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Pubbl. Mar, 5 Lug 2016

Parità di trattamento e discriminazione: il risarcimento del danno non patrimoniale.

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Mattia De Lillo


Per la Corte d´Appello di Milano, sentenza n. 579/2016, la lavoratrice islamica esclusa dalla selezione lavorativa a causa del velo va risarcita per danno non patrimoniale.


 

Il principio di parità di trattamento senza distinzioni di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età, di orientamento sessuale, si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”
(1)

In base a tale principio, la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 579/2016, ha definito discriminatoria la condotta di un’azienda di ricerca del personale.
Quest’ultima aveva il compito di selezionare delle hostess addette al volantinaggio durante il Salone internazionale del settore calzaturiero. Una ragazza italiana, di origini egiziane e di fede islamica, a causa del suo rifiuto di togliere il velo (il c.d. hijab) durante la prestazione lavorativa si è vista rifiutare la propria candidatura per accedere al gruppo di selezione del lavoro indicato.

Diversamente, infatti, il Tribunale di Lodi, vedendosi investito della controversia, con la sentenza n. 1558/2014 aveva stabilito l’assenza di una matrice discriminatoria nell’esclusione della ragazza, dato che gli standard estetici e fisici posti dal selezionatore non erano conciliabili con la richiesta della candidata di indossare un copricapo.

Come abbiamo già accennato, i giudici della Corte d’Appello milanese sono stati di tutt’altro avviso, riformando, così, la sentenza di primo grado.
La Corte, nelle motivazioni, spiega come l’insussistenza della volontà di discriminare non possa avere rilevanza nel caso specifico. Lo stato psicologico del selezionatore, infatti, non è significativo, in quanto la condotta ha determinato in concreto una disparità di trattamento producendo una discriminazione oggettiva.
Il principio sopra citato è confermato dall’art. 43 del Testo Unico in materia di Immigrazione, rubricato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, violato nel caso in esame a causa della descritta esclusione.

L’hijab, quindi, indossato per motivi religiosi, non può risultare come unico ostacolo all’assunzione della persona che lo indossa, senza integrare la fattispecie discriminatoria.
L’unico caso in cui possa sussistere una causa di giustificazione di tale condotta, è quello in cui il non indossare il velo costituisca un requisito essenziale e determinante della prestazione.
Nel caso di specie, tuttavia, non viene rilevato dai giudici alcun documento o atto dichiarativo, nei quali venga specificata tale condizione necessaria.

Sotto il profilo del risarcimento del danno, la sentenza della Corte d'Appello di Milano evidenzia l’assenza di un effettivo danno di tipo patrimoniale in capo all'appellante dato che, anche se fosse stata ammessa nella rosa dei candidati al lavoro, non avrebbe potuto effettuare la prestazione lavorativa (e di conseguenza percepire un compenso) a causa dei criteri di assunzione; lapalissiana, quindi, l’impossibilità di formulare un pregiudizio sotto forma di lucro cessante.
D’altro canto, è stato rilevato, che tale discriminazione ha portato ad una lesione sul piano personale ed identitario portando quindi alla configurazione di un danno non patrimoniale determinato in maniera equitativa e pari ad € 500,00.

 

Note e riferimenti bibliografici
(1) Art. 3, co. 1, D. Lgs. n. 216/2003 - Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro