Pubbl. Mer, 26 Ott 2016
La disciplina penale delle sostanze stupefacenti con riguardo al fatto di non lieve entità
Modifica paginaIl Diritto penale deve affrontare nella maniera più efficace, con l´ausilio della dottrina più attenta e della giurisprudenza, attraverso anche analisi di natura criminologica e medico-legale, la problematica del traffico di stupefacenti, anticipandone i possibili ed eventuali risvolti negativi sulla società moderna.
Sommario: 1. Cenni introduttivi: un lungo percorso giurisprudenziale; 2. Analisi criminologica e tassonomie; 3. Sostanze stupefacenti e il fenomeno della criminalità.
1. Cenni introduttivi: un lungo percorso giurisprudenziale
La disposizione dell’art. 73, comma cinque, presente nel Testo Unico Stupefacenti è stata soggetta a continue modifiche legislative e mutevoli interpretazioni giurisprudenziali che hanno reso non sempre agevole il compito dell’interprete, nel quale contesto la locuzione “fatto di non lieve entità” è stata oggetto di una importantissima sentenza della Corte Costituzionale relativa al bilanciamento delle circostanze.
A seguito, infatti, della riforma attuatasi con il d.l. 11 Aprile 1974, n. 99, l’art. 69 c.p. non prevede più alcun limite alla possibilità di bilanciare tra loro le circostanze eterogenee concorrenti, comportando così che nell’area applicativa del giudizio di bilanciamento tra circostanze siano attratte anche le circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella prevista per l’ipotesi base o quelle autonome.
E’ intervenuta poi la legge 5 Dicembre 2005, n. 251, meglio nota come “ex Cirielli”, la quale si inserisce in un contesto di generale inasprimento del trattamento riservato al c.d. “recidivo reiterato” di cui all’art. 99, comma quattro, c.p.: non soltanto vengono alzati gli aumenti di pena per la recidiva reiterata ma, su questa ipotesi, il legislatore sembra aver costruito una trama di relazioni con altri istituti correlati del sistema penale.
Si pensi, ad esempio, alla disciplina delle c.d. “attenuanti generiche”, del reato continuato, della prescrizione. Si può affermare che la riforma del 2005 abbia introdotto una specie di “secondo binario” relativamente al trattamento penale del recidivo reiterato, qualificandolo come un vero e proprio “nemico della società”.
Ciò che preme sottolineare è che nel caso della recidiva reiterata la limitazione concerne non tanto una tipologia di reato ma una tipologia di autore, introducendo una vera e propria limitazione soggettiva, radicalmente incompatibile con un diritto penale “del fatto”. In tal senso, soffermandoci sul cammino estremamente tortuoso dell’art. 73 T.U. Stup., rileva la sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2012 che ha tratto origine da una ordinanza del tribunale di Torino (pubblicata su G.U. 18/04/2012 n. 16) con cui venne sollevata una questione di illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, c.p., nella parte in cui avrebbe impedito alle attenuanti di cui all’art. 73, quinto comma, T.U. Stup., di essere ritenuta prevalente anche in caso di recidiva reiterata.
Secondo la Corte, qualora il giudice ritenga che non suscitano le condizioni di maggiore pericolosità e rimproverabilità del reo, questo non soltanto inibisce l’aumento di pena previsto dall’art. 99, quarto comma, c.p. ma neutralizza, di conseguenza, anche gli effetti sul giudizio di bilanciamento tra circostanze, e d’altra parte non sarebbe lecito ritenere che i c.d. “effetti minori” della recidiva reiterata operino a prescindere dall’aumento di pena principale, ciò comportando il risultato, tanto assurdo quanto paradossale, di una circostanza neutra agli effetti della determinazione di pena, nell’ipotesi di reato non ulteriormente circostanziato ma, in concreto, aggravante nell’ipotesi di un reato circostanziato “in mitius”. In base a quanto detto, il Tribunale di Torino ha ritenuto che l’interpretazione della recidiva reiterata, come facoltativa nell’an, non possa valere ad eliminare l’illegittimità costituzionale dell’art. 69 quarto comma del “codice Rocco” in quanto “il riconoscere o escludere la recidiva reiterata facoltativa è operazione radicalmente diversa dal bilanciare quella recidiva con concorrenti circostanze attenuanti”. Osservando attentamente l’art. 73 T.U. Stup. si può avere conferma della fondatezza assolta delle argomentazioni qui esposte, oltre al fatto che, mentre l’ipotesi “base” di cui al primo comma prevede, sulla base della riforma avvenuta nel 2006, la pena della reclusione da sei a venti anni, l’attenuante di cui al comma cinque, sempre in seguito alla predetta riforma, “ridisegna” i limiti edittali con la reclusione da uno a sei anni. E’ chiaro che si tratta di un divario sanzionatorio evidente che comporterebbe importanti problemi in caso di recidiva reiterata posto che, qualora fosse impedito al giudice di considerare prevalente l’attenuate di cui al comma cinque, il piccolo spacciatore finirebbe per essere equiparato al grande trafficante , e quindi dovendosi applicare le pene molto più severe di cui al comma primo, in palese violazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. Oltre al conflitto che si genererebbe sul piano del principio di offensività, verrebbe frustrata la funzione rieducativa della pena in quanto il recidivo reiterato autore di un fatto “di lieve entità” sentirebbe come ingiusta una pena evidentemente sproporzionata rispetto alla lesività, in concreto, del stesso.
La Corte Costituzionale ha dichiarato, com’è noto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma quattro, c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005 n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73 comma quinto, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 sulla recidiva di cui all’art. 99, comma quattro, del codice penale. Si tratta comunque di una illegittimità parziale che, naturalmente, non incide sull’opzione legislativa del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti in caso di recidiva reiterata.
La questione dell’attenuante della “lieve entità” è tornata ad avere rilievo a seguito delle numerose modifiche legislative che hanno interessato la disposizione e della stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014. La formulazione originaria dell’art. 73, comma cinque, T.U. Stup. ripercorreva la distinzione tra le c.d. “droghe pesanti” di cui alle Tabelle I e III, cui era associato un trattamento sanzionatorio più elevato con reclusione da uno a sei anni e multa da 2.582 a 25.882 euro, e le c.d. “droghe leggere” di cui alle Tabelle II e IV, caratterizzate da una sanzione più mite, quale quella della reclusione da sei mesi a quattro anni e una multa da 1.032 a 10.329 euro.
In seguito, la legge 21 Febbraio 2006 n. 49, meglio nota come legge c.d. “Fini-Giovanardi”, ha abolito la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, sottoponendo al medesimo trattamento sanzionatorio tutte le condotte antecedentemente diversificate a seconda della tabella di collocazione e unificando, per quanto riguarda il comma quinto dell’art. 73, le sanzioni previste. Stabilendo che “quando, per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e la quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da 3000 euro a 26000 euro”, il legislatore ha deciso di unificare “quoad poenam" condotte assai diverse, in particolare sotto il profilo della astratta lesività.
Infatti già i primi commenti alla riforma propendevano per la tesi della incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. Va segnalato che la legge del 2006 n. 49 aveva introdotto un comma cinque “bis”, il quale prevedeva che, nel caso di tossicodipendente o di assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope che avesse commesso un fatto di cui all’art. 73, comma cinque T.U. Stup., il giudice potesse applicare, ove non fosse stata concepibile la sospensione condizionale della pena, i lavori di pubblica utilità di durata corrispondente alla pena irrogata. E’ intervenuto successivamente il d.l. 1 Luglio 2013, n. 78, con cui si è proceduto a introdurre nell’art. 73 un comma cinque tre per il quale il beneficio dell’ammissione ai lavori di pubblica utilità può essere concesso anche nel caso di un reato commesso diversamente da quello o quelli di cui all’art. 73 comma cinque T.U. Stup., se commesso per una sola volta da soggetti tossicodipendenti o assuntori abituali di sostanze stupefacenti o psicotrope ed in relazione alla propria condizione, se qualora la pena in concreto da infliggere non superi un anno di detenzione, fatti salvi i reati di cui all’art. 407 comma due lett. a) c.p.p. ed i reati contro la persona.
La materia in esame è stata poi oggetto di nuova revisione con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 il cui art. 2 ha modificato, o meglio riscritto, l’art. 73, comma cinque, T.U. Stup. sancendo che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da un anno a cinque anni e della multa da euro 300 a euro 26000”. E con questa “novella legislativa” si è introdotta, e su questo dottrina e giurisprudenza sono concordi, una figura autonoma di reato.
La Suprema Corte, nelle sue prime pronunce sulla questione, afferma come l’art. 73 comma cinque, T.U. Stup. debba essere considerato non già come una circostanza attenuante rispetto alle ipotesi base di cui all’art. 73 comma uno, T.U. ma come autonoma figura di reato, in rapporto di autonomia con le altre figure previste dall’art. 73 T.U. Stup.
Inoltre lo stesso Parlamento è intervenuto, in sede di conversione, con alcuni accorgimenti che muovono verso la direzione di concepire l’art. 73 comma cinque T.U. Stup. come figura autonoma di reato, e ciò ha inciso anche livello processuale. Mi riferisco, infatti, all’art. 380 c.p.p., in tema di arresto obbligatorio di flagranza, prevedendo che restie escluso non più al caso dove ricorra la circostanza previsto dal comma cinque, ma l’ipotesi di delitti di cui al comma cinque del medesimo articolo. Analogamente si è intervenuti sulle misure cautelari per i minorenni concependo le ipotesi lievi come delitti di cui all’art. 73 comma cinque del testo unico in materia di stupefacenti. A questo si lega l’intenzione del legislatore di ridurre, con il d.l. n. 146/2013, il sovraffollamento carcerario, soprattutto in seguito alla sentenza “Torreggiani” della Corte EDU e del resto la crescita di durata delle pene detentive scontate in carcere è stata in larga misura l’effetto delle riforme attuate con la legge n. 251/2005 e dell’introduzione, nell’art. 69 del codice penale, del divieto di sub-valenza della recidiva reiterata concorrente con circostanze di segno opposto, inducendo la Corte Costituzionale, data la situazione lesiva del principio di proporzionalità che si viene così a creare, a dichiarare incostituzionale la disciplina della comparazione con riguardo all’ipotesi del concorso tra la recidiva reiterata e l’attenuante di cui all’art. 73, comma cinque, T.U. Stup. Se, infatti, dunque, l’obiettivo del legislatore è quello di una ulteriore attenuazione di meccanismi sanzionatori connessi agli episodi di piccolo traffico avente ad oggetto il commercio di sostanze stupefacenti, risulta chiaro come non fosse possibile altra soluzione che quella di sottrarre l’art. 73 comma cinque T.U. Stup. alla comparazione con qualsiasi circostanza attenuante, impedendo così che, in virtù di un giudizio di equivalenza o sub-valenza della circostanza, si imponga l’applicazione di una pena minima corrispondente al massimo previsto per la condotta “lieve”. Questi elementi orientano chiaramente verso una direzione univoca, verso la soluzione dell’autonomia dell’art. 73 comma quinto T.U. Stup. rispetto alle ipotesi previste nei commi precedenti e ciò comporta, in primis, che si superano i limiti che la legge “Ex Cirielli” aveva introdotto con riguardo all’esercizio dei potere discrezionale del giudice in caso di recidiva reiterata e che, in ogni caso, avevano già subito un “vulnus” con la sentenza della Corte Costituzionale, n. 251/2012; in senso luogo, rilevano importanti conseguenze per quanto concerne il termine della prescrizione: questa dovrà essere calcolata in modo assolutamente autonomo sui limiti edittali di cui all’art. 73 comma cinque del T.U. Stup. e si dovrà quindi fare riferimento alla disciplina dell’art. 157 c.p.; infine si avrà una incidenza sul piano processuale, all’art. 303 c.p.p., in quanto i termini di durata massima della custodia cautelare dovranno essere calcolati con riferimento ai limiti edittali di pena stabiliti per il reato autonomo.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 32/2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli arti. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006 n. 49, per violazione dell’art. 77, comma due, Cost. il quale regola la procedura di conversione dei decreti legge in legge, e si potrebbe addurre come causa il mancato rispetto del nesso di omogeneità e funzionalizzazione tra le disposizioni introdotte con la legge di conversione e il d.l. rispetto alle materie trattate in quest’ultimo.
Se si osservano gli effetti, appare evidente che riacquista efficacia la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere così come prevista dalla versione del 1990 del T.U., considerando la disciplina incostituzionale del 2006 tamquam non esset. Non vi è alcun dubbio che, con riguardo specificatamente al rapporto tra la sentenza della Corte Costituzionale e la fattispecie di cui all’art. 73, comma quinto, del T.U. Stup., anche nel caso del suddetto articolo il testo applicabile dovrebbe essere quello ante riforma 2006, e lo stesso discorso dicasi per le ipotesi previste dal comma primo dello stesso art. 73 T.U. Stup. Tuttavia la materia si complica per quanto concerne il regime della “lieve entità” in virtù del fatto che, poco prima della pronuncia della sentenza, era entrato in vigore il d.l. n. 146/2013 che aveva modificato la previsione di cui al comma quinto. Dato che la deflatoria di incostituzionalità ha travolto anche l’ipotesi di “lieve entità”, così come formulata seguito della riforma del 2006, non può che concludersi che l’intervento demolitori della Consulta si sia sostanzialmente concretizzato nell’annullamento di una norma ormai abrogata. Ciò premesso va comunque detto che la scelta della Corte Costituzionale è, del resto, perfettamente coerente con le ragioni che hanno portato alla deflatoria di incostituzionalità: ad essere oggetto di censura non era l’equiparazione tra droghe “leggere” e “pesanti” ma, appunto, la violazione del necessario nesso di omogeneità e funzionalità tra le varie disposizioni contenute nel decreto legge censurato. Dunque un vizio di forma, non già di sostanza che non incide sul fatto che, anche a seguito del d.l. n. 146/2013, permanga, nella fattispecie dell’art. 73, comma quinto, del T.U. Stup. l’equiparazione tra le due tipologie di sostanze stupefacenti. L’articolo in questione, nel menzionare i “fatti previsti dal presente articolo”, intende proprio riferisci all’art. 73 caducato dalla pronuncia della Consulta e ciò è definito come un rinvio “formale-dinamico”, non “materiale-statico”, in quanto esso si presta a fungere da elemento di raccordo con qualsiasi contenuto venga ad assumere l’art. 73.
In ultima analisi bisogna considerare un ultimo e molto significativo intervento normativo, il d.l. 20 marzo 2014, n. 36, il quale è stato adottato per far fronte alle criticità derivanti, sotto il profilo della tutela della salute, dalla emanazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014. Lo scopo è quello di ripristinare l’assetto caducato dalla pronuncia di incostituzionalità sotto un duplice profilo: quello del ripristino sostanziale della normativa in vigore alla data di pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale e quello di assicurare la continuità degli atti amministrativi adottai sino alla pronuncia della Consulta, peraltro stabilendo che questi ultimi continuino a produrre effetti dalla data di entrata in vigore del decreto legge. Inoltre il Governo è significativamente intervenuto sul sistema tabellare dei classificazione delle sostanze stupefacenti. Questo quadro così delineato introduce due significative modifiche di cui la prima consiste nella reintroduzione del comma 5 bis all’art. 73 T.U. Stup. relativamente ai lavori di pubblica utilità nel caso di condanna per un fatto di “lieve entità”, di modo che il giudice possa applicare, anziché la pena detentiva e pecuniaria previste in base al comma quinto dell’art. 73 del T.U. Stup., la sanzione del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del d. lgs 274/2000. La seconda modifica ha riguardato, invece, l’art. 73 comma quinto, T.U. del Stup., dal momento che è stata riformulata la cornice edittale prevista per la pena detentiva , prevedendo la reclusione da 6 mesi a 4 anni, così che il trattamento sanzionatorio si attesti su quella che era la pena prevista dalla versione originaria del T.U. Stup. che, per le c.d. “droghe leggere”, stabiliva proprio questi limiti edittali.
Proseguendo con l’indagine appare evidente come la questione più complessa agli occhi della più attenta dottrina siano i problemi di diritto intertemporale, sebbene l’introduzione dell’ultima versione dell’art. 73 comma 5, T.U. Stup., sembrerebbe aver semplificato e non poco i dubbi dell’interprete. Si tratta quindi di stabilire quali, tra le versioni dell’art. 73 comma quinto, sia quella più favorevole ed applicabile al reo in ragione del momento di commissione del fatto. Si possono individuare quattro fasce intertemporali:
- dall’entrata in vigore del d.p.r. n.309/1990 sino alla riforma del 2006;
- dalla riforma del 2006 sino all’entrata in vigore del d.l. 146/2013;
- dall’entrata in vigore del d.l. 146/2013 sino alla legge n. 79/2014;
- periodo post entrata in vigore della legge n. 79/2014;
Con riferimento ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge n. 79/2014 si applicherà l’art. 73, comma cinque, del T.U. Stup. nella versione da questi introdotta che prevede la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Se il fatto fosse invece commesso dopo la legge n. 146/2013 ma prima della legge n. 79/2014, considerando che qui l’art. 73 comma quinto prendeva una pena da uno a cinque anni, si applicherà, in virtù del principio sancito dall’art. 2, comma quattro, del codice penale, la versione ex legge n. 79/2014 che stabilisce, appunto, una pena più favorevole al reo da 6 mesi a 4 anni. Di facile soluzione appare anche l’ipotesi che il fatto si stato commesso sotto la vigenza della norma dichiarata incostituzionale in quanto, pur potendosi astrattamente applicare in virtù del divieto di irretroattività in peius di cui all’art. 25, comma due, Cost., risulta essere la versione più sfavorevole rispetto a tutte quelle succedutesi, posto che prevede una pena da 1 a 6 anni. Per i fatti commessi prima della riforma del 2006, sotto la vigenza della disciplina originaria, andrà considerata la norma più favorevole tra l’art. 73, comma quinto, nella versione del d.p.r. n. 309/1990 e lo stesso articolo nella versione del d.l. n. 146/2013 e l’ultima modifica che prevede per entrambe le tipologie di sostanze la pena detentiva della reclusione da 6 mesi a 4 anni.
Più specificatamente, per quanto concerne le c.d. “droghe pesanti”, sarà certamente applicabile la versione più recente dell’art. 73, comma cinque, del T.U. Stup. dal momento che prende sia il minimo sia il massimo più ridotti rispetto alle formulazione successive. Mentre per quanto concerne le c.d. “droghe leggere”, dopo aver escluso l’applicabilità del d.l. 146/2013, la scelta dovrà compiersi tra la disposizione originaria e quella della legge n. 79/2014, tenendo ben presente che esse hanno differente natura giuridica: l’attuale formulazione normativa si configura come fattispecie autonoma di reato, mentre la versione originaria si configurava come circostanza attenuante delle previsioni contenute nei precedenti commi.
La modifica operata dall’art. 73, comma cinque, T.U. Stup. dalla legge n.79/2014 ha comportato “ricadute processuali” davvero importanti e significative. Per quanto riguarda la misura della custodia cautelare in carcere, essa verrà resa inapplicabile dall’avvenuto abbassamento del massimo edittale da 5 a 4 anni piche l’art. 280, comma due, del c.p.p., modificato dal d.l. 78/2013, stabilisce come presupposto il massimo edittale di almeno 5 anni. Inoltre sarà consentito, laddove la pena non superi i tre anni, di richiedere la sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, comma cinque, c.p.p., dopo il passaggio in giudicato della sentenza, in quanto non sussiste più la circostanza ostativa ex art. 656, comma nove, lett. b) c.p.p. della custodia cautelare in carcere. Viene anche preclusa la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, dal momento che il presupposto prevede che il reato commesso non sia punito con una pena massima superiore a 4 anni, oltre al fatto che il condannato può richiedere, ex art. 73 comma 5 bis, la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 d. lgs. n. 274/2000. Con riferimento, infine, alle modalità di esercizio dell’azione penale, oltre alla fattispecie di arresto facoltativo in flagranza per un fatto di cui all’art. 73 comma 5 T.U. Stup., va ricordato che la diminuzione del massimo edittale comporta il procedimento con citazione diretta a giudizio ex art. 550 e ss. c.p.p.
La dottrina più attenta si interroga, quindi, se sia possibile, qualora sia stata pronunciata una condanna sulla base delle disposizioni di legge dichiarate incostituzionali, poter rimuovere quella condanna in fase esecutiva e perciò procedere a una nuova determinazione della sanzione. L’orientamento tradizionale ha sempre mostrato cime il giudicato rappresenti il limite ultimo dell’espansione retroattiva di una pronuncia di illegittimità costituzionale, purché la declaratoria di incostituzionalità non abbia ad oggetto direttamente la norma incriminatrice. Tuttavia, con le sentenze Cass. Sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977 prima e Cass. Sez. Un., 7 maggio 2014, n. 18821 poi, si è consolidato un orientamento opposto che afferma come la conformità della pena alla Costituzione debba essere garantita tanto in fase di irrogazione quanto in fase die esecuzione, valorizzando il disposto dell’art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 53 in base alla quale “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.
E’ evidente notare che, con riguardo alla materia degli stupefacenti, la rideterminazione della pena in fase esecutiva possa avvenire facendo riferimento alla versione originaria dell’art. 73, comma cinque, T.U. Stup. e, quindi, per quando concerne le c.d. droghe “leggere”, si potrà rideterminare il trattamento sanzionatorio tenendo conto della cornice edittale, peraltro più favorevole, da sei mesi a quattro anni.
Per quanto attiene, invece, ai poteri del giudice , si potrebbe prospettare la tesi in base alla quale si attribuisce allo stesso un potere di mera riduzione proporzionale della pena, tenendo presente il calcolo effettuato dal giudice che ha inflitto la pena sulla base della norma poi dichiarata incostituzionale. Tuttavia ciò che non convince questa tesi è, a mio avviso, l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di operare valutazioni discrezionali in materia di commisurazione della pena: l’art. 671 c.p.p., infatti, consente al giudice in fase esecutiva di rideterminare la pena e non certo in senso puramente “meccanico”.
Sarebbe più opportuno affermare che, anche a seguito di una rideterminazione della pena a seguito dell’incostituzionalità della legge sulla base della quale è stata pronunciata la condanna, al giudice dell’esecuzione sia consentito rideterminare la pena senza alcun vincolo e, dunque, facendo riferimento ai criteri generali di cui all’art. 133 c.p.
Resterebbe da interrogarsi sulla compatibilità del nuovo assetto dell’art. 73 comma 5, T.U. Stup., con la Costituzione ed in particolare con l’art. 3 Cost., in ragione del fatto che la disposizione continua a non distinguere tra le due tipologie di stupefacenti, nonostante la dichiarazione di incostituzionalità abbia fatto rivivere la versione originaria dell’art. 73 T.U. Stup., con la relativa distinzione. E’ stata sollevata una questione di legittimità costituzionale da parte del Tribunale di Nola dell’art. 73 comma 5 del d.p.r. n. 309/1990, nella formulazione del d.l. n. 146/2013, convertito dalla legge n. 10/2014, nella parte in cui non distingue, nel trattamento sanzionatorio, tra fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III dell’art. 14 del medesimo d.p.r. (cd. “droghe pesanti) e i fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope cui ala tabelle II e IV del suddetto art. 14 (c.d. “droghe leggere”). L’art. 73 comma 5 non potrebbe dirsi ragionevole, dal momento che prevede limiti edittali identici sia per le droghe pesanti sia per quelle leggere, mentre per i fatti di “non lieve entità”, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, sono stati ripristinati i limiti edittali diversi per ciascun tipo di sostanza, vigenti prima della riforma del 2006. Va segnalato, comunque, come una sentenza di incostituzionalità sia tutt’altro che scontata: infatti da un lato la Corte potrebbe restituire gli atti del giudice a quo, imponendogli di considerare gli effetti sulla disposizione censurata dell’entrata in vigore della legge n. 79/2014, dall’altro la Corte potrebbe operare una sorta di self-restraint in un campo di intervento riservato, tradizionalmente, al legislatore, quale quello della rimodulazione delle pene. E’ auspicabile, dunque, che sia il legislatore a rimettere mano alla materia, nel cercare di risolvere, almeno parzialmente, il groviglio normativo che la pronuncia della Corte Costituzionale ed una serie di ripetuti interventi normativi hanno creato, complicando e non poco il compito dell’interprete.
2. Analisi criminologica e tassonomie
Certamente lo studio della disciplina penalistica degli stupefacenti non può non prescindere da una definizione all’oggetto della regolamentare normativa e il ruolo di risposta a questa domanda viene assolto dalla criminologia. Analizzando le definizioni di sostanze stupefacenti mutabili da altri ambiti disciplinari quali quello medico-legale, essa dunque verifiche in quale misura esse siano utili al fine del “discorso penalistico”. La nozione di sostanza stupefacente, e l’ampio ambito in cui essa si estende, è inevitabilmente connessa con l’elaborazione di una suddivisione interna a quell’ambito in base ai differenti criteri mediante i quali possono essere individuati le varie tipologie di sostanze stupefacenti, una tassonomia appunto. Ma l’analisi criminologica emerge soprattutto quando si tratta di individuare le relazioni esistenti tra consumo di sostanze stupefacenti e condotte criminose poiché è da queste relazioni che derivano la giustificazione o la critica delle scelte di politica criminale. Nel linguaggio quotidiano sono normalmente designate con il termine “droga” soltanto le sostanze stupefacenti, la cui assunzione o commercializzazione o produzione sia oggetto di divieto normativo: tale è infatti la ragione per la quale il termine in questione non si estende all’ambito di alcol e tabacco. Il potenziale di rischio connesso, come sottolinea autorevolmente Brettel, non incide sulla pratica linguistica. La definizione formale su cui poggia l’impegno del termine “droga” non implica necessariamente la disapprovazione sul piano sociale del consumo della sostanza così connotata. La droga è quindi, almeno tendenzialmente, una sostanza oggetto di divieto normativo ma non necessariamente a questo divieto corrisponde una disapprovazione sociale del suo impiego. Secondo la OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sono definibili con il termine “drugs” tutte le sostanze che determinano in un organismo vivente una modificazione di una o più delle sue funzioni. La definizione “drug” impiegata dalla OMS è dunque neutrale rispetto a valutazioni morali e giuridiche: cioè essa non presuppone che quest’effetto di alterazione sia giudicato moralmente inaccettabile o sia in qualche modo connesso ad un divieto normativo. Il confronto tra gli usi linguistici legati al vocabolo “droga” e la definizione della parola “drug” stabilita dalla OMS mostra che la criminalizzazione delle attività connesse alle sostanze così designate non è legata alle caratteristiche che consentono l’inclusione delle sostanze stesse nella relativa categoria linguistica. Nel caso del termine “drug”, almeno in base alla versione della OMS, la definizione rinuncia programmaticamente ad un giudizio “valoriale”, di modo che è onere specifico di chi sostenga la tesi della criminalizzazione evidenziare le ragioni obiettive, legate alle caratteristiche delle sostanze, che giustifichino l’individuazione, all’interno della categoria “drug”, di quelle il cui consumo sia meritevole di trattamento sanzionatorio. La neutralità valoriale e l’indipendenza dalla qualificazione giuridica, le quali caratterizzano la nozione di “drug”, si ritrovano nel termine “stupefacente” e nell’espressione “sostanza stupefacente”. Lo stupefacente può essere definito come quella sostanza che agisce sul sistema nervoso centrale, costituito da cervello e midollo spinale, e il cui consumo conduce in uno stato di chiara alterazione psichica, più strettamente di modificazione delle percezioni sensoriali, delle impressioni e delle sensazioni. Questa definizione muove dal piano degli effetti: ne discende che essa ricoprendo anche sostanze di per sé socialmente o giuridicamente accettate.
Sotto il rifilo delle tipologie di sostanze stupefacenti è significativa la tesi esposta da Newburn in base alla quale esistono due metodi per dividere la variegata gamma di sostanze stupefacenti. Dal punto di vista farmacologico si discernono quattro distinti gruppi: le sostanze stimolanti, le sostanze depressive, quelle a analgesiche e infine quelle allucinogene. Dal punto di vista giuridico le classificazione variano a seconda dell’orientamento considerato. Newburn fa riferimento all’Inghilterra e al Galles in cui sono previste tre “classi” -A,B,C,- di sostanze in ordine decrescente di “harmfulness”. In questo caso il legislatore ha adottato come criterio di suddivisone interno alla categoria degli stupefacenti quello della “dannosità”, la quale viene riferita a una serie di fattori che vanno dal rischio di incremento dei costi a carico del sistema sanitario a quello di un significativo pregiudizio fisico per il consumatore, consistente eventualmente nell’overdose. Dall’altra parte Kaiser, il quale propone un concetto ampio di droga fondato sulle similitudini tra i movimenti che spingono al consumo e gli effetti provocati dalle sostanze, distingue all’interno di questa categoria tra oppiacei, stimolanti, cannabinoidi, tranquillanti-ipnotici e alcolici. la nicotina non è ricompera tra le droghe , in quanto, pur provocando una dipendenza sia fisica sia psicologico, non è associata con un incremento progressivo del dosaggio né con stati di alterazione psichica né con pregiudizi sul piano fisico o dell’interazione sociale. Una terza tesi è invece riconducibile a Bretten che, dal canto suo, procede ad una rassegna delle principali prospettive a partire dalle quali è possibile sviluppare una tassonomia degli stupefacenti, e delle quale si rimanda a apposito riferimento. Secondo Bretten un ulteriore profilo tipologico può essere ricavato dal ruolo che la sostanza assume nella cosiddetta “carriera della droga” e con quest’espressione si intende l’evoluzione dei consumi di un certo soggetto da certe tipologie di sostanze ad altre. Si possono dunque distinguere le sostanze mediante le quali una persona normalmente si accosta per la prima volta al mondo degli stupefacenti da quelle che invece vengono solitamente consumate quando si sia già maturata una certa esperienza con altri prodotti. In un contesto di quest’ultimo tipo si colloca la distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti” già trattata in precedenza. In questa dicotomia troviamo sia un accenno alla “carriera del consumatore” sia all’influenza che la sostanza ha sull’organizzazione complessiva della vita del consumatore: le droghe pesanti infatti sono quelle che producono una alterazione significativa ma soprattutto duratura nello stile di vita di chi le assume.
Tuttavia riguardo la materia delle sostanza illegali stupefacenti si pone un annoso problema: il cosiddetto problema di quantificazione.
Con quest’espressione ci si riferisce alla quantità di sostanza stupefacenti in commercio che, in quanto oggetto di un’attività illecita, non rientra nelle rivelazioni ufficiali. Si deve conseguentemente optare per ricostruzioni indirette, fondate o sulla quantità di sostanze sequestrate, confiscate o comunque assicura agli organi competenti o sul numero di morti a causa delle sostanze stupefacenti o sul numero di persone ricoverate per motivi connessi alle sostanze stesse. Si vengono quindi ad elaborare dei criteri, dei quali il primo- quello delle sostanze sequestrate- presenta già molte problematicità: un sequestro occasionale di una notevole quantità di sostanze stupefacenti influenzerebbe invero il dato statistico generale. Inoltre l’incremento di quest’indicatore corrisponderebbe a un perfezionamento delle tecniche di indagine e dunque a dimensioni in realtà inferiori del mercato delle sostanze illecite. Il secondo criterio presenta invece due difficoltà: innanzitutto bisogna stimare in che rapporto siano il numero dei decessi con il totale delle sostanza consumate e, in secondo luogo, si tratta di fissare un concetto chiaro “di morte a causa delle sostanze”. Un rapporto diretto tra il manifestarsi di una certa conseguenza e l’assunzione di una sostanza è piuttosto difficile da accertare.
In particolare, il decesso può essere considerato conseguenza diretta solo fronte del consumo di una cosiddetta overdose, ma il numero di morti per overdose è molto inferiore a quello che normalmente si considera essere stato cagionato dall’assunzione di sostanze. Inoltre bisogna tener conto del fatto che la morte in seguito al consumo può essere provocata da fattori assai diversi tra loro, come il livello di purezza della sostanza assunta, il contenuto del principio attivo, le probabilità di rivedere un pronto soccorso e non ultima la costituzione fisica individuale del consumatore. Il terzo criterio infine può significativamente influenzato da caratteristiche del caso concreto, come il consenso dell’interessato e la presenza di stimoli esterni a sottoporsi a una terapia, la disponibilità di strutture in cui effettuarla e infine il corso e la durata della stessa.
3. Sostanze stupefacenti e il fenomeno della criminalità
L’aspetto di maggiore rilievo criminologico è ovviamente quello che attiene ai rapporti tra il consumo di sostanze stupefacenti e criminalità, o meglio le condotte criminali. La fattispecie verte soprattutto sul rapporto tra consumo di sostanze stupefacenti e quelle attività diverse dal consumo le quali siano qualificate come penalmente rilevanti. E’ da analizzare la possibile spiegazione causale della relazione tra consumo criminalità poiché ne esistono fondamentalmente quattro tipologie: in base a una prima impostazione, il consumo di droga è fattore eziologico della criminalità; in base alla seconda impostazione è la criminalità il fattore eziologico del consumo di droga. Secondo la terza opinione il consumo di droga e la criminalità sono legati da una relazione di causalità reciproca; in base alla quarta impostazione la criminalità e il consumo di droga hanno una base comune.
Si può supporre che l’acquisto di sostanze stupefacenti sia finanziato essenzialmente attraverso la commissione di reati oppure che la nascita di un mercato delle sostanze stupefacenti sia fonte naturale di criminalità.
Si può supporre che l’acquisto di sostanze stupefacenti sia finanziato essenzialmente attraverso la commissione di reati oppure che la nascita di un mercato delle sostanze stupefacenti sia fonte naturale di criminalità: sarebbe questa una spiegazione causale del primo tipo. In alternativa si può pensare che il consumo di sostanze stupefacenti sia rappresenti una partita caratterizzante lo stile di vita di chi è dedito ad attività criminali. In questo caso è la dedizione al crimine a rappresentare la base su cui si innesta l’assunzione di sostanze e quindi avremo una spiegazione causale del secondo tipo. E’ possibile altresì ipotizzare che il consumo di droga non spieghi esaustivamente la condotta criminosa e viceversa: questo è il terzo modello ed entrambe le pratiche si sostengono reciprocamente. Infine il consumo di sostanze stupefacenti può essere visto come una delle molteplici manifestazioni di una condizione di disadattamento sociale o come uno stadio di una carriera criminale già cominciata, prefigurandosi qui, il consumo di sottane stupefacenti, come un sintomo di carenza di socializzazione. Il consumo di droga e la criminalità incontrano un questo caso uno sfondo esplicativo comune nella tendenza fondamentale alla devianza, la qual non trova nelle sostanza stupefacente la sua scaturigine. In questo caso si prospetta una spiegazione causale del quarto tipo.
E’ opportuno sottolineare che in tutti e quattro i casi qui da me citati il modello di spiegazione causale può essere radicalmente criticato sostenendo che in realtà tra consumo e attività criminale si dia sempre e solo una relazione in termini di mera correlazione. Sembra infatti ragionevole assumere che tra l’assunzione di sostanze stupefacenti e l’attività criminale non vi sia alcun nesso in termini di necessità: in altre parole, chi consuma stupefacenti non è necessariamente un criminale o viceversa. Pare opportuno soffermarsi quindi sulle modalità di comportamento in cui possa manifestarsi l’attività penalmente illecita correlata all’assunzione delle sostanze. Seguendo la tassonomia proposta da Brettel, si può operare una prima distinzione tra la delinquenza connessa al procacciamento di sostanze stupefacenti e quella connessa alle conseguenze del consumo. Nell’ambito della prima categoria, si possono poi ulteriormente distinguere i reati di colui che offre la sostanza sul mercato da quelli di colui che la acquista.
Dunque, a questo punto, si pone il problema, a mio modo di vedere, di comprendere come il rifiuto della spiegazione causale in favore di quella della correlazione possa influenzare l’argomento riguardante la legittimazione delle pratiche punitive legate al consumo. Se il consumo si prefigura, in virtù delle asserzioni precedentemente svolte, come favore centrale del fenomeno degli stupefacenti, se il consumo si prefigura quale fattore che sorregge il mercato e le attività collaterali, senza di esso né l’uno né l’altro sussisterebbero. La riconduzione, quindi, al consumo di conseguenze che siano socialmente pregiudizievoli e, nello specifico, consistano in fatti criminosi potrebbe legittimare la punizione dello stesso in un’ottica di anticipazione della tutela. Il rifiuto della spiegazione causale comporta tuttavia proprio il rigetto della configurazione di questi eventuali fatti criminosi come conseguenze delle scelte individuali di consumo. L’onere della prova della fondatezza di un paradigma esplicativo di tipo eziologico sembra pertanto gravare in capo a chiunque propugni strategie che contemplino la punizione del consumatore. Parrebbe logico supporre che se la scelta del consumatore di consumare sostanze stupefacenti non è eziologicamente collegata ad attività criminose, sarebbe ragionevole punire solo quei fatti che assumono rilievo penale a prescindere dal tipo di “prodotto” offerto sul mercato. Ed è proprio qui che si può asserire, in maniera tanto innovativa ma con un atteggiamento di grande cautela, che senza una spiegazione di tipo causale della relazione tra consumo di stupefacenti e criminalità la materia degli stupefacenti non può essere considerata alla stregua di un settore economico peculiare e quindi meritevole du “attenzione” da parte del dritto penale, la quale si traduca nella predisposizione di strumenti punitivi a fronte di un comportamenti che, in relazione alle categorie “ordinarie” di merci, rientrerebbero nell’area della liceità. Questa è quindi la grande provocazione che si può muovere agli occhi della dottrina più attenta sulla materia delle sostanze stupefacenti, la quale inevitabilmente rimane influenzata dal celebre scritto di H. Brettel “Drogenkriminalitat”.
Riferimenti bibliografici
- Ferrando Mantovani, DIRITTO PENALE, Parte Generale e Parte Speciale- VIII ed., Cedam.
- Giovanni Fiandaca-Enzo Musco, DIRITTO PENALE, Parte Speciale, VII ed., Zanichelli editore.
- G. Morgante, STUPEFACENTI E DIRITTO PENALE, Giappichelli Editore.