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Pubbl. Dom, 19 Giu 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Il rapporto tra i delitti di illecito reimpiego e associazione di tipo mafioso

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Natale Pietrafitta


Commento a Cass. Pen. S.U., del 27 febbraio 2014, n. 25191


1. La vicenda giudiziaria

Un soggetto, sottoposto alla custodia cautelare in carcere perché indagato per il delitto di illecito reimpiego, commesso per aver agevolato alcune associazioni di tipo mafioso, proponeva istanza di riesame al competente ufficio giudiziario il quale, sposando la tesi accusatoria, confermava l’irrogata misura restrittiva della libertà personale. Avverso tal’ultimo provvedimento il difensore dell’indagato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando l'insussistenza di gravi indizi di colpevolezza e la violazione di legge in relazione all'imputazione ex art. 648 ter c.p.. In particolare, il subiecto risultava già indagato, in altro procedimento ancora in corso, per il delitto di cui all'art. 416 bis, aggravato ex comma 6, per aver partecipato ad una associazione di tipo mafiosa e ciò avrebbe reso impossibile la configurazione del delitto di illecito reimpiego. Orbene, sosteneva, ancora, la difesa, la contestazione del reimpiego sarebbe stata rivolta ad uno dei concorrenti nell'associazione per delinquere di tipo mafioso dalla cui attività costitutiva scaturivano il denaro, i beni e le utilità reimpiegate; di talché avrebbe operato, nel caso di specie, la clausola di riserva prevista dalla lettera dell'art. 648 ter – la quale prevede la configurazione del delitto di illecito reimpiego solo ove non sussista alcun concorso nel reato che costituisce il presupposto per l'approvvigionamento dei capitali reinvestiti.

2. Gli orientamenti giurisprudenziali

Della questione veniva, così, investita la prima sezione della Suprema Corte di Cassazione la quale immediatamente, dava conto dell’esistenza in atto un contrasto giurisprudenziale non composto, ancora, da alcuna pronuncia del Supremo Consesso di legittimità. In particolare, il Giudice di de quo rilevava che un  primo orientamento affermava che il concorrente nel delitto associativo di tipo mafioso, non essendovi tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere alcun rapporto di presupposizione e non operando, pertanto, la clausola di riserva, può essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa, sia quando il delitto presupposto sia da individuarsi nei delitti fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell'associazione sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso[1]. Ancora, il Giudice adito faceva menzione di un secondo orientamento rammentando che lo stesso affermasse, piuttosto, l'impossibilità di configurare il reato previsto dall'art. 648 ter c.p. quando la contestazione del reimpiego riguarda denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trova la sua fonte nell'attività costitutiva dell'associazione per delinquere di stampo mafioso ed è rivolta ad un associato cui quella attività sia concretamente attribuibile[2].

3. Il casus belli sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite

La prima sezione, dunque, trovatasi innanzi ad un simile e dirompente dilemma, stante il contrasto pretorio evidenziato, sceglieva di rimettere la scottante questione nelle mani delle Sezioni Unite, onde addivenire ad una – quanto possibile lapalissiana – composizione della vicenda in esame. In particolare il quesito sottoposto al vaglio del Supremo Consesso chiedeva di conoscere se fosse possibile che il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso potesse costituire il reato presupposto del delitto di illecito reimpiego, e perciò potesse escludere, in virtù dell'espressa clausola di sussidiarietà con la quale l'art. 648 ter esordisce, l'applicabilità di quest'ultimo nei confronti del concorrente nel reato di cui all'art. 416 bis c.p., che reimpieghi illecitamente nel circuito finanziario i proventi direttamente derivanti dalla partecipazione all'organizzazione[3].

4. Status quaestionis

Per meglio comprendere, a questo punto, le ragioni sottese alla questione in esame è necessario valutare quali siano i presupposti, quali antecedenti logici, della vicenda sostanziale che fa da fondamento al contrasto giurisprudenziale evidenziato, così da meglio comprendere la soluzione offerta, infine, dalla pronuncia in esame. Più precisamente, va – in primis – chiarito che  una delle rilevanti differenze intercorrenti fra il delitto di associazione per delinquere cd. semplice e quello di associazione per delinquere di stampo mafioso è costituita dalle modalità con la quale le due diverse tipologie di associazione sono in grado di generare proventi che costituiranno, poi, l'oggetto materiale dei reati di riciclaggio ed illecito reimpiego. A tal proposito, occorre osservare come nel caso della fattispecie di cui all'art. 416 c.p. sia sempre necessaria, perché sussistano proventi di qualche genere derivanti dall'associazione, la commissione di un ulteriore reato - il cosiddetto reato scopo - idoneo, diversamente da quanto accade per la semplice associazione per delinquere, a produrre utilità economiche. Ciò in quanto un’associazione per delinquere semplice perché possa produrre proventi è necessario che gli associati realizzino almeno uno dei reati-scopo al fine di produrre una qualche utilità da riciclare o reinvestire. Di conseguenza, i proventi che pure derivano dall'attività dell'associazione, costituiscono sempre un frutto "mediato" di quest'ultima, perché scaturiscono - in primo luogo ed immediatamente - dal reato scopo posto in essere dagli associati[4]. Non potendosi quindi configurare una ontologica derivazione dei beni oggetto di riciclaggio dalla condotta associativa, non può evidentemente operare la clausola di esclusione con la quale esordisce l'art. 648 bis c.p.[5] Differente si presenta, invece, la questione, in relazione al delitto di associazione di tipo mafioso. Quest’ultima, infatti, si distingue rispetto all'associazione tout court anche perché il vincolo associativo della prima è caratterizzato da una notevole forza di intimidazione, che esplica i suoi effetti sul tessuto sociale del territorio nel quale si radica. È ben plausibile dunque che proprio la condizione di assoggettamento dettata dal timore e l'imposizione di un atteggiamento di omertà alla popolazione - attività costitutive dell'associazione per delinquere di stampo mafioso, che ne rappresentano il fondamento costitutivo - siano idonee a creare - perciò solo - utilità di tipo economico. È quindi possibile ed anzi usuale che l'associazione mafiosa abbia fra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sé formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga, ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la desistenza di eventuali concorrenti, il che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi reati da qualificare come fine dell'associazione[6].

5. La resa dei conti

Premesso e ritenuto quanto sopra, dunque, è possibile sostenere che, nessun problema pone la clausola di riserva di cui agli artt. 648 bis e 648 ter quando il denaro, i beni o le utilità riciclate o reimpiegate siano il frutto diretto di uno dei reati fine posti in essere dall'associazione per delinquere nell'esecuzione del proprio disegno criminoso. In tale ultimo caso, infatti, il reato presupposto nei confronti del quale la clausola opera è sempre il reato fine in questione e mai l'associazione per delinquere, semplice o di stampo mafioso; di conseguenza, dunque, l'imputazione per i reati di cui all'art. 416 (sempre) e 416 bis (ogni qual volta sussista un reato fine dal quale i proventi riciclati o reimpiegati scaturiscono) non incide sulla possibilità di un'imputazione anche per i delitti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter[7]. Di talché, il problema, in queste ipotesi, sarà quello di determinare se il membro dell'associazione per delinquere, che ha riciclato o reimpiegato i proventi del reato fine, abbia o meno partecipato in qualità di concorrente nel reato dal quale tali proventi scaturiscono. Sicché, in caso di risposta positiva al quesito – ossia ove l'associato sia anche concorrente nel delitto fine dal quale derivano i proventi riciclati o reinvestiti - la clausola di sussidiarietà di cui agli art. 648 bis e 648 ter c.p. opererà nel senso di escludere l'imputabilità dell'associato per il delitto di riciclaggio o per quello di illecito reimpiego, e quest'ultimo risponderà "solo" dell'associazione per delinquere e del reato fine nel quale ha concorso; nel caso in cui, invece, l'associato non abbia concorso nel reato fine dal quale scaturiscono i proventi riciclati o reinvestiti, quest'ultimo potrà senz'altro rispondere tanto per il reato associativo, quanto per il riciclaggio o l'illecito reimpiego[8]. Problematica, invece, appare l’ipotesi - relativa alla fattispecie di cui all'art. 416 bis c.p. - in cui il denaro, i beni o le utilità riciclate o reimpiegate scaturiscano immediatamente dallo stesso vincolo associativo, costituendone il frutto diretto. Solo in questi casi, infatti, la clausola di riserva di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p. sembrerebbe suggerire l'impossibilità di imputare al concorrente nell'associazione per delinquere di stampo mafioso il riciclaggio o l'illecito reimpiego di quelle utilità che il vincolo associativo produce ex se. Sicché, allorquando si ammettesse che l'associazione per delinquere di stampo mafioso fosse in grado di produrre autonomamente delle utilità economiche dovrebbe concludersi - stante il tenore letterale della clausola di sussidiarietà contenuta negli artt. 648 bis e 648 ter - che il concorrente nel reato associativo di stampo mafioso non risponda del riciclaggio o dell'illecito reimpiego del denaro, dei beni o delle altre utilità che l'associazione mafiosa produce ex se[9].

6. La soluzione offerta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione

In particolare, il Collegio preliminarmente ha mosso le proprie argomentazione dall’affermazione del principio secondo cui il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso. In virtù di tale principio, dunque, la Corte è giunta ad affermare agevolmente che non sia configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter c.p. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia ad oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa. Affermando, così, in buona sostanza, che il delitto presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di capitali può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi. Ed in effetti, ove si ritenesse che il presupposto dei delitti di riciclaggio o di reimpiego possa essere rappresentato unicamente dai profitti acquisiti grazie alla commissione dei singoli reati-scopo si giungerebbe a conseguenze prive di qualsiasi intrinseca razionalità e coerenza: sarebbe, così, ad esempio, obbligatoria, ai sensi dell'art. 416 bis, settimo comma, c.p. soltanto la confisca dei profitti conseguiti grazie alle attività - diverse da quelle consistenti nella commissione dei singoli delitti - gestite con metodologia mafiosa dall'associazione e, al contrario, sarebbe meramente facoltativa, ai sensi dell'art. 240 c.p., la confisca dei profitti derivanti dalla realizzazione dei reati-fine.

 


[1] Cass. Pen. Sez. I, del 27 maggio 2011, n. 40354 e Cass. Pen. Sez. II, del 4 giugno 2013, n., 27292 in www.italgiure.it;

[2] Cass. Pen. Sez. 6, del 24 maggio 2012, n. 25633 in www.italgiure.it;

[3] Cass. Pen. Sez. I, ord. del 1 ottobre 2013, n. 3090 in www.dirittopenalecontemporaneo.it;

[4] Cass. Pen. Sez. II, del 8 novembre 2011, n. 44138 in www.italgiure.it;

[5] Cass. Pen. Sez. II, del 14 febbraio 2003, n. 10582 in www.italgiure.it;

[6] Cass. Pen. Sez. I,  del 27 novembre 2011, n. 6930 in www.italgiure.it;

[7] A. Galluccio, Illecito reimpiego e associazione di tipo mafioso: la parola passa alle Sezioni Unite, 20 Gennaio 2014, in www.dirittopenalecontemporaneo.it;

[8] A. Galluccio, Illecito reimpiego e associazione di tipo mafioso, cit.;

[9] A. Galluccio, Illecito reimpiego e associazione di tipo mafioso, cit.;