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Pubbl. Mer, 11 Mag 2016

La riforma costituzionale e i dubbi dei giuristi

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Mattia De Lillo


Il nuovo disegno di legge di riforma costituzionale AC n. 2613-B è preda di numerosi attacchi da parte di esponenti dell’universo giuridico: cerchiamo di capirne il perché


Qualche giorno fa, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lanciato la campagna a sostegno del SÌ in vista del referendum sulle modifiche costituzionali di Ottobre 2016.
Il nostro portale è già entrato nel merito della riforma dove viene spiegato che cosa cambierà in caso di vittoria del predetto fronte. [1]

Ancora prima di ciò, tuttavia, è partita la campagna antagonista promossa dal “Comitato per il NO nel referendum sulle modifiche della Costituzione”.
La fazione che si schiera contro il “D.D.L. Boschi” vede tra i suoi ranghi alcuni tra i più eminenti giuristi contemporanei e, lo stesso Ministro per le Riforme Costituzionali, ha ammesso che tale fronte è “autorevolmente rappresentato”.

Ma perché questo forte dissenso del mondo del diritto? Perché una riforma che dovrebbe puntare sullo svecchiamento del sistema parlamentare e sulla riduzione delle tempistiche legislative è così fortemente osteggiata dalla dottrina e da molti altri esponenti dell’intelligencija nostrana?

Cerchiamo seraficamente di districarci tra il dibattito odierno che vige su questo argomento.

In primo luogo viene contestata la riforma nel metodo: il legislatore che ha riscritto la carta costituzionale è stato eletto, paradossalmente, con una legge elettorale (detta giornalisticamente “Porcellum”) viziata dalla, ormai celebre, sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale che ha sancito l’illegittimità costituzionale di alcune norme della stessa legge. Tutto ciò ha portato ad una situazione quasi kafkiana dove la nostra grundnorm, per adoperare una terminologia kelseniana, viene modificata da un parlamento con radici incostituzionali.

Ma più del metodo viene contestato il contenuto della riforma:

  • La mancata abolizione del Senato

Quello che doveva essere la punta di diamante delle modifiche costituzionali sembra essere, invece, il punto dolente dato che di fatto non viene superato il bicameralismo tanto criticato dal governo.

Alessandro Pace, costituzionalista e professore universitario, rileva: “Il d.d.l. Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; […]nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.” [3]

Il Senato, dunque, non solo non verrà abolito, ma continuerà ad esistere con l’impossibilità di eleggere direttamente i senatori aprendo diversi rischi di neo-centralismo.

Ne risulterà quindi, per usare le parole del Professor Gaetano Azzariti, un “Senato (co)legislatore, sebbene escluso dal circuito fiduciario, con competenza legislativa non universale […], cionondimeno operante su materie fondamentali”. [4]

  • L’inefficace speditezza del legislatore

Altro proposito che si voleva raggiungere tramite questo D.D.L. era ottenere un circuito legislativo più chiaro e spedito. Sembra, però, che si sia mancato anche questo obiettivo dato che, permanendo il Senato, permane anche una legislazione paritaria tra le camere (per le c.d. leggi bicamerali); nei casi rimanenti, inoltre, il Senato può esprimere un parere non vincolante, anche se la Camera per approvare una legge senza adeguarsi alle modifiche del Senato dovrà in seguito ri-approvarla votandola a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Tale schema sembra, ai più, un inutile appesantimento dell’iter che va a penalizzare proprio la velocità d’approvazione delle leggi che si voleva originariamente ottenere.

  • I procedimenti legislativi

Il testo viene meno anche agli obiettivi di semplificazione prefissati.

Vi sono, certamente, almeno sette differenti procedimenti legislativi: il procedimento bicamerale paritario (art. 70 comma 1), monocamerale con intervento eventuale del Senato (art. 70 comma 2), non paritario rafforzato (art. 70 comma 4), non paritario con esame obbligatorio per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo (artt. 70 comma 5 e 81 comma 4), disegni di legge a “data certa” (art. 72 comma 7), conversione dei decreti legge (art. 77 commi 2 e 3), leggi di revisione costituzionale (art. 138).

Questa diversificazione dei procedimenti, che porterebbe a vasti contenziosi dato che non sono facilmente differenziabili, complicherebbe le questioni di competenza.
Ma non solo; si aprirebbe verosimilmente la strada ad un nuovo tipo di contenzioso di fronte alla Corte Costituzionale: quello attinente ai vizi formali degli atti legislativi.

  • I problemi sulla competenza delle camere

Non si riesce a comprendere la ratio della decisione di affidare le questioni di competenza ai presidenti delle due camere, mantenendo, tuttavia, il silenzio normativo in relazione all’ipotesi di mancato accordo dei due organi.

Tale decisione avrebbe come probabile risultato il moltiplicarsi di contenziosi e di conflitti di competenza con il conseguente intasamento e rallentamento del circuito legislativo.

  • L’indebolimento del check and balance

La novella costituzionale, coadiuvata dalla nuova legge elettorale (già criticata aspramente in più di una occasione dalla Professoressa Lorenza Carlassare [5]),  secondo molti giureconsulti, indebolirebbe il meccanismo di controllo e bilanciamento reciproco dei poteri statali: il partito di maggioranza alla Camera, dato il pesante ridimensionamento del Senato, si troverebbe ad influenzare profondamente sia l’elezione del Capo dello Stato, sia quella dei membri togati del CSM, sia l’elezione dei giudici della Consulta.

Si otterrebbe così una “pericolosa concentrazione di poteri nelle mani di premier e governo” come spiega Antonio Baldassarre, Presidente emerito della Corte Costituzionale, e “verrebbero annullati tutti i poteri di controllo”. [6]

  • Il fallito federalismo

Con l’abolizione della c.d. legislazione concorrente tra Stato e Regioni e con l’introduzione della clausola di “Supremazia statale” (che permetterà allo Stato di intervenire in materie di competenza esclusivamente regionale al fine dell’interesse generale nazionale), riduce il potere regionale a legiferare portando, de facto, l’ordinamento verso un centralismo competitivo piuttosto che verso un federalismo collaborativo, necessario data l’abolizione delle provincie e paventato in principio.

  • La sovranità e la partecipazione sotto scacco

Il testo triplica le firme necessarie per i disegni di legge di iniziativa popolare, portandoli da 50.000 a 150.000 osteggiando così la partecipazione civile al processo di legiferazione.

Sebbene sia vero che alcune materie necessitano di preparazione e di dialogo politico, entrambi fattori che teoricamente dovrebbero essere presenti nel Parlamento, lo strumento della democrazia diretta rimane estremamente prezioso per la partecipazione attiva del popolo (detentore della sovranità, come sancito dall’art. 1 della Costituzione) alla vita politica e legislativa dello Stato.

  • L’eccessivo tecnicismo

Durissimo su questo tema Gustavo Zagrebelsky, giurista di superbo spessore e già Presidente della Corte Costituzionale, che scrive: Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma – innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro -  e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?”. [7]

Per tradizione le Costituzioni sono dotate di dispositivi chiari e (relativamente) semplici, sia per meglio adattarsi a “guidare” la legge ordinaria, sia per poter essere apprezzate e sfruttate anche dal cittadino medio. La Costituzione degli USA è paradigmatica in questo senso.

In tale caso si sembra imboccare la strada opposta utilizzando, nei dispositivi di legge, tecnicismi al limite del pedantesco, ostici anche ai giuristi più navigati.

Insomma, le critiche sono molteplici e sono piovute a dirotto da parte dei giuristi.

Non manca però una corrente che dà un giudizio positivo sulla riforma.
Augusto Barbera, accademico e giudice costituzionale, parla infatti di “Ottimo risultato”, ma anche Francesco Clementi e Cesare Pinelli, rispettivamente professori di Diritto Pubblico e Diritto Costituzionale esprimono un parere soddisfatto. [8]

La maggioranza della dottrina, tuttavia, sembra essere contraria alle modifiche. Di questa, infatti, vi sono illustri esponenti come: Giuseppe Ugo Rescigno, Paolo MaddalenaStefano Rodotà, Luigi Ferrajoli, Giovanni Maria Flick, Valerio Onida, Massimo Villone, Ugo De Siervo, Ferdinando Imposimato, et cetera, che si sono schierati per il NO al referendum di Ottobre. [9]

Il mondo del diritto, sia ben chiaro, non si è mai opposto ad una modifica del testo costituzionale.
Anzi, è evidente che la legge fondamentale abbia bisogno di adeguarsi ed evolversi per restare al passo con i mutamenti storico-sociali dei nostri tempi.

Quello che viene criticato, anche da un’autorevole dottrina [10], è la cultura della “Grande riforma”: la concezione, cioè, di un legislatore che in veste quasi eroica revisiona profondamente la Costituzione in modo da adeguarla all’ordinamento moderno.
Questa volontà (forse più politica che giuridica) cozza con il concetto europeo di “manutenzione della Costituzione” che consiste in piccoli interventi mirati e periodici.

Tale cultura, oltre ad avere il risultato di svilire il processo stabilito dall’art. 138 della Carta, ha l’effetto di neutralizzare il valore del referendum confermativo dato che il corpo elettorale, non avendo i requisiti necessari per giudicare nel merito, viene indotto a votare seguendo logiche partitiche.

Bisognerebbe imparare una buona volta che la modifica della Costituzione dovrebbe essere l’occasione per oliare il motore del nostro ordinamento e non l’occasione, per un governo, di essere annotato sui libri di Storia e di Diritto, dato che non basta solo essere ricordati ma rileva anche come lo si è.
 

Note e Riferimenti bibliografici

[1] E. Aurilia, "Riforma costituzionale: ecco cosa cambia.", su CamminoDiritto.it, ISSN 2421-7123

[2] M. Lanaro, "I timori della Boschi", su Il Fatto Quotidiano

[3] A. Pace, "Le insuperabili criticità della riforma costituzionale Renzi", su Libertà e Giustizia

[4] G. Azzariti, "Annotazioni" durante l'audizione del 30 Luglio 2015 della Commissione I affari costituzionali del Senato della Repubblica nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla revisione della parte II della Costituzione

[5] P. G. Cardone, "Italicum, Carlassare: «Governabilità è artificio per garantire stabilità al potere», su Il Fatto Quotidiano

[6] F. De Paolo, "Riforma Senato, Baldassarri: «E’ un mostro, scopiazzata dai land tedeschi»", su Il Fatto Quotidiano 

[7] G. Zagrebelsky, "Riforme Costituzionali: la posta in gioco", su Libertà e Giustizia

[8] F. Fantozzi, "Riforma del Senato, il sì dei costituzionalisti", su L'Unità.tv

[9] A. Cuzzocrea, "Riforme confuse. Il no di 56 giuristi", su La Repubblica

[10] A. D’Atena “Lezioni di Diritto Costituzionale”, di G. Giappichelli Editore