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Pubbl. Mer, 31 Ago 2016

Mobbing: le novità introdotte dalla giurisprudenza. La Cassazione riconosce lo straining.

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Fiorella Floridia


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3291 del 2016, ha accolto il ricorso di un medico individuando nelle condotte denunciate la condotta di straining.


1. Mobbing e normativa.

L’articolo 32, comma 1, della nostra Costituzione riconosce, in capo ad ogni individuo, la tutela della propria salute come diritto fondamentale. Da questo discende che la tutela del singolo soggetto deve essere attuata soprattutto in quei luoghi dove si svolge quotidianamente la propria attività lavorativa. Spesso nei luoghi di lavoro vengono posti in essere atti o comportamenti vessatori. Tali condotte vessatorie e discriminatorie, a danno del lavoratore, vengono indicate col termine mobbing. 

Il mobbing ha delle caratteristiche ben precise.

Riconoscere nel luogo di lavoro le azioni mobbizzanti è importante, ma allo stesso tempo risulta alquanto arduo individuarle. Il mobbing consiste in una condotta avente natura  discriminatoria, posta in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico, protrattasi nel tempo che riesce a minare l’equilibrio psico-fisico del soggetto mobbizzato.  Il comportamento in questione può avere delle sfaccettature diverse. Può tradursi in offese di natura verbale, può consistere in un atteggiamento silenzioso, se la vittima viene esclusa dal gruppo; può avere natura disciplinare, attraverso lettere di richiamo ingiustificato. In poche parole, il mobbing e' un comportamento che riesce a distruggere l'equilibrio psico-fisico del singolo lavoratore. 

Stante la presenza di tale condotta vessatoria nei luoghi di lavoro, nel nostro ordinamento non esiste alcuna disciplina normativa al riguardo. I primi tentativi di ricostruire la fattispecie in esame arrivano dalla nostra giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Secondo la sentenza della Corte Costituzionale, del 19.03.2003 n. 359, il mobbing avrebbe le seguenti caratteristiche: "Un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo". Anche la Suprema Corte di Cassazione si è occupata del Mobbing. In alcune sue pronunce, ha sottolineato che ai fini della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, con intento vessatorio (Cass. 07.08.2013, n. 18836); l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; infine la prova dell'elemento soggettivo, cioè del l'intento persecutorio (Cass. 10.01.2012, n. 87).

L’assenza di una regolamentazione ad hoc, ha portato il nostro interprete a cercare una tutela all’interno del nostro ordinamento giuridico, tutela sia dal punto di vista civilistico che penalistico. Per quanto riguarda la disciplina civilistica, la norma che permette di tutelare le diverse condotte di mobbing è l’articolo 2087 c.c. . L’articolo 2087 c.c., infatti, stabilisce quanto segue: “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il datore di lavoro deve porre in essere tutte quelle misure che devono tutelare la salute e l’integrità morale del lavoratore, in quanto quest'ultimo ha un obbligo di protezione al riguardo. Altra norma che permette di tutelare il lavoratore che subisce tale condotta è l’articolo 2043 c.c., in tal senso è possibile estendere l’ambito della tutela anche dal punto di vista extracontrattuale.

Per quanto concerne il profilo penalistico, le possibilità di tutela risultano più difficili, in quanto non esiste una tutela specifica.Sarà possibile semmai, che la condotta del mobber possa integrare alcune fattispecie di reato: la violenza sessuale, le lesioni personali oppure l’abuso di ufficio.

Sarebbe auspicabile una sistemazione analitica dell’intera materia, in quanto le varianti di mobbing nei posti di lavoro sono di diversa natura e di vario tipo.

Una prima distinzione al riguardo è tra mobbing orizzontale e mobbing verticale. Il mobbing verticale (discendente o dall’alto) consiste in violenze psicologiche messe in atto dal superiore gerarchico nei confronti del lavoratore. Tali azioni possono essere dirette oppure indirette e mirano ad escludere un lavoratore “scomodo”, cercando di provocarne lo spontaneo licenziamento. Invece, il mobbing orizzontale riguarda quelle condotte vessatorie che vengono messe in atto dai colleghi di pari grado della vittima.

Esiste anche una tipologia di mobbing più rara, come il mobbing ascendente. Esso si verifica quando un lavoratore con mansioni superiori è vittima della condotta di mobbing posta in essere da lavoratori con mansioni inferiori.

2. Le novità introdotte dalla sentenza n. 3291/2016.                             

Un fenomeno molto simile al mobbing ma da quest’ultimo distinto è lo straining. Lo Straining, trae origine dall’inglese “to strain”,  il termine significa "sforzare" o "mettere sotto pressione". Lo straining è una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, uno stress di gran lunga maggiore di quello richiesto normalmente al lavoratore nello svolgimento dei propri compiti. In questa situazione di stress, la vittima (il lavoratore), subisce da parte dell’aggressore (lo strainer) che solitamente è un superiore, almeno un’azione ostile e stressante, i cui effetti negativi sono di durata costante nel tempo. L’azione tipica dello straining consiste in particolare in situazioni di isolamento sistematico e di cambiamento di mansioni, col ricorso all’assegnazione di mansioni “prive di contenuto” oppure “irrilevanti”. La condotta in questione consiste sempre in una sola azione, ma con efficacia ed effetti perduranti, in poche parole è una forma più attenuata di mobbing. A questa conclusione è giunta la nostra Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3291/2016. La Suprema Corte con la stessa, si è pronunciata nuovamente sul problema riguardante le condotte vessatorie perpetrate a danno di un lavoratore. Gli ermellini hanno riconosciuto, in caso di demansionamento, tutela al dipendente, anche qualora i comportamenti del datore di lavoro non siano riconducibili alla categoria mobbing, ma ad una forma, per così dire attenuata, denominata straining.

Nel caso di specie il lavoratore in esame era un medico, il quale chiedeva il riconoscimento dei “danni da mobbing”, vittima di una “situazione lavorativa conflittuale di stress forzato” realizzata dal primario del reparto in cui prestava servizio. La Corte, pur escludendo che la condotta del primario non aveva dato dato luogo ad un vero e proprio fenomeno di mobbing, mancando l’elemento della “frequenza” della condotta persecutoria, ha individuato nelle condotte denunciate, gli estremi dello straining. La Cassazione ha avuto modo di sottolineare quanto segue:“Tale situazione, con riferimento al periodo compreso tra ottobre 2006 e il consolidamento dei postumi permanenti, può essere qualificata come straining, che si definisce come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo ma tale da provare una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa. Il suddetto “stress forzato” può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità e discriminazione e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo. E ‘ sufficiente anche un’azione ostile purchè essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere continuamente in una posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori”.