Ne bis in idem: uno scontro-confronto (senza fine?) tra giurisprudenza CEDU e nazionale.
Modifica paginaNel nostro sistema giuridico processual-penale esiste un fondamentale principio di civiltà giuridica, ossia il divieto, per qualsiasi soggetto, di essere sottoposto due volte al processo penale per il medesimo fatto di reato. Il presente contributo analizza il ne bis in idem in ambito sovranazionale e interno e passa in rassegna la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e del giudice nazionale che hanno contribuito, nel tempo, a dare concretezza al suddetto principio generale.
Sommario: 1. Premessa; 2. Il problema dell’applicabilità del divieto al sistema del doppio binario: il caso Grande Stevens contro Italia e la sentenza della Grande Camera A e B c. Norvegia; 3. Nozione di “medesimo fatto” e applicabilità del divieto de quo al concorso formale di reati; 4. Conclusioni
1. Premessa
L’imputabilità di un soggetto deve necessariamente sottostare ad un principio cardine dell’intero sistema giuridico, sia sovranazionale che interno, ossia il principio del cd. ne bis in idem, consistente nel divieto di sottoporre due volte a processo uno stesso individuo per un medesimo fatto di reato. Tale principio, in particolare, è previsto in primo luogo a livello sovranazionale. L’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU[1], rubricato "Diritto di non essere giudicato o punito due volte", recepito anche dall’art. 50 della Carta di Nizza[2], infatti, stabilisce che gli Stati firmatari hanno il divieto di perseguire un soggetto una seconda volta per un reato per il quale sia già stato precedentemente giudicato con sentenza definitiva.
Il primo problema che si è posto con riguardo all’articolo in parola è stata la qualificazione della “sanzione penale” ai fini dell’applicazione di siffatto divieto. La giurisprudenza di Strasburgo, allora, a partire dal 1976, ha utilizzato i cd. criteri Engel. Per qualificare un’accusa come di matrice penale ed applicare, conseguentemente, il divieto di ne bis in idem, occorre aver riguardo essenzialmente a tre fattori. In primis, la qualificazione che lo Stato convenuto dà all’illecito contestato. Tale indicazione, tuttavia, ha solo un valore formale e relativo, poiché la Corte deve supervisionare sulla correttezza di tale qualificazione alla luce degli altri fattori indicativi del carattere “penale” dell'accusa. In secondo luogo, infatti, occorre guardare alla natura “sostanziale” dell’illecito commesso, ossia se esso abbia ad oggetto la violazione di norme poste a tutela di interessi di una data formazione sociale o della collettività in generale. In ultimo, si deve considerare il grado di severità della pena che rischia la persona interessata, in quanto sono da valutare come “penali” solamente le privazioni della libertà personale suscettibili di essere imposte quali punizioni.
Innanzitutto, quindi, sarà “penale” la sanzione che sia qualificata tale dalla norma o, in mancanza, si deve guardare alla natura, scopo e gravità della sanzione per come a priori prevista, e non per come concretamente inflitta[3]. Questi criteri sono alternativi, ma possono essere anche utilizzati cumulativamente, laddove necessario alla qualificazione dell’accusa come “penale”[4].
Vista la previsione dell’art. 4 Prot. 7 Cedu, ci si è chiesti, allora, se in caso di contrasto tra la normativa italiana e l’art. 4 del Protocollo 7 Cedu, il giudice italiano possa disapplicare direttamente la norma italiana, come stabilito dalla Consulta n. 170 del 1984 per i regolamenti comunitari e le direttive autoesecutive, oppure debba promuovere il giudizio di legittimità costituzionale per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma della Costituzione, il quale impone al legislatore il rispetto, nell’attività di produzione legislativa, degli obblighi internazionali, sempre che non sia possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna. La soluzione adottata dalla giurisprudenza è quest’ultima in quanto - come affermato dalla Corte Costituzionale nelle famose sentenze gemelle 348 e 349 del 2007 e ribadito nella sentenza 80/2011 - la CEDU non crea un ordinamento giuridico sovranazionale e non produce norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico in un sistema più vasto in grado di emanare norme vincolanti per le autorità interne degli Stati membri. Di guisa che, nel caso di contrasto tra la norma interna e quella della CEDU e nell’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna, occorrerà sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., con la norma Cedu quale norma interposta. Tale assunto non muta con l’avvento dell’art. 50 della Carta di Nizza, che, come anticipato, recepisce i dettami dell’art. 4 del Protocollo 7 Cedu ed alla quale il Trattato di Lisbona ha conferito lo stesso valore giuridico dei Trattati UE, ma non ha comportato un mutamento della collocazione della CEDU nel sistema delle fonti[5].
A tal fine, sono noti i principi della famosa sentenza Fransson[6], con la quale la Corte di Giustizia si è pronunciata su un rinvio pregiudiziale relativo all’ambito di applicazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 50 della Carta di Nizza e art. 4 Prot. 7 Cedu. La fattispecie riguardava un soggetto che era già stato sanzionato dal punto di vista tributario per omissioni in tema di obblighi dichiarativi IVA e veniva ora sottoposto a procedimento penale per frode fiscale aggravata in relazione al medesimo fatto. In quell’occasione, la Corte ribadiva la differenza di ampiezza dell’art. 50 della Carta di Nizza rispetto all’art. 4 Prot. 7 Cedu. Mentre la giurisprudenza di Strasburgo afferma che il principio di ne bis in idem sancito nel protocollo n. 7 osta a provvedimenti che infliggono una duplice sanzione, amministrativa e penale, per gli stessi fatti, impedendo di avviare un secondo procedimento quando la prima sanzione sia divenuta definitiva, la Corte di Giustizia ha stabilito che il principio di ne bis in idem di cui all’art. 50 della Carta di Nizza “non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale”. L’art. 50 della Carta, afferma la Corte, “presuppone che i provvedimenti già adottati nei confronti dell’imputato ai sensi di una decisione divenuta definitiva siano di natura penale”, da valutare alla luce dei criteri Engel. Spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali parametri, se il cumulo di sanzioni tributarie e penali sia compatibile o meno con la Carta e se sia effettivo e dissuasivo o eccessivamente punitivo per il soggetto. Inoltre, la Corte ha ribadito che in caso di disposizioni nazionali in contrasto con la Carta di Nizza, il giudice nazionale ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle norme dell’Unione, disapplicando qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale.
Ciò posto a livello sovranazionale, lo stesso principio del ne bis in idem è previsto anche nel nostro codice di rito, all’art. 649 c.p.p[7].
A livello nazionale, il nostro legislatore, diversamente da altri Paesi dove il divieto di bis in idem è costituzionalizzato (Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, India), prevede, all’art. 649 del codice di rito, il divieto del doppio giudizio, tranne le due ipotesi di cui agli artt. 69 co. 2 c.p.p. (erronea dichiarazione di morte dell’imputato) e 345 c.p.p. (intervento della condizione di procedibilità, prima inesistente), nel caso in cui lo stesso soggetto sia stato già condannato o assolto con sentenza definitiva passata in giudicato per lo stesso fatto[8].
Il principio del ne bis in idem è frutto dell’abbandono del sistema inquisitorio a favore di quello accusatorio e mira ad evitare la duplicità delle decisioni e che il soggetto sia sottoposto alla potestà punitiva dello Stato senza termini.
L’ambito applicativo della norma processuale, inizialmente legato all’irrevocabilità della sentenza di condanna, è stato poi esteso anche ai casi di assenza di un provvedimento irrevocabile, laddove la duplicazione dello stesso processo sia comunque incompatibile con le strutture fondanti dell'ordinamento processuale. Le S.U. Penali[9], infatti, hanno affermato che la preclusione del "ne bis in idem" giustifica la dichiarazione di impromovibilità dell'azione penale anche in presenza di provvedimenti decisori diversi da quelli indicati nell'art. 649 c.p.p., come la pronuncia di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p.. Il giudicato penale si caratterizza, infatti, per l’indifferenza del contenuto della decisione; non importa l’accertamento positivo o negativo del reato, ma la sentenza penale in sé e per sé, che rileva, pertanto, come fatto giuridico in senso stretto. La pronuncia penale ha una valenza prettamente processuale, che vieta di passare dal giudizio di cognizione a quello di esecuzione se già si è stati processati, di guisa che pare più corretto parlare, anziché di giudicato, di preclusione, che si distingue dal giudicato perché non assicura un bene della vita, ma risolve la questione dedotta in maniera irrevocabile e definitiva. È questo il significato da attribuire alla nozione di irrevocabilità dell’art. 649 c.p.p., nel senso di statuizione definitiva della controversia.
L'art. 649 c.p.p., dunque, costituisce un singolo, specifico, punto di emersione del principio del ne bis in idem, che permea l'intero ordinamento, dando linfa a un preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull'identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema. A tale divieto va attribuito, pertanto, il ruolo di principio generale dell'ordinamento, come affermato già nel 2005 nella sentenza Donati[10].
2. Il problema dell’applicabilità del divieto al sistema del doppio binario: il caso Grande Stevens contro Italia e la sentenza della Grande Camera A e B c. Norvegia.
Orbene, presupposto logico-giuridico dell’operatività del ne bis in idem convenzionale di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU è l’identità del fatto oggetto degli addebiti, ossia l’identità della condotta materiale. Si è posto in evidenza come, in realtà, l’art. 4 succitato non vieta l’apertura contemporanea di due diversi procedimenti per lo stesso fatto, ma vieta beninteso la pendenza contemporanea degli stessi, ovvero sanziona la mancata interruzione di uno nel caso l’altro divenga definitivo[11].
La tematica relativa al divieto di bis in idem, che ha alimentato un continuo proliferare di pronunce sia della Corte Edu che della giurisprudenza nazionale, ha riguardato in particolare due settori: quello relativo ai reati tributari e quello relativo agli abusi di mercato.
Per quanto concerne la normativa interna sul market abuse, che comprende le ipotesi di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, essa è contenuta nel T.U.F. (D. Lgs. 80/1998), agli artt. 180-187.
L’abuso di informazioni privilegiate e la manipolazione del mercato sono puniti attraverso il cd. sistema del doppio binario. Il cumulo punitivo si evince dall’inciso iniziale dell’art. 187-bis TUF, ma anche dalla previsione del concorso di procedimenti accertativi, che devono procedere parallelamente benché in autonomia, vietando al riguardo l’art. 187-duodecies che si sospenda l’accertamento amministrativo, nonché il successivo giudizio di opposizione di cui all’art. 187-septies, per il fatto che sia pendente un procedimento penale vertente sui medesimi fatti o su fatti che, rispetto a quelli in contestazione, rivestano carattere di pregiudizialità.
Tale sistema prevede la predisposizione sia di una sanzione penale (reclusione e multa) applicata dal giudice penale, sia di una sanzione amministrativa di tipo pecuniario applicata dalle autorità amministrative individuate a livello nazionale, ossia, in Italia, la Consob, l’autorità preposta alla vigilanza ed alla tutela del pubblico risparmio.
È proprio con riguardo all’applicabilità del sistema del doppio binario che si evidenzia precipuamente l’influenza dei principi CEDU sulla disciplina del market abuse. Su tale questione è intervenuta nel 2014 la Corte Europea di Strasburgo nel famoso caso Grande Stevens contro Italia, affermando il contrasto tra il doppio binario sanzionatorio ed il principio del ne bis in idem convenzionale. Si è sollevato, all’indomani della sentenza Grande Stevens, il problema della compatibilità del sistema del doppio binario sanzionatorio del market abuse col divieto convenzionale del ne bis in idem. In altre parole, ci si chiede se il divieto di cui all’art. 4 Protocollo 7 Cedu si applichi anche al caso in cui un soggetto venga punito per lo stesso fatto sia con sanzioni penali che amministrative, come nel caso degli abusi di mercato.
Orbene, l’influenza dei dettami della sentenza Grande Stevens sul principio in parola si vede nell’adeguamento del legislatore nazionale alla normativa comunitaria, rispetto al quale deve garantire il rispetto del ne bis in idem.
La Direttiva 2014/57 intervenuta a modificare il sistema degli abusi di mercato, infatti, prevede che, nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della stessa, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali e amministrative non violi il principio del ne bis in idem.
Di guisa che, nel caso di disciplina nazionale contrastante con i principi CEDU, atteso il valore di norma interposta ex art. 117, co. 1, Cost. della CEDU nel sistema delle fonti, il giudice nazionale, come già anticipato, non deve disapplicare la norma interna violativa del diritto CEDU, bensì scegliere la strada del giudizio di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta, per eventuale violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., sempre che non sia possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna, come ribadito più volte dalla Corte Costituzionale.
È proprio ciò che è avvenuto nel sistema di market abuse, laddove la Corte di Cassazione Penale, con ordinanza n. 1782/2015[12], ha sollevato una duplice questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 4 Protocollo 7 CEDU.
La prima questione riguarda l’art. 187-bis, comma 1, TUF, oggetto di censura nella parte in cui fa «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché prevedere una clausola di sussidiarietà del tenore «Salvo che il fatto costituisca reato». Si vorrebbe cercare di evitare il bis in idem, prevedendo le sanzioni penali per i fatti di insider trading primario ex art. 184 TUF e lasciando quelle amministrative solo per i fatti di insider trading secondario ex art. 187 bis TUF, non penalmente sanzionati, data la perfetta sovrapponibilità tra i fatti oggetto delle due norme (rectius “stesso fatto”).
L’altra questione di legittimità costituzionale, formulata in linea rigorosamente subordinata rispetto alla prima e richiedente una pronuncia additiva, riguarda, per l’appunto, l’art. 649 c.p.p., norma indiziata di illegittimità nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui «l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi protocolli», natura di sanzione penale che, nel caso dell’ordinanza di rimessione, era stata attribuita alla sanzione irrogata dalla Consob per l’abuso di mercato oggetto di causa. Con la conseguenza che nel caso di conclusione definitiva del procedimento amministrativo sanzionatorio ex art. 187 bis TUF, ci sarebbe l’obbligo di proscioglimento nel processo penale in corso per il medesimo fatto, ex art. 649, co. 2, c.p.p.
Ma la Consulta n. 102/2016 si è pronunciata non entrando nel merito e dichiarando inammissibili le questioni di incostituzionalità sollevate dalla Cassazione.
In altre parole, il problema del doppio binario e della compatibilità col divieto di bis in idem sussiste laddove si conferisca natura sostanzialmente “penale” - alla luce degli “Engel criteria” delineati dalla giurisprudenza CEDU - alla sanzione irrogata dall’autorità amministrativa, come affermato dalla Cassazione nel succitato caso.
Dunque, alla luce della sentenza Grande Stevens, il legislatore e il giudice nazionali hanno dovuto fare i conti con i dettami della pronuncia in parola, per evitare di imbattersi in continue violazioni del diritto convenzionale in tema di divieto di bis in idem. Il problema, a questo punto, non è tanto l’an dell’adeguamento al sistema sovranazionale, bensì il quomodo[13]. In questo, il giudice nazionale dovrebbe porre fine a tutti i procedimenti penali in tema di abuso di mercato, laddove i medesimi fatti siano già stati giudicati dalla Consob con provvedimenti definitivi. Il procedimento incardinato davanti alla Consob, infatti, pur essendo “formalmente amministrativo”, ha sostanzialmente natura penale e, quindi, deve sottostare alla garanzia convenzionale del divieto del bis in idem.
C’è anche chi[14], in dottrina, sostiene la diretta applicabilità dell’art. 50 della Carta di Nizza in caso di contrasto tra la normativa interna e le disposizioni Cedu. L’art. 50 in parola, infatti, è diritto primario dell’Unione e come tale, direttamente applicabile, avendo come contenuto minimo quello dell’art. 4 Protocollo 7 Cedu, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo. A conferma, vi è l’art. 52 par. 3 della Carta[15], laddove il richiamo alla Cedu deve intendersi come comprensivo anche dei protocolli alla stessa, tra cui il Prot. n. 7, nonché dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU della stessa Convenzione e dei protocolli, interpretazione che fissa il livello minimo di tutela del diritto al ne bis in idem anche nell’ambito del diritto dell’Unione; il contenuto di tutela dell’art. 50, in altre parole, è uguale a quello assicurato dall’art. 4 Prot. 7 CEDU.
Inoltre, la materia dell’abuso di mercato è una materia “eurounitaria”, disciplinata, per quanto riguarda le sanzioni amministrative, nel Reg. n. 596/2014/UE e, per quanto riguarda le sanzioni penali, nella Dir. n. 2014/57/UE. Ciò determina, come stabilito dall’art. 51 della Carta di Nizza, l’applicabilità dei diritti e delle garanzie riconosciute dalla Carta, tra le quali, appunto, quella relativa al ne bis in idem di cui all’art. 50 della stessa[16].
Ma l’incalzare incessante della giurisprudenza Cedu sul tema del ne bis in idem non si è arrestato nemmeno nei tempi più recenti. I principi espressi dalla sentenza Grande Stevens sono infatti, in parte, stati messi in discussione, in tema di reati tributari, dalla sentenza della Grande Camera della Corte Edu del 15 novembre 2016 nel caso A e B c. Norvegia, riguardante due contribuenti norvegesi che lamentavano di essere stati puniti due volte, con il sistema del doppio binario sanzionatorio penale e amministrativo, per il medesimo illecito tributario, relativo al sistema delle sovrattasse. In questa pronuncia vengono confermati gli “Engel criteria” per la valutazione della natura “penale” della sanzione, criteri ritenuti alternativi e non cumulativi, nonché la nozione di “stesso fatto” così come definita dalla Corte Edu, nel senso di medesimo fatto storico-naturalistico, come meglio si preciserà in seguito. Ciò che cambia è la regola dell’interruzione del procedimento ancora in corso quando sia divenuto definitivo l’altro sul medesimo fatto. Si stabilisce, infatti, che la violazione del ne bis in idem convenzionale di cui all’art. 4, Prot. 7 Cedu, è esclusa, ed i distinti procedimenti sanzionatori - penale ed amministrativo - possono esaurirsi entrambi, quando tra essi sussiste una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta". Tale connessione è presente, secondo la Grande Camera, quando i due procedimenti non solo in astratto, ma anche in concreto, perseguono scopi complementari ed hanno ad oggetto differenti aspetti della medesima condotta antisociale. Per evitare di incorrere nel divieto convenzionale, occorre che i due procedimenti proseguano in modo da evitare ogni forma di duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove, attraverso un’interazione tra le autorità competenti che permetta di utilizzare l’accertamento dei fatti effettuato in un procedimento anche nell’altro e che la sanzione applicata nel procedimento che diviene definitivo per primo sia tenuta in considerazione in quello che diviene definitivo per ultimo, di modo che la sanzione complessiva risulti proporzionata per il soggetto, nonché, al contempo, efficace e dissuasiva. Inoltre, tra i procedimenti deve esserci una connessione, oltre che sostanziale, di tipo temporale, ossia una contestualità cronologica che, però, non sta a significare che essi devono procedere simultaneamente dall’inizio alla fine.
In presenza di questa connessione sostanziale e temporale tra i due procedimenti, dunque, non sussiste violazione del divieto convenzionale del bis in idem di cui all’art. 4 Prot. 7 CEDU, anche se la sanzione amministrativa assuma natura sostanzialmente “penale” ex art. 7 Cedu, in base ai criteri Engel. È questa l’importante affermazione della pronuncia in esame e che manifesta una rottura coi principi della sentenza Grande Stevens.
3. Nozione di “medesimo fatto” e applicabilità del divieto de quo al concorso formale di reati
Altro problema che si è posto con riguardo al divieto di bis in idem e che ha visto un acceso contrasto tra giurisprudenza Cedu e nazionale relativamente all’ambito di applicazione dello stesso è quello del concorso formale di reati. Occorre evidenziare in primo luogo che, a differenza dell’art. 669 c.p.p., l’art. 649 c.p.p. non menziona il concorso formale tra le ipotesi alle quali applicare il ne bis in idem. Il problema riguarda il caso in cui sussista un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato oggetto del nuovo procedimento penale. Per giurisprudenza nazionale consolidata, si è sempre escluso che l’art. 649 c.p.p. si applicasse al concorso formale di reati, sul presupposto dell’assenza di un elemento indefettibile, ossia il “medesimo fatto”, in quanto i reati in concorso formale presentano, normalmente, eventi giuridici diversi. Il concorso formale, infatti, si caratterizza per una unica condotta dalla quale possono scaturire diversi eventi giuridici penalmente rilevanti. Non viene violato, allora, il bis in idem se si inizia un nuovo processo penale per quella parte di fatto giuridico diverso da quello già oggetto di giudicato. Il giudicato formatosi in relazione ad uno degli eventi giuridici non impedisce l’azione penale in riferimento all’altro evento scaturito da quella medesima condotta. Questo perché la giurisprudenza nazionale interpreta la nozione di “medesimo fatto” in modo del tutto diverso rispetto alla giurisprudenza Cedu, ossia come fatto giuridico e non come fatto storico.
Infatti, il problema dell’applicabilità del divieto di bis in idem al concorso formale comporta la risoluzione di una questione preliminare, ossia quella relativa all’esatta qualificazione della nozione di “medesimo fatto”. La vicenda dalla quale trae origine la rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. relativamente al concorso formale di reati inizia con l’ordinanza del 24/07/2015 del Gip di Torino relativa al procedimento Eternit-bis, che dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui limita l’applicazione del principio del ne bis in idem all’esistenza del medesimo fatto giuridico nei suoi elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che all’esistenza del medesimo fatto storico così come delineato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nella fattispecie, il soggetto lamentava la violazione dell’art. 4 Prot. 7 Cedu, relativamente alla nozione di “idem factum” così come interpretata dalla Corte EDU, nel senso di “identità di condotta” e, quindi, chiedeva che il giudice a quo pronunciasse sentenza di non luogo a procedere. Si contestava, per converso, la diversa interpretazione data dalla costante giurisprudenza nazionale, ormai diventata diritto vivente, la quale aderiva ad una nozione di “idem legale”, comprensivo di condotta, evento e nesso di causalità. La Corte Costituzionale, investita della questione, con sentenza del 21/07/2016 n. 200, afferma in primis che né dall’art. 4 Prot. 7 Cedu, né dalla giurisprudenza Cedu - a partire dalla sentenza Zolotoukhine 2009 - è possibile dedurre una nozione di “medesimo fatto” ristretta alla sola condotta, ma che nulla esclude che vi possa rientrare anche l’oggetto fisico su cui ricade la condotta e finanche l’evento, inteso in senso naturalistico. In altre parole, il fatto cui fa riferimento il divieto di bis in idem è sicuramente il fatto storico - naturalistico e giammai quello dovuto all’inquadramento giuridico, ossia l’idem legale, in quanto il divieto di bis in idem è da comprendersi tra i principi generalissimi di civiltà giuridica, grazie al quale “l’individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto”, sicchè ancorare il medesimo fatto all’idem legale vorrebbe dire togliere forza al suddetto principio generale dell’ordinamento, in quanto l’incertezza sulla valutazione del fatto giuridico andrebbe a ripercuotersi sull’applicazione del divieto in parola, minando le garanzie che lo stesso offre all’individuo. Si accoglie, allora, la nozione di idem factum, l’unica, a detta della Consulta, compatibile con la Costituzione e con la Cedu, sposata dalla giurisprudenza di legittimità a decorrere dalla già più volte citata pronuncia delle SS.UU. del 28 giugno 2005, n. 34655, ossia il fatto storico-naturalistico, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi di condotta, evento, nesso. Con la precisazione che il rilievo di questi elementi, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dal giudice rimettente, non determinerebbe l’accoglimento di una nozione giuridica del “medesimo fatto”, in quanto l’evento non avrebbe rilevanza in termini giuridici, ma soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. Da tale concezione di “medesimo fatto” inteso quale fatto storico, materiale, comprensivo anche dell’evento in senso naturalistico, la Consulta ne fa discendere l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. – per violazione dell’art. 117 co. 1 Cost., in relazione all’art. 4 Prot. 7 Cedu quale norma interposta- nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Di guisa che il giudice dovrà confrontare il fatto storico oggetto di giudicato penale col fatto storico alla base della nuova imputazione del p.m..
4. Conclusioni
Dalla panoramica appena descritta emerge la difficoltà di tracciare con certezza l’esatto ambito di applicazione de divieto di bis in idem, ancora attualmente racchiuso in una continua disputa tra giurisprudenza Cedu e nazionale, alla quale non è estranea la Corte di Giustizia, investita di plurime questioni pregiudiziali sull’interpretazione del diritto dell’Unione, con particolare riguardo alla previsione dell’art. 50 della Carta di Nizza, in riferimento soprattutto alla materia dei reati tributari e del market abuse. Ancora una volta, dunque, viene in rilievo l’arduo compito dell’interprete di trovare il giusto raccordo ed equilibrio tra la giurisprudenza nazionale ed europea, compito reso ancora più complicato dal difficile dialogo tra la Corte Edu e la Corte di Cassazione sul problema del rapporto tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio amministrativo e penale. Allo stato, il già complicato quadro d’insieme è arricchito dalla recente sentenza della Grande Camera della Corte Edu nel caso A e B c. Norvegia, la quale, come visto, ha affermato principi diversi rispetto a quelli affermati in passato dalla Corte di Giustizia e solo in parte aderenti a quelli della stessa Corte EDU nel caso Grande Stevens.
Note e riferimenti bibliografici
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ROMANO M., Commentario sistematico al codice penale, Giuffrè, Milano, 2004
Santise M., Coordinate ermeneutiche di diritto penale, Aggiornamento 2015, Giappichelli Editore- Torino
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VIGANO’ F., A Never-Ending Story? Alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia, questa volta, di abusi di mercato, 17 febbraio 2016.
[1] La disposizione citata afferma che: “1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato.
2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta.
3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.”.
[2] “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge.”.
[3] Cfr. CEDU sent. causa C-199/92 del 1999 Huls/Commissione; sentenza 8 giugno 1976 Engel ed altri contro Paesi Bassi, serie A n. 22, par. 82; sentenza 21 febbraio 1984 Ozturk c. Germania, serie A n. 73, par.53; sentenza Lutz contro Germania, serie A n. 123, par. 54.
[4] Cfr. sentenza Iussila contro Finlandia n. 73053/2001.
[5][5] Corte Cost. 80/2011.
[6] sentenza CGUE, Grande sezione, 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson.
[7] “L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.
Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.”.
[8] Nella stessa logica dell’art. 649 c.p.p. si muove l’art. 669 c.p.p. il quale dispone che, in caso di pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona, il giudice ordina l'esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno grave, revocando le altre.
[9] Cassazione penale, SS.UU., sentenza 28/06/2005 n° 34655.
[10] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 28 giugno 2005, n. 34655.
[11] Così affermato già a partire dalla nota pronuncia della Grande Camera Corte EDU nel caso Zolotukhine vs Russia, resa in data 10/2/2009 e confermato dalla sentenza Grande Stevens contro Italia.
[12] Anche la Sez. Tributaria della Corte di Cassazione, con ordinanza 950/2015 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 ter TUF, dichiarata inammissibile dalla Corte Cost. 102/2016.
[13] F. VIGANO’, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta? (a margine della sentenza Grande Stevens della Corte Edu), 30 giugno 2014.
[14] F. VIGANO’, op. cit.
[15] “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa.”.
[16] A tal riguardo, si segnalano le ordinanze della Sez. Tributaria n. 20675/2016 e della II Sez. Civ. nn. 23232 e 23233 del 2016, che hanno formulato distinte questioni pregiudiziali dinanzi alla Corte di Giustizia, in riferimento all’interpretazione dell’art. 50 della Carta di Nizza. In particolare, ci si chiede se la previsione dell'art. 50 debba essere interpretato nello stesso senso dell’art. 4 Prot. n. 7 CEDU ed alla luce della giurisprudenza della Corte Europea e, quindi, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto per cui il medesimo soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile e se il giudice nazionale possa applicare direttamente i principi del diritto dell’Unione in relazione al principio del "ne bis in idem", in base all'art. 50, come sopra interpretato.