Pubbl. Dom, 17 Apr 2016
Legittimo il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione lavorativa in un ambiente pericoloso.
Modifica paginaLo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 836 del 19 gennaio 2016, la quale ha statuito che è diritto del lavoratore rifiutarsi temporaneamente di rendere la prestazione lavorativa, eccependo l’inadempimento altrui ed, al contempo, conservando il diritto alla retribuzione.
Sommario: 1. Premessa; 2. Il Caso; 3. Il ragionamento della Corte; 4. Link alla Sentenza.
1. Premessa
Il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., è tenuto ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Cosa succede in caso di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza previsti dall’art. 2087 c.c.?
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 836 del 19 gennaio 2016, ha stabilito che è diritto del lavoratore rifiutarsi temporaneamente di rendere la prestazione lavorativa, eccependo l’inadempimento altrui ed, al contempo, conservando il diritto alla retribuzione, in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.
2. Il Caso.
Con ricorso depositato innanzi al Tribunale di Torino, 14 dipendenti - con mansione di addetti all’assemblaggio delle portiere delle auto - convenivano in giudizio l’azienda al fine di ottenere il rimborso di quanto indebitamente trattenuto a titolo di retribuzione. Nella circostanza, dopo l’ennesima caduta di una portiera, i ricorrenti si erano rifiutati di proseguire il lavoro sino a quando l'azienda non avesse adempiuto agli obblighi in materia di sicurezza. Dopo l’intervento di una squadra di manutenzione, il lavoro proseguiva regolarmente ma l’azienda addebitava ai ricorrenti la retribuzione corrispondente al fermo di un’ora e 45 minuti qualificando il rifiuto della prestazione come sciopero.
Il Tribunale di Torino rigettava il ricorso, ritenendo che la non gravità dell'inadempimento datoriale escludesse l’applicabilità dell'articolo 1460 c.c. (eccezione di inadempimento).
I lavoratori soccombenti impugnavano tale decisione innanzi la Corte di Appello di Torino, che - con sentenza del 18 febbraio 2011 - accoglieva il gravame, condannando la società a pagare le somme trattenute.
La Corte territoriale riteneva "sussistenti tutti i requisiti della fattispecie prevista dall'articolo 1460 c.c., con la conseguente legittimità del rifiuto temporaneo della prestazione" attuato dai lavoratori.
Avverso tale decisione, la società ricorreva per cassazione sulla scorta di 5 motivi:
1. Con il primo motivo, si contestava il riconoscimento ai lavoratori del diritto alla retribuzione sia sotto forma di risarcimento del danno propter moram, sia quale corrispettivo della prestazione non resa;
2. Con il secondo motivo, invece, si contestava l’applicabilità dell’istituto della mora accipiendi con una situazione di ritenuto impedimento della prestazione dovuta;
3. Con il terzo, si evidenzava come la Corte di Appello attribuiva alla società datrice di lavoro un onere probatorio, riferito alla attività formativa, che non le poteva competere in assenza di specifiche allegazioni avversarie sul tema;
4. Con il quarto, si rilevava l’insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio.
5. Infine, con il quinto motivo, si contestava l’applicazione da parte della Corte di Appello dell'articolo 1460 c.c., pur in assenza di un inadempimento rivelatosi soltanto presunto, ovvero a fronte, per ipotesi, di un inadempimento soltanto parziale e non grave agli obblighi derivanti dall'articolo 2087 c.c.
3. Il ragionamento della Corte.
Ai sensi dell’articolo 2087 c.c., “il datore di lavoro è obbligato ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La violazione di tale obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l'inadempimento altrui.
Dunque, per garantire l’effettività della tutela in ambito civile, è riconosciuto al lavoratore il potere di autotutela contrattuale rappresentato dall'eccezione di inadempimento, rifiutando l'esecuzione della prestazione in ambiente pericoloso, privo delle condizioni di sicurezza previste dalla legge e soggetto al controllo del datore di lavoro.
Infatti, nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio comportamento inadempiente con l'inadempimento dell'altra, occorre procedere ad una valutazione comparativa del comportamento dei contraenti anche con riguardo ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle rispettive inadempienze in relazione alla funzione economico-sociale del contratto ed ai diversi obblighi su ciascuna delle parti gravanti.
In sostanza è necessaria la valutazione dell’importanza o meno dell’inadempimento, al fine di stabilire se il rifiuto sia stato legittimo oppure no.
Ciò che rileva, è il requisito della buona fede previsto dall'articolo 1460 c.c., comma 2, in base al quale la proposizione dell'eccezione sussiste quando tale rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l'articolo 1175 c.c., impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite.
Nella fattispecie de quo, il rifiuto della prestazione era scaturito successivamente all'ennesima caduta di una portiera, e ciò avrebbe potuto provocare seri danni all'addetto che ne fosse stato investito.
Ed ancora, il luogo di lavoro era ormai divenuto pericoloso – non solo per il verificarsi del singolo episodio – ma per tanti altri casi di sganciamento totale o parziale delle portiere, già tutti comunicati ai superiori e privi di intervento da parte del datore di lavoro.
Dunque, il rifiuto di rendere temporaneamente la prestazione lavorativa è stato esclusivamente operato per il tempo strettamente necessario per consentire l’intervento della squadra di manutenzione, dopo di che i lavoratori, rassicurati dall'intervento aziendale, avevano ripreso a lavorare.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte ed ampiamente argomentate, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 836 del 19 gennaio 2016, ha rigettato il ricorso della società ricorrente, condannandola al pagamento delle spese processuali, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
4. Ecco la sentenza completa: Link