Pubbl. Gio, 26 Mag 2016
L’interdizione dai pubblici uffici: una pena contraria ai diritti dell’uomo?
Modifica paginaLa compatibilità dell’art. 28 c.p. con i principi della CEDU alla luce della sentenza Scoppola c. Italia (n. 3).
Introduzione
A causa della loro estrema complessità e dello spessore dei valori ad esse sottese, le pene accessorie rappresentano, tutt’oggi, un istituto giuridico molto controverso. Previste sin dal disegno originario del codice Rocco, le pene accessorie sono state più volte oggetto di riforme contraddittorie, le quali hanno privato l’intera disciplina di coesione ed unità.
Eppure le pene accessorie rivestono tutt’oggi un ruolo di primaria importanza nel panorama del nostro sistema penale, avendo ad oggetto posizioni soggettive tutelate finanche a livello costituzionale. Proprio per tale rilevanza non pochi sono stati i sostenitori di una definitiva emancipazione di tali pene, con la loro conseguente trasformazione in pene principali[1]. Orbene, oggigiorno le concrete chances delle pene accessorie di diventare un'autentica alternativa alle pene detentive sembrano del tutto azzerate.
Tra le varie pene accessorie previste dal codice, la più grave - date le limitazioni che colpiscono il destinatario della misura - è indubbiamente l’interdizione, temporanea o perpetua, dai pubblici uffici. Essa comporta, unitamente ad altre privazioni, la perdita del diritto di elettorato o di eleggibilità. Proprio sotto questo profilo l’art. 28 c.p. (ma anche l’art. 29 c.p. e l’art. 2, lett. d, D.P.R. 20.3.1967, n. 223) è stato oggetto di un attento vaglio di compatibilità con i dettami della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e, nello specifico, con l’art. 3 del Protocollo n. 1.
1. Il caso Scoppola c. Italia (n. 3)
Il punto più dibattuto in tema di interdizione perpetua dai pubblici uffici è rappresentato, indubbiamente, dalla previsione di cui all’art. 28, co.2, n.1 c.p., e cioè dalla privazione, per l’interdetto dai pubblici uffici, del diritto di elettorato o di eleggibilità. Difatti, una sanzione così severa è apparsa a molti, non solo spingersi al di là della copertura costituzionale fornita dall’art. 48, co. 4, Cost., ma anche contraria alle numerose previsione di diritto internazionale (non solamente alla CEDU) poste a tutela del diritto di voto.
Invero, gli artt. 28 e 29 c.p., nonché l’art. 2, lett. d, D.P.R. 20.3.1967, n. 223 - secondo il quale non sono elettori, tra gli altri, i condannati a pena che importi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici - sono stati ripetutamente criticati, specialmente in relazione all'art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La questione pare aver trovato finalmente una soluzione - favorevole alle previsioni del nostro ordinamento - a seguito della pronuncia della Corte EDU, pervenuta il 22 maggio 2012, a conclusione del procedimento Scoppola c. Italia (n. 3). Una sentenza che per l’alto spessore giuridico, nonché per i riferimenti normativi internazionali e nazionali in essa presenti, merita di essere attentamente analizzata e ripercorsa in questa sede.
1.1 I fatti.
Nella propria decisione i giudici di Strasburgo ripercorrono, in primis, le vicende processuali - nazionali ed internazionali - che hanno interessato il ricorrente. In particolare, all’origine del processo innanzi alla Corte EDU, vi è il ricorso proposto nel 2004 dal sig. Franco Scoppola contro la Repubblica italiana. Con esso il ricorrente sosteneva che l’interdizione dal diritto di voto, successiva ad una condanna penale, avesse violato l’articolo 3 del Protocollo no 1.
Nello specifico il 2 settembre 1999, dopo una violenta lite familiare, lo Scoppola uccideva la propria moglie e feriva uno dei suoi figli. Il 24 novembre 2000, al termine del giudizio abbreviato - di cui il ricorrente aveva chiesto l’applicazione - il giudice dell’udienza preliminare di Roma lo dichiarava colpevole relativamente a tutti i capi d’accusa a suo carico e lo condannava alla pena dell’ergastolo. Tuttavia, in ragione dell’adozione del giudizio abbreviato, il GUP fissava la pena in 30 anni di reclusione ed unitamente pronunciava l’interdizione perpetua dell’imputato dai pubblici uffici. Nel fissare la pena, il GUP ritenne sussistenti le circostanze aggravanti - dato che la condotta dello Scoppola era stata mossa da futili motivi ed aveva colpito i membri della propria famiglia – mentre escludeva – a causa della gravità del fatto e della personalità dell’imputato – la possibilità di concedere le attenuanti generiche.
Successivamente la corte d’assise d’appello di Roma, a seguito del ricorso avanzato dal procuratore generale e dall’imputato, condannava lo Scoppola all’ergastolo, confermando le conclusioni del GUP in tema di aggravanti ed attenuanti.
In applicazione dell’art. 29 c.p., la condanna del ricorrente all’ergastolo comportava la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, con la conseguente privazione definitiva del diritto di voto. Il 2 aprile 2003, la commissione elettorale competente cancellava il nome del ricorrente dalle liste elettorali. Il 30 giugno 2004, l’interessato presentava ricorso alla commissione elettorale sostenendo che, anche sulla base della sentenza Hirst c. Regno Unito[2], la privazione del diritto di voto fosse incompatibile con l’articolo 3 del Protocollo no 1 alla CEDU. Il ricorso veniva rigettato ed il ricorrente si rivolgeva alla corte d’appello di Roma. I giudici d’appello respingevano nuovamente il ricorso dello Scoppola, sottolineando la differenza tra le norme italiane e quelle inglesi, le quali applicavano siffatta pena ad ogni persona condannata alla reclusione, non effettuando alcuna valutazione sulla proporzionalità dell’interdizione.
Lo Scoppola presentava, infine, ricorso per cassazione. Con sentenza del 17 gennaio 2006, la Suprema Corte respingeva il ricorso del condannato; essa, con un’azione di distinguishing ricordava come nella sentenza Hirst, la Grande Camera avesse notato che la privazione del diritto di voto nel Regno Unito "riguardasse (...) gran parte delle persone incarcerate e qualsiasi tipo di pena detentiva, che andasse da un giorno fino alla reclusione a vita, e di reati che andassero da atti relativamente minori agli atti più gravi". Una previsione, dunque, ben diversa da quella italiana.
Sulla base di tali vicende processuali lo Scoppola presentava ricorso innanzi ai giudici di Strasburgo. Il caso veniva assegnato alla seconda sezione della Corte EDU la quale, all’unanimità, si pronunciava per l’avvenuta violazione della Convenzione. Il Governo italiano chiedeva allora il rinvio della causa innanzi alla Grande Camera.
1.2 I riferimenti normativi
Dopo un’attenta analisi dei fatti, i giudici di Strasburgo, come da prassi consolidata quando la questione giuridica sottopostagli presenta un elevato grado di complessità, passano in rassegna – richiamandoli espressamente nella propria decisione - i riferimenti normativi internazionali inerenti all’oggetto del contendere.
In primo luogo la Grande Camera si sofferma sull’art. 25 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, il quale afferma che: “Ogni cittadino ha il diritto, e deve avere la possibilità, senza alcuna delle discriminazioni menzionate all’articolo 2 e senza restrizioni irragionevoli: […]
- di votare e di essere eletto, nel corso di elezioni periodiche, veritiere, effettuate a suffragio universale ed uguale, ed a voto segreto, che garantiscano la libera espressione della volontà degli elettori;
Al riguardo la stessa Corte ricorda come nell’osservazione generale n. 25/1996 sull’art. 25 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si fosse così espresso: “Nei loro rapporti, gli Stati dovrebbero precisare i motivi di privazione del diritto di voto e spiegarli. Questi motivi dovrebbero essere oggettivi e ragionevoli. Se il fatto di essere stato condannato per un reato è motivo di privazione del diritto di voto, il periodo durante il quale si applica l’interdizione dovrebbe essere rapportato al reato e alla sentenza. Le persone private della loro libertà che non sono state condannate non dovrebbero decadere dal diritto di voto.”
Anche la Convenzione americana sui diritti dell’uomo, all’art. 23 recita: “Tutti cittadini devono godere dei seguenti diritti e opportunità: […]
- di eleggere e di essere eletti nell’ambito di consultazioni periodiche e autentiche, tenute a suffragio universale e uguale, e a scrutinio segreto per garantire la libertà di espressione della volontà degli elettori.
- La legge può regolamentare l’esercizio dei diritti e delle facoltà di cui al precedente paragrafo, esclusivamente per motivi di età, nazionalità, residenza, lingua, istruzione, capacità civile o mentale, o in caso di condanna penale inflitta da un giudice competente”.
Infine, il Codice di buona condotta in materia elettorale, adottato dalla Commissione europea per la democrazia (la c.d. “Commissione di Venezia") nel corso della sua 51a sessione[3], contiene un espresso riferimento alle circostanze in presenza delle quali può esservi privazione del diritto di voto. I passaggi pertinenti sono così formulati: “Possono essere previste forme di restrizione al diritto di elettorato attivo e passivo, ma esse sono sottoposte alle condizioni cumulative seguenti:
- devono essere previste dalla legge;
- devono rispettare il principio di proporzionalità; l’esclusione dalla eleggibilità può essere sottoposta a condizioni meno severe di quelle del diritto di voto;
- devono essere motivate da una interdizione per motivi legati alla infermità mentale o a condanne penali per delitti gravi;
- inoltre, le forme di restrizione dei diritti politici devono essere dichiarate da un tribunale in una decisione specifica”.
Ma i giudici di Strasburgo non si limitano a richiamare le suddette norme di diritto internazionale. Essi, al fine di pervenire ad una statuizione che possa fungere da punto di riferimento per tutti gli Stati membri, espongono nella propria decisione i risultati di un vero e proprio studio comparatistico in materia di diritto al voto, prendendo spunto dalle diverse tradizioni giuridiche dei Paesi firmatari. In particolare, su quarantatre Stati presi in esame, diciannove non applicano alcuna restrizione al diritto di voto dei detenuti[4]; sette Stati prevedono l’automatico venir meno del diritto di voto per tutti i detenuti condannati che scontano una pena detentiva[5]; i restanti sedici[6] formano una categoria intermedia nella quale la privazione del diritto di voto è applicata in funzione del tipo di reato e/o a partire da una certa soglia di gravità della pena privativa della libertà (giudizio fondato sulla durata della pena). La legislazione italiana, in tale materia, si avvicina ai sistemi giuridici di quest’ultimo gruppo.
1.3 Il margine di apprezzamento
Anche alla luce di tali elementi normativi, i giudici di Strasburgo rileggono dunque il contenuto dell’articolo 3 del Protocollo n° 1. Tale articolo sancisce che: “Le Alte Parti contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo”.
Prendendo spunto dalla suddetta norma convenzionale, i giudici di Strasburgo osservano come i diritti tutelati dall’articolo in questione siano cruciali per la creazione ed il consolidamento di uno Stato di diritto, “non a caso in uno Stato democratico la presunzione deve giocare a favore della concessione del diritto di elettorato al maggior numero possibile d’individui, essendo il suffragio universale il principio di riferimento[7]”.
Ciò nonostante i diritti sanciti dall’articolo 3 del Protocollo n° 1 non sono inderogabili e le eventuali limitazioni potranno essere riconosciute quali legittime se rispondenti al principio del margine di apprezzamento. In tal caso spetterà proprio alla Corte vigilare, in ultima istanza, sull’operato degli Stati. Essa sarà infatti chiamata ad accertare che le suddette limitazioni:
- non riducano i diritti in questione al punto di intaccarli nella loro stessa sostanza e di privarli della loro effettività;
- perseguano uno scopo legittimo e che i mezzi impiegati non si rivelino sproporzionati;
- nessuna delle condizioni imposte dovrà ostacolare la libera espressione del popolo sulla scelta del corpo legislativo; ogni deroga al principio del suffragio universale, difatti, rischierebbe di scalzare la validità democratica del corpo legislativo così eletto e, quale conseguenza, delle leggi da esso emanate.
1.4 Il caso Hirst c. Regno Unito.
Come più volte ricordato dallo stesso ricorrente, la Corte, in una precedente sentenza, già aveva affrontato e statuito sul tema della limitazione del diritto di elettorato dei detenuti condannati. Invero, nel caso Hirst c. Regno Unito, la Corte aveva ritenuto che la legislazione britannica, privando ogni detenuto condannato del diritto di elettorato per il periodo della detenzione (art. 3 della legge del 1983), fosse “uno strumento senza sfumature, che spogli[ava] del diritto di elettorato, sancito dalla Convenzione, un gran numero di individui in maniera indifferenziata. […]Essa si applic[ava] automaticamente, indipendentemente dalla durata della pena, dalla natura o gravità del reato commesso e dalla loro situazione personale”.
Per tali motivi, nel suddetto caso, i giudici di Strasburgo concludevano affermando che “una simile restrizione generale, automatica ed indifferenziata di un diritto sancito dalla Convenzione e di importanza fondamentale super[ava] un margine di apprezzamento accettabile, per quanto amp-io, ed [era] incompatibile con l’articolo 3 del Protocollo n. 1”[8].
Orbene, alla luce anche di un siffatto precedente giurisprudenziale, la Corte osserva come si riveli cruciale, ai fini della statuizione nel caso di specie, comprendere se la privazione subita dal ricorrente persegua uno scopo legittimo e se sia proporzionata alla sanzione penale combinatagli.
1.5 Le valutazioni della Corte.
La Corte non manca altresì di soffermarsi sul fatto che l’interdizione perpetua dal diritto di elettorato imposta allo Scoppola non sia stata “sottoposta alla valutazione del giudice[9]” del merito, in quanto di essa non è stata fatta esplicita menzione nelle motivazioni della sentenza di condanna.
Orbene, i Giudici di Strasburgo ricordano come essi abbiano più volte evidenziato che l’applicazione dell’interdizione dal diritto di elettorato, in assenza di una decisione giudiziaria ad hoc, non sia sufficiente da sola a comportare una violazione dell’articolo 3 del Protocollo n° 1. E’ necessario difatti anche che, per le modalità della sua applicazione e per l’ambito giuridico in cui si inserisce, la misura controversa si riveli sproporzionata.
Inoltre, ad avviso della Corte, le disposizioni della legge italiana che definiscono le condizioni per l’applicazione dell’interdizione dal diritto di elettorato dimostrano come il legislatore si sia premurato di modulare l’impiego di tale misura in funzione delle particolarità di ogni causa, tenendo conto della gravità del reato commesso e della condotta del condannato.
Infatti, la misura in questione si applica solo ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, nonché ai reati che il giudice del merito ritenga dover sanzionare con una pena molto severa, tenuto conto dei criteri precisati negli artt. 132 e 133 c.p. e delle circostanze - tanto attenuanti quanto aggravanti – della condotta. Ne consegue che l’interdizione non si applica ad ogni persona condannata ad una pena privativa della libertà, ma solo a quelle condannate ad una pena di durata non inferiore ai tre anni. Il legislatore italiano ha, inoltre, modulato la durata della misura d’interdizione in funzione della pena irrogata e quindi, indirettamente, della gravità del reato.
Nel caso di specie, lo Scoppola era stato condannato per omicidio, tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia e detenzione abusiva di arma da fuoco; delitti gravi, che avevano indotto la corte d’appello di Roma a pronunciare la condanna dell’ergastolo.
Pertanto, la Corte conclude che l’interdizione dal diritto di elettorato quale prevista dal diritto italiano non presenta i caratteri di generalità, automaticità e applicazione indifferenziata che, nella caso Hirst, l’avevano condotta a constatare una violazione dell’articolo 3 del Protocollo n° 1.
In aggiunta la Corte non minimizza la possibilità, offerta dal sistema giuridico italiano al condannato colpito da interdizione, di ottenere il ripristino dei propri diritti. Tre anni dopo l’espiazione della pena, infatti, l’interessato può ottenere la riabilitazione - con la conseguente estinzione delle pene accessorie[10] - a condizione di aver fornito prove effettive e costanti di buona condotta. Inoltre, la durata effettiva della pena della reclusione può essere ridotta per effetto della liberazione anticipata prevista all’art. 54, co. 1, l. n. 354 del 1975, ai sensi del quale ai detenuti che partecipano ad un programma di rieducazione è concessa una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata. La disposizione consente al condannato di presentare una domanda di riabilitazione entro termini più brevi e, eventualmente, di recuperare più rapidamente il diritto di elettorato.
A conclusione di un così ricco ed articolato percorso motivazionale, la Corte europea per la salvaguardia dei diritti del’uomo conclude che, nelle circostanze del caso di specie, non vi è stata violazione dell’articolo 3 del Protocollo.
Conclusioni
Le brevi riflessioni compiute permettono di comprendere come le pene accessorie rivestano, ancor oggi, una particolare importanza nel nostro sistema penale. Siffatte pene, invero, sono accessorie solo per nomenclatura, potendo esse incidere profondamente sulla vita politica, sociale e professionale del loro destinatario.
A causa della loro matrice “totalitaria” – percepibile nell’originario giudizio di disvalore e di biasimo etico sottostante alle privazioni previste – la conversione nel sistema costituzionale delle pene accessorie non è sempre apparsa priva di criticità e di inconvenienti.
Al riguardo, non superfluo si è rivelato l’intervento della Corte europea per la tutela dei diritti dell’uomo la quale, con la decisione Scoppola c. Italia (n. 3), ha fornito utili chiarimenti in materia, ritenendo compatibili le previsioni normative italiane in tema di privazione del diritto di voto con i valori sottesi alla Convenzione.
Parimenti, però, non può non sottolinearsi come il percorso motivazionale dei giudici di Strasburgo prenda le mosse dalle disparità esistenti in materia nei sistemi giuridici dei diversi Paesi aderenti alla Convenzione e trovi il proprio cardine nel principio del margine di apprezzabilità.
Difatti, la Corte non nega che l’art. 28 c.p. - unitamente all’art. 29 c.p. ed all’art. 2 lett. d, D.P.R. 20.3.1967, n. 223 - rappresenti una ingerenza statale nella fruizione di un diritto tutelato dalla CEDU, ma la giustifica proprio richiamando il suddetto principio.
Si è, pertanto, alla presenza di una tutela minima, inscindibilmente legata alla sussistenza dei caratteri di proporzionalità della limitazione e di legittimità del fine perseguito.
[1] Cfr. S. Larizza, Le pene accessorie, CEDAM, Pavia, 1986.
[2] Cfr. Hirst c. Regno Unito (no 2) [GC], no 74025/01, § 77, CEDU 2005-IX.
[3] Cfr. Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 6 novembre 2002
[4] Ovvero Albania, Azerbaijan, Cipro, Croazia, Danimarca, Spagna, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Moldavia, Montenegro, Repubblica ceca, Serbia, Slovenia, Svezia, Svizzera e Ucraina.
[5] Ovvero Armenia, Bulgaria, Estonia, Georgia, Ungheria, Regno Unito e Russia.
[6] Ovvero Germania, Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Francia, Grecia, Lussemburgo, Malta, Monaco, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Slovacchia e Turchia
[7] Cfr. Corte EDU, Scoppola c. Italia (n. 3) [GC], §82.
[8] Cfr. Corte EDU, Hirst (n. 2) [GC], sopra citata, § 82.
[9] Cfr. Corte EDU, Scoppola c. Italia (n. 3) [GC], § 103.
[10] Cfr. artt. 178 e 179 c.p..