Pubbl. Ven, 22 Lug 2016
No al licenziamento del dipendente ASL che lavora presso privati mentre si trova in aspettativa non retribuita.
Modifica paginaL’inadempimento del lavoratore deve essere valutato alla luce del principio di “non scarsa importanza” di cui all’ art. 1455 cc. Lo ribadisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14103/2016.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14103/2016[1], conferma un principio cardine in tema di licenziamento disciplinare: la validità del licenziamento deve essere valutata alla stregua del generale principio della gravità dell’inadempimento.
Nel caso di specie, il dipendente Asl era stato licenziato perché recidivo nella violazione del divieto di prestare attività lavorativa (in fase di aspettativa non retribuita) presso strutture private in assenza di autorizzazione.
La legittimità del licenziamento, che era stata confermata in grado d’Appello, viene vagliata dalla Corte di legittimità alla luce dell’art. 13 del CCNL 19.4.2004 per il personale del comparto sanità, come modificato ed integrato dall'art. 6 del CCNL 10.4.2008.
In particolare, la Corte osserva che la disciplina del contratto collettivo richiama i principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni, con la conseguenza che il tipo e l’entità delle stesse devono essere determinati tenendo in considerazione i seguenti criteri:
- intenzionalità del comportamento, grado di negligenza, imprudenza o imperizia dimostrate, tenuto conto anche della prevedibilità dell’evento;
- rilevanza degli obblighi violati;
- responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente;
- grado di danno o di pericolo causato all’azienda o ente, agli utenti o a terzi ovvero il disservizio determinatosi;
- sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
- concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra loro.
Come affermato anche da una recente sentenza[2] pronunciata su un caso del tutto analogo, “in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza”.
Ciò che, pertanto, legittima realmente il licenziamento disciplinare, non è tanto la violazione in sé, quanto, piuttosto, il fatto che tale violazione sia in grado di minare per sempre il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.
Solo in questo caso, dunque, la violazione può dirsi realmente grave e, quindi, consentire, alla luce del principio codicistico previsto in tema di obbligazioni, la risoluzione del contratto.
La gravità dell’inadempimento, precisa poi la Corte di Cassazione, non può desumersi solamente dalla reiterazione della condotta, occorrendo sempre una contestuale considerazione di tutti gli altri aspetti del caso concreto.