all’85% di tutti i fondi) con l’applicazione dei criteri dettati dall’articolo 7 CEDU e si riservarono di emettere una successiva sentenza per valutare se i diritti fondamentali fossero stati violati dal giudice italiano.

Tale sentenza, sia pure sull’ammissibilità del ricorso, iniziò comunque a produrre alcune conseguenze all’interno dell’ordinamento italiano. Infatti nell’aprile del 2008, la Corte d’Appello di Bari sollevò la questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’articolo 44 comma 2 del D.P.R. 380/01, in relazione agli articoli 3, 25 c.2 e 27 c.1 Cost. «nella parte in cui impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti».

In tale ordinanza il giudice barese venne affermando che se la confisca ex art. 44 c. 2 del T.U. edilizia è una pena, allora il fatto che essa possa essere disposta a prescindere dall’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, in particolare a seguito del proscioglimento dell’imputato per cause diverse dall’insussistenza del fatto, nonché nei confronti di soggetti terzi ed estranei al reato, fa sì che tale normativa violi il principio di uguaglianza, il principio della riserva di legge in materia penale e di personalità della responsabilità penale garantiti dalla Costituzione.

Nelle more della decisione della Corte costituzionale, anche il solido orientamento della Corte di cassazione, in merito a tali problematiche iniziò a subire importanti incrinature. Difatti nell’ottobre del 2008, nella sentenza Silvioli, la Corte di cassazione venne ad affermare, per la prima volta, come  la confisca urbanistica «non può essere disposta nei confronti di soggetti estranei alla commissione del reato e venuti in buona fede in possesso del terreno o dell’opera oggetto del reato di lottizzazione abusiva».

Tale decisione della Suprema Corte richiamò la decisione della Corte EDU nel caso Sud-Fondi giungendo, tuttavia, alla conclusione citata attraverso un percorso motivazionale differente rispetto a quello seguito da Strasburgo. Difatti l’esclusione del terzo incolpevole, dai soggetti nei cui confronti la confisca può essere disposta, conseguiva dall’applicazione dei principi che regolano l’inflizione di sanzioni amministrative e in particolare quelli dettati dagli artt. 2 e 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 che, tra l’altro, esige che la sanzione amministrativa sia comminata in presenza di un’«azione o omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa».

Nella sentenza del 20 gennaio 2009, la Corte evidenziò come «l’articolo 7 non menziona espressamente un legame morale fra l’elemento materiale del reato ed il presunto autore. Ciò nonostante, la logica della pena e della punizione così come la nozione di “guilty” (nella versione inglese) e la nozione corrispondente di “personne coupable” (nella versione francese) sono nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esiga, per punire, un legame di natura intellettiva (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato».

In virtù di tale ragione la Corte europea, accogliendo le argomentazioni dei ricorrenti, concluse affermando che "l’inflizione di una pena senza che sia accertato un coefficiente psicologico di responsabilità, rappresenta una violazione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della Convenzione".

Tale violazione determina l’illiceità del provvedimento di confisca, avente un carattere del tutto arbitrario, con la conseguente lesione anche delle garanzie previste dall’art. 1 Prot. 1.

La sentenza del 20 gennaio 2009 sul caso Sud-Fondi impose un ulteriore cambiamento della giurisprudenza italiana in materia di confisca ex art. 44 c. 2 T.U. edilizia, che peraltro non tardò ad arrivare.

Sostenendo, sempre sul piano formale, la natura di misura di carattere amministrativo della confisca, la Suprema Corte di cassazione negli anni successivi, riconobbe la necessità di riscontrare anche un coefficiente di natura psicologica che consenta di poter muovere un rimprovero nei confronti dell’autore del fatto materiale di lottizzazione abusiva.

La sentenza che inaugurò il nuovo orientamento fu la n. 21188 del 2009 laddove si faceva riferimento alla necessità che sia accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi.

A pochi mesi di distanza dalla sentenza della Corte EDU, la Corte costituzionale si è poi trovata a dover esaminare la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Appello di Bari nel periodo intercorrente tra le due pronunce della Corte di Strasburgo sul caso Sud-Fondi:

  1. Circa la prima delle questioni sollevate dalla Corte di Appello pugliese, relativa cioè all’applicabilità della confisca urbanistica anche nei confronti di terzi in buona fede, essa era già stata risolta dalla pronuncia della Corte di cassazione nel caso Silvioli;
  2. In merito invece alla seconda questione sollevata, ossia quella relativa alla possibilità di ordinare la confisca urbanistica anche nei confronti di soggetti la cui responsabilità penale non fosse stata accertata con sentenza di condanna, i giudici di legittimità, pur sostenendo la necessità di un pieno accertamento degli elementi oggettivi e soggettivi del reato, ebbero modo di ribadire espressamente la possibilità di applicare tale provvedimento ablativo anche attraverso una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.

Sia la Corte costituzionale, sia la Corte di cassazione non ritennero, quindi, di doversi occupare della questione della confisca disposta in assenza di una pronuncia di condanna.

Nel mentre, intercorse la sentenza Paraponiaris c. Grecia, ove la Corte EDU si trovò ad affrontare una problematica simile a quella della confisca urbanistica. In tale pronunciamento i Giudici greci:

  • nonostante il Paraponiaris fosse stato prosciolto dall’accusa di contrabbando di prodotti petroliferi in udienza preliminare per intervenuta prescrizione;
  • gli avevano comunque applicato la misura accessoria della confisca in veste oggettiva e per equivalente

I giudici di Strasburgo in relazione all’articolo 6 avevano stabilito due importanti principi:

  • Per l’inflizione di una sanzione penale è necessaria un’udienza pubblica in cui l’imputato sia messo in condizione di esplicare al massimo il proprio diritto alla difesa; (nel caso di specie la sanzione pecuniaria era stata disposta in esito a un’udienza non pubblica e alla quale il ricorrente non era stato presente né personalmente, né tramite un rappresentante.)
  • Per l’inflizione di una sanzione penale è altresì necessario un accertamento contenuto in una sentenza di condanna. (nel caso Paraponiaris, la Corte EDU affermò che era difficile comprendere la portata delle espressioni adoperate dai giudici greci «che operano una distinzione, a suo giudizio artificiale, fra un accertamento di colpevolezza ed un accertamento di commissione “oggettiva” di un reato».) Violando l’art. 6 p. 2 che sancisce la presunzione di innocenza.

In merito all’attuazione di tali principi nell’ordinamento italiano, il primo principio può dirsi solidamente recepito, che ha precisato di recente come, in relazione agli accertamenti compiuti dal giudice che pronunci sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, sia necessario:che l’accertamento sia condotto sulla base di tutte le risultanze dibattimentali disponibili e nel contraddittorio con l’imputato nella pienezza dei suoi diritti difensiviCirca il secondo principio non risulta ancora essere recepito: e cioè quello riguardante la necessità di una vera e propria sentenza di condanna quale presupposto per l’applicazione di una confisca.

4. Sentenza Varvara.

Con ricorso n.17475/09 proposto avverso la Repubblica italiana, il cittadino italiano Vincenzo Varvara ha adito il 23 marzo 2009 la Corte di Strasburgo, lamentando che la confisca disposta nei suoi confronti, a seguito di un procedimento penale per lottizzazione abusiva, era in contrasto con gli articolo 7 e 6, par. 2, della Convenzione, nonché con l’articolo 1 del Protocollo n.1 addizionale alla Convenzione stessa.

In particolare, l’istanza presentata dal Varvara alla Corte EDU costituisce l’ultima tappa, a fronte dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, stante il principio di sussidarietà affermato dal sistema di garanzie della Convenzione, per cui l'obbligo di dare applicazione alla Convenzione spetta anzitutto agli Stati aderenti e la Corte EDU interviene solamente laddove tali Stati siano venuti meno al loro dovere.

A seguito di una lunga e complessa vicenda, relativa ad alcuni edifici dal Varvara realizzati in prossimità della Foresta di Mercadante, nel comune di Cassano delle Murge, venne disposta la confisca urbanistica delle opere realizzate e dei terreni lottizzati nonostante il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, sulla base del mero accertamento fattuale di un “oggettivo contrasto” tra quanto costruito ed alcune norme relative alla tutela urbanistica del territorio.

Nell’incipit della motivazione la Corte di Strasburgo ha modo di sottolineare come nel diritto italiano quando si dichiara il non doversi procedere per prescrizione, il reato si estingue e di conseguenza non può applicarsi la pena.

Soffermandosi poi sulla confisca urbanistica, la Corte EDU ritiene:

  • la sussistenza della violazione dell’articolo 7 della Convenzione secondo cui «nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale ed internazionale», facendo riferimento alla precedente decisione della causa Sud-Fondi in cui si era affermato che «la confisca controversa si traduce in una pena e pertanto trova applicazione l’articolo 7 della Convenzione». Articolo 7 che esige per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore.
  • Nonché ritiene assorbita la violazione dell’articolo 6 per le stesse motivazioni dell’articolo 7;
  • Ed integrata la violazione dell’art.1 Prot. 1 della Convenzione, in quanto la confisca ordinata nei confronti del Varvara sarebbe stata priva di una base legale e quindi illegittima. (oltre che la sproporzione del provvedimento di confisca, dal momento che il 90% dei terreni confiscati risultano essere non edificati).

Infine c’è da rilevare come nella sentenza Varvara, ai sensi dell’articolo 45 comma 2 della Convenzione, è allegata l’opinione in parte concordante e in parte dissenziente del giudice Pinto De Albuquerque, che sostiene come nel caso di specie, la Corte EDU ha perso un’occasione per chiarire «le condizioni di questo fondamentale strumento della politica penale contemporanea, tenendo conto degli sviluppi del diritto internazionale dei diritti dell’uomo, del diritto penale internazionale, del diritto dell’Unione europea». Egli non condivide la posizione assunta dalla Corte EDU, auspicando invece che essa cambi orientamento e si convinca a riconoscere la natura di sanzione amministrativa a tale figura di confisca, fondata sulla «funzione sociale della proprietà, di cui all’art. 41 della Costituzione italiana» ma con l’applicazione dell’art. 1 del Protocollo n.1, rispettando in particolare, nell’intervento limitativo della proprietà per interesse pubblico, dei criteri di proporzionalità, valutati avuto riguardo al caso concreto, senza la possibilità, sostenuta dalla giurisprudenza italiana, che la confisca debba estendersi automaticamente a tutti i terreni abusivamente lottizzati. Nel caso Varvara, quindi, secondo tale giudice si sarebbe dovuta ravvisare una violazione del principio di proporzionalità, tenuto conto della percentuale dei terreni non edificati sottoposti a confisca e della complessità della questione che ha dato luogo, nelle varie fasi processuali, a decisioni contrastanti.

5. Questioni di legittimità costituzionale.

Sulla confisca urbanistica ha avuto modo poi di pronunciarsi la Corte cosituzionale con la sentenza n. 49 del 2015, depositata il 26 marzo 2015. Le ragioni che hanno portato alla pronuncia della Corte costituzionale n. 49 del 2015, devono rinvenirsi in due questioni di costituzionalità sollevate proprio sulla base della giurisprudenza proveniente da Strasburgo.

  1. L’una, sollevata dalla terza sezione della Corte di cassazione, centrata sull’asserita illegittimità dell’articolo 44, comma 2, del D.P.R. 380/01, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, nella parte in cui tale disposizione, in forza dell’interpretazione della Corte EDU, «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità sia accertata in tutti i suoi elementi» invocando la Corte costituzionale ad azionare i “controlimiti” evocati nelle sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007, con riguardo al principio del rispetto degli obblighi discendenti dalla Convenzione, consacrato nell’articolo 117, comma 1 Cost. Secondo il parere della Corte di cassazione, vi può essere un pieno accertamento del fatto di reato e della responsabilità dei soggetti nei cui confronti la misura viene ad incidere, anche nell’ambito di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato e ciò basta, secondo la Cassazione, a garantire la legalità della misura disposta. Tuttavia il vero cuore dell’ordinanza n. 20636 presentata dalla III Sezione della Corte di cassazione, si sviluppa nelle sue ultime quindici pagine, laddove essa afferma che il principio espresso nella sentenza Varvara, divenuto definitivo, e quindi vincolante per lo Stato italiano ai sensi dell’articolo 46 CEDU, a seguito del rigetto dell’istanza di rinvio alla Grande Camera formulata dal governo italiano, si porrebbe esso stesso in contrasto con una serie di principi contenuti all’interno della Carta costituzionale, e in particolare con quelli discendenti dagli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117 comma 1 Cost. Si tratta di norme che all’unisono «impongono che il paesaggio, l’ambiente, la vita e la salute siano tutelati quali valori costituzionali oggettivamente fondamentali, cui riconoscere prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprietà, ritenuto violato dalla sentenza Varvara.
  2. Se da un lato questa era la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, da un’angolazione pressoché simmetrica ma contraria, il Tribunale di Teramo ha sollevato anche esso una questione di legittimità costituzionale sullo stesso argomento. Tale tribunale ha affermato come l’applicazione della confisca ex art. 44 c.2 all’interno di una sentenza di proscioglimento, risulterebbe essere in contrasto con il principio sancito all’articolo 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Varvara, esplicito invece nell’affermare la necessità di una sentenza formale di condanna.

Le opposte posizioni della terza sezione della Corte di cassazione e del Tribunale di Teramo, possono essere sintetizzate affermando come:

  • mentre il Tribunale di Teramo chiedeva alla Corte costituzionale di superare il diritto vivente della Cassazione e di adeguare così l’ordinamento italiano agli standard fissati dai giudici europei,
  • la terza sezione della Cassazione, invece, chiedeva alla Consulta di cristallizzare quel medesimo diritto vivente, ‘blindandolo’ con il crisma della soluzione costituzionalmente necessaria a fronte dell’ “invadenza” dei giudici di Strasburgo.

Quindi, parzialmente analogo il thema decidendum, diverso il petitum.

6. Corte costituzionale. Sentenza n. 49/2015.

Con la sentenza n. 49 del 26 marzo 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Teramo in merito all’articolo 44 comma 2 del T.U. in materia edilizia.

Con tale sentenza, la Corte ha censurato sotto diversi profili le questioni prospettate dai giudici rimettenti, rilevando:

  1. in primo luogo un difetto di prospettazione del thema decidendum, in particolare individuato in una erronea individuazione della norma da impugnare. Oggetto del ricorso incidentale avrebbe, infatti, dovuto essere  non la disposizione del T.U. in materia edilizia, bensì la legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui con essa si è conferita esecuzione ad una norma reputata di dubbia costituzionalità, ovvero al divieto di applicare la confisca urbanistica se non unitariamente ad una pronuncia di condanna penale;
  2. in secondo luogo, un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo; Tale profilo di inammissibilità si iscrive in un orientamento giurisprudenziale ove la Corte costituzionale, costantemente, rimarca come la rilevanza della questione proposta nel giudizio a quo debba essere oggetto di specifica motivazione, in difetto della quale il ricorso si arena nello scoglio processuale del non liquet;
  3. Ma l’interesse per l’internazionalista della sentenza n. 49 sta soprattutto nell’ampia parte dedicata:
    1. ai rapporti tra il diritto della CEDU e diritto interno
    2. e al ruolo rispettivo della Corte di Strasburgo e del giudice nazionale, la dove la Consulta sembra aver fatto un ulteriore balzo in avanti nella linea di diffidente contenimento della CEDU.

L’argomentare della Consulta è complesso e in alcuni passaggi il linguaggio appare particolarmente drastico, basti pensare all’affermazione del predominio assiologico della Costituzione sulle norme della CEDU (par. 4 considerato in diritto). Dalla lettura della sentenza appare evidente come l’obiettivo prioritario della Consulta sia quello di:

  • ridimensionare una volta per tutte il ruolo della CEDU e della giurisprudenza di Strasburgo.

Anzitutto, la Consulta esordisce con l’affermazione: “ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata”, richiamando la giurisprudenza che tende a relegare il giudice europeo ad un ruolo circoscritto, limitato a specifici casi, competendo invece solo al giudice costituzionale la valutazione sistemica e non frazionata dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata e il necessario bilanciamento in modo da assicurare la “massima espansione delle garanzie” di tutti i diritti e principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali.

La motivazione prosegue ribadendo:

  • in prima battuta: quanto affermato nelle sentenze gemelle 348-349/2007, ossia che alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” in ordine a tutte le questioni circa l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, allo scopo di assicurare che all’esito di un confronto ermeneutico sia ricavata dalla disposizione convenzionale una norma idonea a garantire la certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti, di un livello minimo di tutela dei diritti dell’uomo. In tal caso la Consulta parla di una funzione interpretativa eminente della Corte di Strasburgo.
  • Subito dopo la Corte però precisa che i giudici nazionali non sono passivi recettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, richiamando il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge ex. art. 101 c.2 Cost.

Dopo ciò la Corte costituzionale opera una distinzione a seconda che:

  1. il giudice comune torni ad occuparsi di una specifica causa rispetto alla quale la Corte di Strasburgo abbia pronunciato una sentenza;
  2. ovvero al di fuori di tale presupposto.

Nel primo caso il giudice comune non potrà negare di dar corso alla decisione di Strasburgo, affinché cessino gli effetti lesivi della violazione accertata.

Nel secondo caso, invece, l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, i quali non potranno ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione.

La portata del dictum della Corte costituzionale lascia perplessità e preoccupazioni per le conseguenze che ne possono derivare circa il rispetto del sistema convenzionale di garanzia dei diritti dell’uomo.

Il punto centrale delle sentenza sta nell’affermazione che: è solo un diritto consolidato che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo. Quindi qualora il giudice comune si interroghi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione:

  • in assenza di un diritto consolidato
  • tale dubbio è sufficiente a condurre ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, senza la necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale, e senza tener conto dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU.

Tale passaggio crea due ordini di problemi.

Il primo riguarda la definizione di “diritto consolidato”: dove la stessa Corte costituzionale afferma che non sarà sempre di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato un adeguato consolidamento. Dopo ciò la Consulta elabora essa stessa degli indici che dimostrerebbero il carattere non consolidato della giurisprudenza di Strasburgo:

  1. la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza della Corte europea; i contrasti con altre pronunce;
  2. le opinioni dissenzienti, soprattutto se sostenute da robuste motivazioni;
  3. le decisioni provenienti da camera che non abbia ancora avuto l’avallo della Grande Camera;
  4. il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti peculiari, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

In tali casi secondo la Consulta non vi sarà alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU, sempreché non si tratti di una sentenza pilota in senso stretto.

Non risulta essere però chiaro quando si sia in presenza di una giurisprudenza consolidata. Potrebbero verosimilmente ritenersi dar luogo ad un consolidamento del diritto le sentenze della Grande Camera che decide in sede di riesame quando:

  • sono in gioco gravi problemi di interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli (art. 43 CEDU)
  • in primo grado: quando la soluzione della questione rischi di dare luogo a un contrasto con una sentenza pronunciata anteriormente dalla Corte (art. 30)

Ma la Grande Camera pronuncia un numero di sentenze esiguo all’anno.

Cosi come rimane inspiegato l’accostamento alla giurisprudenza consolidata delle sentenze pilota: esse non riflettono necessariamente un orientamento consolidato della giurisprudenza europea ma piuttosto l’accertamento di casi di violazioni ripetute o sistematiche della CEDU da parte dello Stato in conseguenza  di un difetto strutturale dell’ordinamento giuridico e della sua prassi.

Rimane l’interrogativo delle sentenze definitive delle Camere, come lo è diventata la sentenza Varvara (24 marzo 2014).

Come sottolineato da VIGANÒ, a seguito del rifiuto da parte del collegio dei 5 giudici previsto dall’art. 43 CEDU, di dar seguito alla richiesta del governo italiano di procedere al riesame della causa da parte della Grande Camera, tale sentenza della Camera ben potrebbe costituire diritto consolidato.

Ulteriore quesito che si pone è se l’ obbligo di conformarvi ad esse sancito dall’art. 46 CEDU, si impone:

  • solo per il giudice comune che abbia definito la causa di cui torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino, doverosamente gli effetti lesivi della violazione accertata
  • piuttosto se tale obbligo non grava sullo Stato e quindi su tutti i suoi organi in primis quelli giurisdizionali ogni qual volta che si trovino ad applicare le stesse disposizioni normative?

Essa è una problematica sorvolata dalla Consulta, andando ad inasprire un conflitto ormai non più latente nei rapporti con la Corte di Strasburgo.

In realtà negli ultimi anni la Corte costituzionale sembra essere decisamente orientata verso l’affermazione esplicita della prevalenza del diritto interno sulla CEDU e più in generale sul diritto internazionale (sent. 238/14). La sentenza n. 49 va indubbiamente avanti in tal senso.

7. Conclusioni.

A seguito della sentenza n.49 del 26 marzo 2015, la Corte costituzionale, pur dopo aver ribadito che la verifica di compatibilità della Convenzione con la Costituzione è di propria stretta competenza, invita, tuttavia, i giudici ordinari ad opporre direttamente i controlimiti agli obblighi discendenti dalla Convenzione stessa così come interpretati dalla Corte EDU, producendo di fatto decisioni che presumibilmente daranno vita, negli anni successivi, ad una responsabilità in capo allo Stato italiano.

A giudizio della Consulta, quindi, la Corte di Cassazione avrebbe errato ad investirla circa i dubbi relativi alla compatibilità del principio di diritto espresso nella sentenza Varvara con le norme costituzionali invocate. La Suprema Corte di cassazione, invece, avrebbe dovuto privilegiare il canone dell’interpretazione costituzionalmente conforme dell’articolo 44 comma 2 del D.P.R. 380/01, e quindi confermare il diritto vivente interno, ignorando di fatto il precedente di Strasburgo senza coinvolgere la Corte costituzionale, sulla base di una sentenza della Corte EDU non idonea a fondare un obbligo di interpretazione conforme in capo al giudice ordinario.

Come fatto osservare da attenti autori, tale principio, tuttavia, comporta il rischio di autorizzare qualsiasi giudice comune ad azionare direttamente la delicatissima arma dei “controlimiti” all’adeguamento del diritto interno al diritto proveniente da Strasburgo, e a violare, quindi, gli obblighi derivanti dalla CEDU. Sicuramente ciò desta perplessità, vista la facilità con cui spesso i giudici comuni individuano un qualche principio costituzionale a sostegno di una decisione in contrasto con quanto stabilito dalla Corte EDU. I controlimiti, in realtà, devono essere considerati in una logica di extrema ratio, invocati solamente in casi eccezionali e con la massima cautela, altrimenti verrebbe meno tutto il sistema di tutela dei diritti fondamentali costituito dalla CEDU, alla quale l’Italia si è volontariamente obbligata.

Ulteriore conseguenza che discende dalla decisione della Consulta, riguarda invece le ragioni che stanno alla base dell’inammissibilità della questione così come prospettata dal Tribunale di Teramo. Tale tribunale non sospettava minimamente la contrarietà alla Costituzione del principio affermato all’interno della sentenza Varvara, ma piuttosto rilevava di non poter dar seguito alla decisione di Strasburgo a causa dell’articolo 44 del D.P.R. 380/01, interpretato stabilmente dal diritto vivente interno in un senso incompatibile con l’articolo 7 della CEDU, secondo l’apprezzamento espresso dalla Corte EDU all’interno della sentenza Varvara stessa. L’esistenza di tale diritto vivente, impossibilitava il giudice ad una interpretazione conforme alla CEDU di tale norma, imponendogli la formulazione di una questione di legittimità costituzionale. Tuttavia, tale questione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale, sostenendo come la sentenza Varvara non sia idonea ad integrare di contenuto il parametro interposto di cui all’articolo 7 della CEDU.

La Corte costituzionale, rifiutandosi di intervenire al riguardo sino a quando non si sia formata una “giurisprudenza consolidata” a Strasburgo, lascia che il giudice comune debba rassegnarsi a porre in essere una decisione, che molto probabilmente, verrà censurata dalla Corte EDU, poiché lesiva dei diritti umani dei suoi destinatari.

L’effetto che ne deriva da questa nuova sentenza della Corte costituzionale risulta essere paradossale, essa infatti costituirà un incentivo affinché i giudici comuni risolvano il più possibile da sé, le eventuali antinomie tra il diritto interno e il diritto di Strasburgo.

In realtà la questione deve essere affrontata cercando di comprendere quale sia il reale problema; indubbiamente la confisca urbanistica, oggi, costituisce uno strumento fondamentale a difesa di un territorio vessato dagli abusi edilizi. Rinunciare a tale istituto in presenza di una dichiarazione di prescrizione, significherebbe togliere all’ordinamento l’unica arma realmente efficace a tale fine.

Tuttavia come sostenuto da diversi autori, la reazione alle diverse patologie italiane, non può sempre essere semplicemente la difesa di ciò che esiste, accettando l’eventualità, nel frattempo, di una violazione dei diritti fondamentali degli imputati. La risposta, invece, dovrebbe essere più un’invocazione affinché il legislatore intervenga su tale tema, attraverso una modifica della disciplina, idonea a restituire al sistema penale la capacità di compiere efficacemente le proprie essenziali funzioni di tutela.

Sotto tale profilo, quindi, se è vero che cinque anni non bastano per accertare nei diversi gradi di giudizio, tenendo anche conto dei gradi di rinvio, un reato di accertamento assai complesso quale la lottizzazione abusiva, allora la via non può che essere quella di intervenire sul piano legislativo, affinché si giunga ad una tanto invocata riforma della prescrizione, che costituisce uno dei più gravi fattori distorsivi del funzionamento del nostro sistema penale.

Infatti il problema di tale vicenda consiste proprio nel fatto che il giudice ordinario, quando dichiara la prescrizione ma dispone la confisca ai sensi dell’articolo 44 comma 2 del T.U. in materia edilizia, deve comunque dare conto in modo completo ed esaustivo della valutazione del fatto e del diritto, nei suoi elementi oggettivi e soggettivi. Tuttavia, la prescrizione può pronunciarsi in modi e gradi differenti, anche prima che siano state valutate le prove (addirittura in fase pre-dibattimentale, quando le prove ancora non si sono formate).

Ulteriore soluzione prospettata da alcuni autori consiste, anziché nella riforma della prescrizione, nella trasformazione della lottizzazione abusiva da contravvenzione quale è, a delitto con conseguente ampliamento del termine prescrizionale. Indubbiamente la confisca urbanistica costituisce un affascinante tema, che investe diverse materie e poni delicati problemi nei rapporti tra ordinamenti. Sicuramente la Corte costituzionale con la sentenza del 26 marzo 2015 n. 49, ha perso l’occasione per chiarire una volta per tutte tale problematica.

 

BIBLIOGRAFIA:

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