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Pubbl. Gio, 19 Gen 2017

Reato aberrante: deroga ai normali criteri dell'imputazione dolosa?

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Alfonso Cilvani


Perimetrazione dell’ambito applicativo del “reato aberrante” nella duplice ipotesi di aberratio ictus e delicti; indagine sulla tenuta costituzionale dell’ art. 82 co.1 con riferimento al principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost..


L’ipotesi delittuosa che la dottrina ha individuato con la locuzione “reato aberrante”, si inserisce nella più ampia tematica relativa alla divergenza tra il voluto ed il realizzato, atteso che l’agente si rappresenta e vuole un fatto criminoso diverso da quello concretamente posto in essere.

Tale divergenza rinviene la sua scaturigine in un errore, nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o altra causa, nel quale il soggetto agente incorre, per effetto del quale viene ad esser cagionata un’offesa ad una persona diversa da quella originariamente designata ovvero commesso un reato diverso da quello voluto.

La disciplina codicistica si rinviene agli artt. 82 e 83 c.p. e, dunque, nel capo relativo al “concorso di reati”: tale collocazione costituisce evidente indice di differenziazione dalle ipotesi di errore rilevanti ai sensi degli artt. 47-49 c.p.. In queste ultime norme, infatti, la divergenza tra voluto e realizzato dipende da un errore che incide sul processo formativo della volontà (cd. errore-motivo) mentre nell’aberratio consegue ad un errore che interviene nella fase di esecuzione del reato (cd. errore-inabilità).

Ciò premesso, il legislatore ha tipizzato due fattispecie di reato aberrante: è difatti possibile distinguere tra aberratio ictus ed aberratio delicti, a seconda dell’elemento della fattispecie su cui ricade l’errore nonché delle conseguenze offensive che da esso discendono.

La prima figura, disciplinata dall’art. 82 c.p, ricorre allorquando la deviazione del processo causale, indotta dall’errore-inabilità, determina non un mutamento sostanziale dell’evento avuto di mira dall’agente, ma esclusivamente del soggetto passivo del reato, originandosi, dunque, una discordanza tra la vittima designata e quella effettivamente attinta. È ciò che accade nell’ipotesi in cui Tizio, volendo uccidere Caio, a causa di un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, colpisce mortalmente Sempronio.

A caratterizzare l’aberratio delicti, normativamente previsto all’art. 83 c.p., è, invece, la totale diversità tra l’evento avuto di mira e quello effettivamente prodottosi, non realizzandosi alcuna divergenza sul piano dei soggetti lesi dalla condotta posta in essere. Ad esempio Tizio voleva danneggiare un’auto ed invece, a causa di errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, ferisce un passante.

Il criterio discretivo tra le due ipotesi di aberratio deve ravvisarsi, secondo il costante insegnamento giurisprudenziale, in quello che fa leva sul bene-interesse giuridicamente tutelato dalla norma incriminatrice: segnatamente, allorquando vi è diversità tra il bene giuridico che l’agente voleva aggredire e quello effettivamente colpito a causa dell’errore inabilità, si applicherà l’art. 83 c.p.; viceversa, quando risulti esservi omogeneità tra i beni giuridici coinvolti, ricorrerà un’ipotesi di aberratio ictus di cui all’art. 82 c.p..

Entrambe le figure positivizzate dal codice possono presentarsi in forma monolesiva, qualora sia cagionata offesa solo alla persona diversa (82 co.1) o sia prodotto solo l’evento diverso (83 co.1), o plurilesiva, quando l’agente realizzi l’offesa tanto alla vittima designata quanto alla vittima attinta per errore (82 co.2), oppure realizza tanto l’evento voluto quanto quello diverso (83 co.2).

A tale distinzione corrisponderà, peraltro, un diverso trattamento sanzionatorio.

Per esplicito dettato normativo, nell’ipotesi di aberratio ictus monolesiva il colpevole risponderà “come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere”(art. 82 co.1 c.p.). Sul criterio di attribuzione della relativa responsabilità penale si tornerà diffusamente in prosieguo.

Il secondo comma dell’art. 82 c.p. regola invece la cd. aberratio ictus plurilesiva. Nel silenzio del legislatore (il quale si è limitato a prescrivere la pena stabilita per il reato più grave, aumentata sino alla metà), diverse sono le tesi registratesi nel dibattito dottrinale sulla struttura di tale fattispecie: figura unitaria di reato; ipotesi di concorso formale; istituto sui generis. La giurisprudenza maggioritaria tende a riconoscervi un istituto analogo al concorso formale di reati: in particolare, si ritiene sussista un concorso formale tra un reato doloso (nei confronti della persona designata) ed uno colposo (nei confronti di quella diversa).

Meno problematica è l’individuazione del trattamento sanzionatorio nelle ipotesi di aberratio delicti monolesiva e plurilesiva: nel primo caso il colpevole risponderà a titolo di colpa dell’evento non voluto, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo (comma 1); nel secondo caso, si applicheranno le regole sul concorso di reati (comma 2).

Occorre rilevare, peraltro, che oltre le fattispecie definite in sede normativa, la dottrina riconosce autonoma dignità concettuale alla cd. aberratio causae ricorrente quando l’error in executiviis incide sul processo causale, che si svolge in modo diverso da come l’agente aveva previsto, pur ugualmente realizzandosi l’evento voluto. È chiaro che siffatta ipotesi assume rilevanza pratica non già con riferimento ai reati a forma libera, essendo il disvalore penale incentrato esclusivamente sulla realizzazione dell’evento prescindendosi da un’indagine circa le modalità attuative, quanto piuttosto in relazione ai reati a forma vincolata, in cui il legislatore seleziona e tipizza le modalità di aggressione del bene protetto. Infatti, in questi ultimi, il realizzarsi dell’evento lesivo con modalità diverse da quelle espressamente considerate dalla norma incriminatrice può determinare l’irrilevanza penale della condotta ovvero la configurazione di un diverso tipo di reato.

Tanto qui premesso in ordine al reato aberrante, occorre incentrare l’attenzione su uno dei principali problemi interpretativi che l’art. 82 co.1 c.p. ha posto: sul piano soggettivo il fatto non voluto è imputabile a titolo di dolo?

Il problema nasce poiché la legge non specifica expressis verbis a quale titolo l’agente debba rispondere dell’offesa cagionata e non voluta, limitandosi ad affermare che “il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere”, lasciando presumere che l’applicazione della pena si giustifichi sulla base della condotta dolosa originaria, da cui è scaturito l’effetto aberrante.

Il dibattito dottrinale sorto intorno al quesito se l’art. 82 co.1 c.p. introduca o meno una deroga ai normali principi dell’imputazione dolosa, può essere ricomposto distinguendo tra coloro i quali riconoscono alla norma una funzione dichiarativa e quanti le attribuiscono una funzione costitutiva.

Anticipando i termini del discorso, si tratta di verificare se nel fuoco del dolo, inteso quale rappresentazione e volizione del fatto di reato, debba o meno ricondursi anche l’identità del soggetto passivo: in caso di risposta positiva, allora, l’addebito della responsabilità ex art. 82 co.1 c.p. avviene in deroga ai criteri generali di imputazione dolosa (funzione costitutiva), in quanto l’agente voleva attingere un soggetto e ne colpisce altro; diversamente, non vi sarebbe alcuna eccezione (funzione dichiarativa) in quanto all’agente verrebbe addebitata la responsabilità per quel fatto di reato che si rappresentava e voleva, anche se nei confronti di soggetto diverso.

Nello specifico, per il primo orientamento, l’affermazione di una funzione meramente dichiarativa fa perno sul principio di indifferenza della identità del soggetto passivo del reato: è irrilevante il fatto che un errore nell’esecuzione del reato abbia cagionato offesa a persona diversa da quella che l’agente intendeva effettivamente attingere. L’offesa in concreto realizzata è, quindi, normativamente equivalente a quella voluta dal soggetto: affinché vi sia il dolo è sufficiente, secondo tale tesi, che l’agente si rappresenti gli elementi del fatto rilevanti ai sensi della fattispecie incriminatrice considerata.

In definitiva, tale dottrina è dell’avviso che, se da un lato per aversi imputazione a titolo di dolo ai sensi dell’art. 43 c.p. è indispensabile che il fuoco del dolo investa tutti i requisiti del fatto accolti dal modello normativo, dall’altro deve escludersi che, tra siffatti elementi, possa rientrare l’identità personale della vittima. Più precisamente, si argomenta che alla norma penale non interessa chi sia il titolare del bene tutelato di cui si è verificata la lesione, se non quante volte sia la stessa norma incriminatrice a soffermarsi su specifici aspetti della persona offesa dal reato, quali possono essere le qualifiche della persona designata.

É agevole osservare come i sostenitori di tale tesi ripropongano le argomentazioni addotte a sostegno della figura del dolus generalis, ossia del dolo inteso come previsione e volizione “generica” di un evento. Si tratta di figura spesso utilizzata quale strumento di risoluzione di pregnanti questioni applicative come quelle poste nell’ ipotesi di cd. dolo colpito a mezza via dall’errore. É il caso di un soggetto che, nell’erronea convinzione di aver già cagionato la morte della vittima (in realtà soltanto svenuta), ne realizza la sepoltura al fine di occultarne il cadavere e conseguire l’impunità. In tali circostanze, la vittima decede a seguito dell’azione secondaria (la sepoltura) e non anche per effetto dell’azione primaria. Il problema è stabilire, similmente a quanto si è posto per l’ aberratio ictus monolesiva, a che titolo soggettivo debba essere attribuito all’agente l’omicidio realizzato con una condotta (la sepoltura) tenuta nell’erronea convinzione di avere già cagionato in precedenza la morte della vittima. Orientamento dottrinale e giurisprudenziale (oggi minoritario), aveva ricostruito l’intera vicenda criminosa in termini di omicidio doloso, sulla base della ricostruzione dell’elemento soggettivo in termini, appunto, di dolus generalis: “l’agente voleva la morte, l’ agente ha causato la morte”. Tale istituto comporta, attraverso una fictio iuris, una trasposizione dell’elemento soggettivo del reato: il dolo iniziale della condotta passa ed investe anche l’ulteriore condotta tenuta dall’agente, senza che sia assolutamente tenuto in conto che l’ulteriore attività del reo non è sorretta dall’elemento psicologico del dolo, in quanto determinata dall’erroneo convincimento di aver già causato l’evento.

A tale fictio iuris si assisterebbe anche nell’aberratio ictus: l’art. 82 c.p. attribuisce la responsabilità a titolo di dolo per il fatto non voluto mediante una traslazione normativa del dolo, che viene trasposto dal fatto originariamente rappresentato e voluto al fatto ulteriore, non voluto né rappresentato. È evidente come il rimprovero penale finisce per fondarsi sull’essersi il soggetto posto consapevolmente in una situazione di illiceità, potenzialmente aperta a sviluppi diversi e ulteriori che, realizzatisi, gli verranno attribuiti su base meramente oggettiva.

Quest’ultimo aspetto viene valorizzato da quell’orientamento oggi predominante che riconosce all’art. 82 co.1. c.p. funzione costitutiva, quindi derogatoria rispetto al normale criterio di imputazione dolosa.

Come sopra già accennato, la tesi sostenuta origina da una premessa di partenza diametralmente opposta: l’identità del soggetto passivo rientra tra quegli elementi sui quali le componenti del dolo, rappresentazione e volontà, devono riflettersi. Si afferma che il fatto è doloso (ed imputabile all’agente in quanto tale) quando risulti rappresentato e voluto il fatto storico, cioè l’accadimento realizzatosi hic et nunc e corrispondente ad una fattispecie normativa astratta; il reo deve rappresentarsi e volere esattamente quel fatto, in relazione a quel soggetto passivo, e non uno normativamente equivalente. Per tale motivo, si afferma, l’art. 82 c.p. introduce una deroga ai criteri di imputazione della responsabilità dolosa, in quanto punisce l’agente mediante una fictio iuris, trasferendo cioè l’elemento intenzionale su un evento che non rientra nel fuoco del dolo.

È chiaro allora come la suddetta norma introduca un’ipotesi mascherata di responsabilità oggettiva, in evidente contrasto con il principio di colpevolezza come interpretato dalle sentenze 364 e 1085/88 della Corte Costituzionale, imponendosi, dunque, la necessità di una lettura costituzionalmente orientata di tale norma.

Posto che la Consulta in dette sentenze ha affermato il principio secondo il quale ogni elemento che incide sul disvalore della fattispecie penale debba essere addebitato all’agente almeno a titolo di colpa, sul piano dell’ aberratio ictus monolesiva occorrerà accertare che l’errore-inabilità sia stato dovuto a colpa in senso tecnico (violazione regole cautelari) o, quantomeno, a colpa in termini di prevedibilità in concreto, da parte dell’agente, dell’evento cagionato a persona diversa.

Ciò sempre che sia accertato che la lesione al soggetto diverso non sia stata voluta dall’agente né intenzionalmente, né direttamente, né a titolo di dolo eventuale, poiché in caso contrario ci si porrebbe al di fuori dalla portata applicativa dell’art. 82 c.p., configurandosi un’ipotesi di reato doloso.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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