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Pubbl. Mer, 18 Gen 2017

Il procedimento di messa alla prova analizzato alla luce degli ultimi arresti della Cassazione a Sezioni Unite

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Giuseppe Ferlisi
AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno


La Sentenza n. 36272 della Cassazione chiarificatrice dell´istituto della m.a.p. e la sua portata decisiva verso un ripensamento del sistema sanzionatorio murario


L'istituto di messa alla prova - introdotto dalla L. 28 Aprile 2014 n. 67 - è stato di recente sottoposto al vaglio della Sezioni Unite, soprattutto per quanto riguarda due specifici profili: la possibilità di impugnare in Cassazione, ai sensi del 464 quater, comma 7, c.p.p., le ordinanze reiettive dell'istanza di messa alla prova e l'individuazione dei criteri di computo del limite edittale per l'accesso all'istituto.
La decisione di cui in oggetto è stata resa nell'udienza del 31 marzo 2016 ed è arrivata in seguito ad un contrasto intercorso fra arresti contraddittori delle sezioni semplici.

Prima di addentrarsi nell'analisi della sentenza in commento, è utile una ricostruzione generale sull' istituto de quo.
La messa alla prova trae spunto dal già previsto omologo nel rito minorile fin dal 1988 e disciplinato dal D.P.R. n.448.
Dal 2014 lo stesso è stato introdotto anche per gli adulti nel rito ordinario, prevedendo l'estinzione del reato in conseguenza dell'esito positivo della prova - art. 168 ter comma 2 - configurando al tempo stesso una forma alternativa di definizione del processo.
Tale procedimento, di ispirazione anglosassone, costituisce una probation giudiziale nella fase istruttoria, nel quale la messa alla prova precede la pronuncia di una sentenza di condanna e differenziandosi dall'omologo istituto per i minori per un concreto percorso di maturazione e rivisitazione critica del proprio operato, limitando la permanenza del reo nel circuito penale.
Viene offerto, infatti, un percorso di reinserimento più rapido e dinamico agli imputati di reati di minore allarme sociale per i quali sia possibile formulare un giudizio prognostico favorevole circa l'astensione dalla commissione di futuri illeciti, perseguendo nel contempo una funzione deflattiva dei procedimenti penale nel caso in cui il percorso di probation si concluda con esito positivo.

L'ambito di applicazione è determinato dall'art. 168 bis c.p.p. mediante l'individuazione di un duplice criterio di selezione dei reati: nominativo e qualitativo, che ricomprendono i delitti espressamente elencati al secondo comma dell'art. 550 c.p.p. per i casi di citazione diretta dinnanzi al tribunale monocratico, ed i reati puniti con la sola pena pecuniaria o detentiva non superiore nel massimo a 4 anni.
La domanda può essere proposta nel corso delle indagini preleminari, all'udienza preliminare fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli art. 421 e 422 e - nei casi di giudizio direttissimo e di procedimento di citazione diretta a giudizio - fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
Tale domanda deve essere corredata da un programma di trattamento, elaborato di intesa con l'ufficio di esecuzione penale esterna, che contempli le modalità del coinvolgimento dell'imputato e del suo nucleo familiare nel processo di reinserimento sociale, l'osservanza di prescrizioni comportamentali, l'assunzione di impegni specifici diretti ad elidere o attenuare le conseguenze del reato, nonchè la prestazione di lavoro di pubblica utilità o di attività di volontariato di rilevo sociale per un periodo di almeno dieci giorni (art. 464 bis, comma 4 c.p.p.).
Vengono valorizzate, inoltre, anche le finalità riparatorie e di tutela della vittima poichè si prevede che l'imputato, ove ne abbia la possibilità, non soltanto risarcisca il danno cagionato, ma intraprenda altresì condotte volte a promuovere la mediazione con la persona offesa (art. 168 bis, comma 2, c.p.p.).
Sia il pubblico ministero che l'imputato possono ricorrere avverso l'ordinanza sulla richiesta, ma non puntualizza se si legittimi un ricorso autonomo avverso lo stesso.
Sicuramente la norma consente l'impugnabilità diretta ed autonoma del provvedimento che accoglie l'istanza dell'imputato, sospendendo il procedimento con m.a.p.
Il dubbio - risolto dalla sentenza in commento dopo due orientamenti contrapposti - atteneva al caso in cui la decisione sia di rigetto.

I rimedi avverso il denegato probation

I Giudici di piazza Cavour hanno innanzitutto riconosciuto l'assoluta ambiguità del testo normativo, propendendo per l'impugnabilità dell'ordinanza predibattimentale di rigetto solo unitamente alla sentenza di primo grado, secondo la regola generale prevista dall'art. 586 c.p.p.. Coordinando la fase dibattimentale con quelle precedenti, la Corte ha così delineato un regime unitario di rimedi, tale per cui la domanda può essere presentata e reiterata dall'indagato fino al dibattimento, per poi impugnarla il rigetto soltando con la sentenza. In tale modo l'indagato/imputato è tutelato nel merito, garantendo che il giudice di impugnazione potrà operare una piena valutazione dell'istanza precedentemente rigettata.

Il limite edittale

L'individuazione del minimo edittale entro cui è ammissibile l'istanza è contenuta all'artocolo 168 -bis c.p. che subordina la possibilità per l'imputato di chiedere la m.a.p. al ricorrere di precisi requisiti quantitativi o qualitativi.
Tali limiti stabiliscono la cornice dell'immasibilità nei reati con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni.
I dubbi che sono sorti e che hanno portato alla sentenza in commento erano legato al significato da attribuire alla nozione di "pena edittale", ossia se l'individuazione della pena debba avvenire tenendo conto della concreta rilevanza che nel caso di specie assumono le circostanze pseciale e quelle ad effetto speciale, o se tali circostanze siano ininfluenti ai fini del computo.
E' palese come propendere per l'una o l'altra interpretazione non sia certo una questione di mero esercizio giuridico, bensì incide realmente e fattivamente sulla maggiore o minore applicazione della probazione, allargando o restringendo le maglie della deflattività dell'istituto.
La sentenza in commento a Sezioni Unite ha propeso per la tesi maggioritaria, ossia quella per cui la mancata indicazione del riferimento alle circostanze aggravanti lungi da essere una lacuna, bensì una chiara e precisa scelta del legislatore di selezionare i reati solo in base ai criteri quantitativi e qualitativi.
Le tesi in gioco fino alla pronuncia de quo, erano duplici : una riteneva le aggravanti autonomo ed a effetto speciale considerabili per la verifica del superamento della soglia edittale; l'altro - quello poi riconosciuto dagli Ermellini - ha inteso l'interpretazione letterale della norma, basando ogni valutazione solo sulla pena base.
Infatti per la Sezioni Unite, il primo orientamento si scontrava con la chiarezza dell'art. 168 bis c.p., che richiama espressamento solo il secondo comma dell'art. 550 c.p.p., senza evocarne il primo.
D'altronde se il legislatore avesse voluto realizza una piena coincidenza tra gli ambiti di applicazione delle due norme in esame, ben avrebbe potuto esplicitarlo operando un rinvio all'intero art. 550 c.p.p; ciò testimonia una scelta consapevole e voluta che esclude la valenza delle aggravanti nel calcolo del limite edittale.
Non viene, inoltre, condivisa nemmeno la tesi che vuole coincidente i reati di competenza monocratica con quelli aperti all'istituto della m.a.p.Difatti, tra le ipotesi per cui è possibile richiedere l'applicazione della probation, troviamo il furto aggravato. 

Oltre la concezione tolemaica della carcerazione muraria

Sulla scorta del ragionamento giuridico della Suprema Corte di Cassazione che ha escluso dal computo della pena edittale di applicazione le aggravanti, possiamo senza dubbio affermare una precisa volontà di tenere larghe le maglie dell'istituto in commento.
Questo anche per far si che lo stesso non si sovrapponesse con quello della sospensione condizionale della pena, preferendo l'imputato sicuramente questa alternativa rispetto ad un periodo di impegno e prova quale quello della m.a.p. per tutti i casi di reati con condanne contenute nel minimo.
Il nuovo istituto - imperniato sulla rinuncia statale alla potestà punitiva - persegue in tal modo una spiccata funzione social-preventiva sin da una fase anticipata del procedimento, capovolgendo lo stesso dalla sua ordinaria sequenza che va dalla cognizione alla esecuzione.
Con la sospensione del procedimento, infatti, si apre una fase incidentale in cui viene svolto un vero e proprio esperimento trattamentale, concesso sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati e tale da determinare, in caso di esito positivo del percorso intrapreso, il proscioglimento dell'impoutato alla luce della condotta tenuta e della dimostrata capacità di adempiere agli impegni assunti con la richiesta di messa alla prova.
La Corte, nelle motivazioni , arriva ad evidenziare come la messa alla prova lungi dall'avere un solo ruolo deflattivo, connotandosi anche per una capacità di prevenzione speciale, ribaltando i tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio, oggi imperniati sulla detenzione inframuraria.

I rapporti con la Sentenza della Corte Costituzionale n. 240/2015

La Consulta, nella citata Sentenza, previlegia la natura processuale dell'istituto, ponendolo come "nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova". Ci si accorge allora di una tensione fra la sentenza in commento e quella della Consulta, propendendo la prima per una natura sostanziale dell'istituto ed enfatizzando la sua natura di prevenzione sociale tesa alla risocializzazione del reo e relegando ad aspetto collaterale le esigenze di economia processuale pure sottese all'introduzione della probation.
Tale lettura però riserva comunque alcuni dubbi ancorchè legittimi: se si muove dal presupposto che la messa alla prova incida sulla risposta punitiva riservata all'illecito per consentire la rieducazione del reo anticipatamente l'emissione di una sentenza, desta perplessità la circostanza che un imputato si trovi a scontare una pena comminata in assenza di pieno accertamento della sua colpevolezza.
Di fatto, a scapito della presunzione  di innocenza che dovrebbe assicurare l'intera durata del procedimento.
Probabilmente, proprio per evitare questa contraddizione in termini, la Consulta ha previlegiato una lettura premiale della m.a.p., quasi ad anticipare una lettura costituzionalmente orientata ponendo in campo una versione in base al quale l'imputato accetti - con una sorta di scambio - una attenuazione delle proprie garanzie difensive.

Finalità deflattive della m.a.p.

Quando si parla di deflattività dell'istituto in commento, ci si riferisce alla riduzione non solo del carico processuale, ma anche di quello penitenziario. Tale finalità risulta palmare se si considera il contesto nel quale tale istituto ha visto la luce: il pacchetto legislativo in risposta alla Sentenza Cedu "Torreggiani" del 2013 con cui si fotografò una situazione drammatica del contesto carcerario italiano.
Tale stimolo della giurisprudenza europea ha portato oggi il nostro sistema ad un progressivo ripensamento della concezione del sistema penale; ad esempio in tale chiave si inserisce il decreto depenalizzazione per quei reati ritenuti "bagatellari" ritenuti privi del principio di offensività. Le Sezioni Unite - con tale Sentenza - hanno mostrato piena consapevolezza e sensibilità, ponendo le basi per un futuro rovesciamento del tradizionale sistema di intervento sanzionatorio, con l'obiettivo di riportare nell'idea rieducativa un complesso e integrato sistema di aiuto sociale, sul presupposto che nella lotta al crimine la politica sociale è il migliore strumento di lotta e il diritto penale l'extrema ratio.