ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Lun, 9 Gen 2017

I termini d´uso nella revocatoria fallimentare

Riccardo Bertini


La Prima Sezione Civile della Cassazione, con la sentenza n. 25162 del 7-12-2016, si è pronunciata per la prima volta sulla nozione di termini d’uso prevista dall’articolo 67, comma 3, lettera a) l. fall., con una pronuncia i cui effetti saranno rilevanti per le imprese.


Sommario: 1) Premessa; 2) L'azione revocatoria fallimentare; 3) Segue, atti non soggetti a revocatoria fallimentare; 4) Cass., I Sez. civ., sent. n. 25162 del 7/12/2016; 5) Conclusioni.

Sommario: 1) Premessa; 2) L'azione revocatoria fallimentare; 3) Segue, atti non soggetti a revocatoria fallimentare; 4) Cass., I Sez. civ., sent. n. 25162 del 7/12/2016; 5) Conclusioni.


1) Premessa

L'azione revocatoria fallimentare, così denominata per distinguerla da quella ordinaria ex art. 2901 ss c.c., è un rimedio a tutela della procedura concorsuale per evitare che il debitore fallito sottragga, nel periodo antecedente la sentenza dichiarativa di fallimento, beni che andranno a comporre la massa fallimentare.  Costituisce uno dei rimedi più efficaci e più utilizzato nella prassi e mira, attraverso la riacquisizione dei beni nel patrimonio del fallito e la liberazione dai debiti che lo stesso ha assunto, a tutelare l’interesse di tutti i creditori concorsuali (1). Il legislatore ha previsto, quali correttivi a presidio di interessi meritevoli di tutela, casi in cui l'azione non può essere esperita; le esenzioni sono casi eccezionali e quindi risulta di fondamentale importanza tracciarne i confini dell’ambito operativo per evitare che si ampli eccessivamente lo spazio all'interno del quale l'azione in parola non può essere proposta. Con la sentenza n. 25162 del 7/12/2016, la Corte di Cassazione si pronuncia per la prima volta sulla nozione di “termini d’uso" così come prevista dall'art. 67 comma 3 lett. a) l. fall.

2) L'azione revocatoria fallimentare

L'azione revocatoria fallimentare è un istituto speciale che si affianca ai rimedi ordinari previsti dall'ordinamento a tutela della par condicio creditorum (le misure cautelari, l'azione revocatoria ordinaria, la domanda di condanna esecutiva). Presupposto dell'azione in parola è la conoscenza da parte del creditore, soddisfatto dal debitore fallito, dello stato di insolvenza di quest'ultimo e tale conoscenza è presunta dal legislatore tutte le volte in cui gli atti in pregiudizio siano stati compiuti in periodi cd. "sospetti". Quest'ultimi sono diversamente articolati a seconda che ledano in maniera più o meno grave la par condicio. Sono così previsti: a) un periodo di due anni per l’esercizio della revocatoria degli atti a titolo gratuito e per il pagamento di crediti non scaduti (artt. 64 e 65 l. fall.) (2); b) un periodo di un anno per la revocatoria dei c.d. atti anormali (art. 67 comma 1 l. fall.); c) un periodo di sei mesi per la revocatoria dei c.d. atti normali (art. 67 comma 2 l. fall.). Il periodo inizia a decorrere dal deposito in cancelleria della sentenza che dichiara il fallimento e affinché l'azione abbia esito positivo il curatore potrà pertanto dimostrare unicamente che l’atto è stato compiuto durante uno dei suddetti periodi. Diversamente articolato è anche l'onere probatorio del curatore, poiché il legislatore ha introdotto una serie di elementi presuntivi ex lege che agevolano lo stesso nella prova dell’integrazione della fattispecie costitutiva della reintegratoria fallimentare. In alcuni casi vi è una presunzione iuris et de iure (per cui non è ammessa prova contraria) della conoscenza dello stato di insolvenza (artt. 64- 65 l. fall.) mentre in altri la conoscenza dello stato di insolvenza è presunto tramite presunzione juris tantum (art. 67 comma 1 l. fall.) e sarà pertanto la controparte a dover dimostrare di non essere a conoscenza dello stato di insolvenza. Vi sono infine casi in cui l'onere della prova è del tutto assoggettato alla normale ripartizione del carico probatorio e sarà il curatore a dover dimostrare la conoscenza dello stato di insolvenza della controparte, per lo più attraverso l’utilizzo di presunzioni semplici (art. 67 comma 2 l. fall.). Dal punto di vista processuale, la legittimazione ad agire spetta al curatore, il quale deve tuttavia essere autorizzato ad agire dal giudice delegato; qualora l'autorizzazione manchi, la mancanza dell’autorizzazione potrà essere sanata con effetto ex tunc (ai sensi dell'art. 182 comma 2 c.p.c.) nelle more del procedimento e comunque entro il termine a tal uopo fissato dal tribunale. Il curatore può inoltre avvalersi, per ragioni di speditezza e rapidità, del rito sommario di cognizione (artt. 702 bis ss c.p.c.), dato che la competenza in materia di revocatoria fallimentare è attribuita al tribunale in composizione monocratica ma il giudice delegato non può essere il giudice del merito della revocatoria fallimentare e di conseguenza la competenza per l'azione in parola è del tribunale fallimentare. L’azione si prescrive nel termine di 5 anni dal compimento dell’atto che ne è oggetto (art. 69 bis comma 1 l. fall.), ed è soggetta ad un termine decadenziale di 3 anni dal deposito della sentenza dichiarativa di fallimento. Infine, il vittorioso esperimento della revocatoria fallimentare comporta che chi è tenuto alla restituzione di quanto ricevuto dal fallito non è postergato agli altri creditori ma concorre con gli altri su un piano di parità e può pertanto a sua volta insinuarsi nel passivo fallimentare, senza che debba chiedere la condanna del terzo alla restituzione (a differenza della revocatoria ordinaria, poiché in questo caso interviene il giudice delegato attraverso un decreto di acquisizione).

3) Segue, atti non soggetti a revocatoria fallimentare

L’art. 67 comma 3 l. fall., così come modificato dalla novella del 2005 (d.l. 14 marzo 2005 n. 35 convertito nella l. 14 maggio 2005 n. 80), prevede una serie di atti compiuti dal debitore fallito contro i quali non è esperibile l'azione revocatoria fallimentare, poiché la stessa contrasterebbe con interessi di particolare rilievo socio economico. Pertanto, il legislatore afferma che non sono soggetti a revocatoria: a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso, per evitare che l'azione revocatoria diventi strumento stesso dell'insolvenza dal momento che la paura di incorrere in un atto revocabile potrebbe spingere gli altri imprenditori ad interrompere ogni rapporto commerciale quando quest’ultimo entra in stato di crisi, facendolo in tal modo definitivamente crollare in insolvenza; b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca, restando quindi soggetti alla normale disciplina revocatoria gli altri contratti bancari; c) le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell'attività d'impresa dell'acquirente, purché alla data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente esercitata ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio; d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria, purché siano attestati la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità da un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti; e) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata, nonché dell'accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis; f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito; g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all'accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo, in modo che sia garantita la continuazione aziendale incentivando i terzi a contrarre con l’impresa in crisi. Infine, non sono soggetti a revocatoria fallimentare il pagamento della cambiale, se il possessore di questa doveva accettarlo per non perdere l’azione di regresso (art. 68 l. fall.) e gli atti compiuti tra i coniugi nel tempo in cui il fallito esercitava un’impresa commerciale e quelli a titolo gratuito (4), se il coniuge prova che ignorava lo stato di insolvenza del coniuge fallito (art. 69 l. fall.). 

4) Cass., I Sez. civ., sent. n. 25162 del 7/12/2016

Il curatore della procedura fallimentare chiedeva la revoca di alcuni pagamenti effettuati dalla società, poi fallita, ad una terza società creditrice. La società revocata si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda proposta dal curatore. In primo grado, il Tribunale Fallimentare rigettava la domanda ritenendo provata l'esenzione di cui all'art. 67 comma 3 lett. a) l. fall. ma la Corte di appello, al contrario, revocava i pagamenti. Infatti quest'ultimo Giudice riferiva i termini d'uso alle "abitudini del singolo imprenditore e non in base alle consuetudini generali relative a determinate tipologie contrattuali", ritenendo parimenti provato che i pagamenti effettuati alla terza creditrice erano stati effettuati dalla società fallita mediante contanti e non a mezzo bonifico bancario (come previsto dal contratto di franchising concluso tra le parti). Ricorre in Cassazione la terza revocata, la quale affida il ricorso a tre motivi. Con il primo, parte ricorrente denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione dell'art. 67 comma 3 lett. a) l. fall. perché rientrerebbero nella nozione di termini d'uso i termini di pagamento correnti tra le parti al momento dell'atto solutorio "che si collochino nell'alveo delle normali ed ordinarie attività dell'impresa operanti in un determinato settore". Con il secondo motivo, si duole il vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. mentre con il terzo si sostiene la violazione e falsa applicazione dell'art. 92 c.p.c. La Suprema Corte ritiene infondato il primo motivo ed inammissibili gli altri due, rigettando il ricorso e compensando le spese. La sentenza si rivela tuttavia interessante, ai nostri fini, perché viene affermato per la prima volta che cosa debba intendersi con “termini d’uso”. La Cassazione infatti afferma che la questione verte sull'esegesi della nozione che, per la Corte d'appello, andava relazionata ai pagamenti e alle abitudini del singolo creditore. Nonostante la dizione normativa non sia di per sé chiara, la ratio della norma è intesa a favorire la conservazione dell'impresa. La Corte ritiene dunque che, fra le varie opzioni ermeneutiche proposte sia in dottrina che in giurisprudenza, la più appagante sia quella che privilegia il rapporto diretto tra le parti dando rilievo al mutamento dei termini; d'altronde riconoscere valenza dirimente alla prassi del settore economico, sostiene la Cassazione, significherebbe equiparare la fattispecie in questione a quella di cui all'art. 67 comma 2 l. fall. Pertanto la Suprema Corte giunge ad affermare il seguente principio di diritto: "il riferimento dell'art. 67 comma 3 lett. a) l. fall. ai termini d'uso, ai fini dell'esenzione della revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa, attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non gia alla prassi del settore economico in questione”.

5) Conclusioni

Possiamo affermare quindi che viene accolto un criterio prettamente soggettivo che valorizza il rapporto tra le parti a scapito di quel criterio che privilegia la prassi seguita all’interno di un particolare settore economico. In sostanza rileva come le parti hanno inteso regolare i loro rapporti commerciali affinché una singola operazione possa definirsi o meno “in uso”. I termini debbono inoltre considerarsi in senso atecnico, riconducendo la locuzione alle modalità di adempimento e non al tempo in cui le operazioni commerciali sono state effettuati; per tale ragione saranno irrevocabili solamente quei pagamenti che sono stati compiuti con mezzi usuali. Del resto, la pronuncia della Cassazione si inserisce all’interno di un trend inaugurato dalla giurisprudenza di merito che valorizza il negozio giuridico sottostante concluso tra le parti. In questo senso, si era già espresso il Tribunale di Milano che aveva dichiarato inefficaci una serie di pagamenti ricevuti dalla società convenuta perché eseguiti con significativo ritardo “rispetto a quanto dalle parti concordato nel momento genetico del negozio” (5). In senso analogo il Tribunale di Salerno, il quale aveva affermato che debbono ritenersi in uso quei pagamenti effettuati “con lo stesso ritardo precedentemente tollerato dall’impresa” (6).  In conclusione la vexata quaestio dei termini d’uso, nonostante non possa dirsi definitivamente risolta, trova un punto fermo nella sentenza in commento e da qui occorre partire per una sempre maggiore puntuale definizione sia della nozione che dell’ambito applicativo dell’esenzione.

Bibliografia
1) Cass. civ., Sez. I, 11/08/2016, n. 17044;
2) Cass. civ. Sez. Unite, 18/03/2010, N. 6538
4) Cass. civ. Sez I, 02/04/2012, n. 5260;
5) Trib. Milano, 7 giugno 2010;
6) Trib. Salerno, III sez. 18 giugno 2013.