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Pubbl. Mer, 27 Apr 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

L´accertamento tecnico preventivo obbligatorio

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Emanuele Raiano


L´analisi del procedimento alla luce dei recenti interventi della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione


Sommario: 1. Premessa; 2. La disciplina dell’art. 445-bis; 3. La domanda di a.t.p.; 4. Il procedimento; 5. La conclusione del procedimento: l’omologazione dell’accertamento dello stato di salute; 6. La sentenza costituzionale n. 243 del 2014; 7. Conclusioni.

1. Premessa

L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio, previsto dall’art. 445–bis c.p.c. (introdotto con l’art. 38 del D.L. 98/2011 convertito con la l. 111/2011 e modificato dalla l. 183/2011), negli ultimi anni ha suscitato numerose questioni in dottrina e giurisprudenza, analizzate e non tutte risolte dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 243 del 2014.
Nonostante il giudice delle leggi abbia dichiarate infondate o inammissibili le questioni sollevate dai giudici a quibus, non di poco conto rimangono i dubbi di compatibilità di questo istituto con l’art. 24 della Costituzione.
Nel corso della trattazione si tenterà di delineare la disciplina normativa dell’istituto in maniera critica, rilevando le questioni maggiormente dibattute in dottrina e in giurisprudenza, alla luce delle risposte, solo parzialmente esaustive, date dalla Consulta nel 2014.

2. La disciplina dell’art. 445-bis

Ai sensi del comma 1 dell’art. 445 – bis c.p.c.: “Nelle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ai sensi dell'articolo 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale del circondario in cui risiede l'attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il giudice procede a norma dell'articolo 696-bis codice di procedura civile, in quanto compatibile nonché secondo le previsioni inerenti all'accertamento peritale di cui all'articolo 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, e all'articolo 195”. In tutti i casi previsti dalla norma unico legittimato passivo è l’INPS, rimanendo esclusi tutti i rapporti che rientrano nella competenza dell’INAIL o di altre Amministrazioni.
Le materie per le quali è disposto l’obbligo di attivare preventivamente questo istituto sono riconducibili a due macro-categorie: quella dell’invalidità civile (per il riconoscimento di uno stato invalidante indipendente da  lavoro, avente natura assistenziale), e quella dell’invalidità ordinaria (volta a tutelare i lavoratori che a causa di una disabilità abbiano perso totalmente o parzialmente la capacità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, di natura previdenziale). Tra i requisiti previsti dalla legge per vedersi riconosciute queste prestazioni troviamo non soltanto il requisito c.d. sanitario, ma tanti altri, diversificati a seconda del tipo di diritto che si vuole vedersi riconosciuto. Ad esempio è necessario che l’invalido non superi un certo reddito; che abbia l’età anagrafica specificamente prevista dal legislatore per ogni prestazione; che sia iscritto nelle liste di collocamento obbligatorio ma non sia stato avviato ad un lavoro compatibile con le sue condizioni; etc..
Il legislatore con questo istituto ha voluto favorire la soluzione veloce delle liti, il cui punto controverso sia costituito proprio dal possesso del requisito sanitario, il quale può essere facilmente accertato in sede di consulenza tecnica esperita prima del processo, in modo da consentire alle persone interessate di essere consapevoli sulle reali loro condizioni e quindi sulle reali possibilità di raggiungere il risultato sperato in sede giurisdizionale. In tal modo viene favorita una deflazione automatica delle cause, quando non ci siano effettive possibilità di vedersi riconosciuto il diritto.
Nel momento in cui viene proposta la domanda amministrativa all’INPS per l’ottenimento di una prestazione di invalidità, sia essa civile o ordinaria, il richiedente deve dimostrare di avere tutti i requisiti previsti dalla legge. Se la domanda dovesse essere rigettata per assenza del requisito sanitario, la parte, prima di agire in giudizio, avrà l’onere di attivare la procedura di accertamento tecnico preventivo. Se invece il rigetto della domanda sia dipeso dalla carenza di qualche altro requisito, il ricorso all’a.t.p. non è ammissibile, rappresentando il giudizio ordinario l’unica via attivabile.

3. La domanda di a.t.p.

L’istanza di accertamento tecnico preventivo deve assumere la forma di ricorso e deve essere presentata presso la cancelleria del tribunale competente ex art. 442 c.p.c.. La legge nulla dispone riguardo al contenuto della domanda. Nell’istanza, a pena di inammissibilità, è necessaria l’indicazione del diritto al cui riconoscimento aspira il ricorrente, in quanto una consulenza volta alla sola verifica dello stato sanitario, disancorata dal riconoscimento di uno specifico diritto, sarebbe inutile. L’interesse ad agire in giudizio dovrà palesarsi già nella fase preventiva, in modo da evitare che l’istituto venga utilizzato per dirimere conflitti solo potenziali.
Ci si è chiesti se, per evitare che il ricorso venga dichiarato inammissibile, sia sufficiente l’indicazione del diritto a cui si aspira in sede di a.t.p., oppure sia necessario indicare anche la sussistenza degli altri requisiti. Gran parte della dottrina propende per la prima soluzione  ritenendo che, chiedendo al ricorrente la dimostrazione anche degli altri requisiti, non si tenga conto della ratio dell’istituto, il quale mira esclusivamente alla verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere.
Alla luce della disciplina introdotta con l’art. 445-bis primo comma c.p.c., la proposizione dell’istanza di accertamento tecnico costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale per le materie specificamente indicate. Questa scelta fa dell’accertamento tecnico preventivo una nuova ipotesi di giurisdizione condizionata. Tale condizione di procedibilità non ostacola l’accesso temporaneo alla tutela giurisdizionale visto che, il fatto che l’a.t.p. non sia stato attivato o concluso, potrà essere eccepito dal convenuto a pena di decadenza, o rilevato d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza (art. 445-bis secondo comma c.p.c.). Alla luce di questa disposizione vengono individuati due tipi di sanatoria della mancata integrazione originaria della condizione di procedibilità: la prima quando il procedimento di accertamento tecnico non sia stato proprio attivato; la seconda quando sia stato attivato ma non sia stato concluso. In ogni caso il giudice fissa un termine di quindici giorni entro il quale, nel primo caso, presentare l’istanza di accertamento, nel secondo permetterne il completamento.
La norma non chiarisce quali sono però le sorti del processo nel momento in cui il giudice abbia fissato il termine, ordinando alle parti di dare inizio o concludere l’a.t.p.. Rimane dubbio se il processo debba considerarsi temporaneamente sospeso (come avveniva per la conciliazione prevista nel processo del lavoro), oppure rinviato ad un’udienza successiva (come avviene per la mediazione civile e tributaria). Secondo parte della dottrina questa seconda ipotesi non è percorribile in quanto, a differenza di quanto avviene per la mediazione, la legge non prevede un termine fisso entro il quale il procedimento dovrà concludersi, o comunque spirato il quale possa considerarsi integrata la condizione di procedibilità. Tuttavia anche la prima soluzione comporta non pochi problemi, dato che gli effetti della condizione di procedibilità diverrebbero particolarmente gravosi per le parti che, concluso il procedimento di accertamento, avranno l’onere di riassumere il giudizio pena la sua estinzione.
Alla luce di queste considerazioni, in dottrina e in giurisprudenza si è preferita la soluzione del rinvio, essendo la meno gravosa per le parti.

4. Il procedimento

L’art. 445-bis c.p.c. non disciplina in alcun modo la fase successiva alla presentazione del ricorso di accertamento tecnico preventivo, limitandosi ad operare tre rinvii: a) all’art. 696-bis c.p.c., in quanto compatibile; b) all’art. 195 c.p.c.; c) all’art. 10, comma 6bis D.L. 203/2005.
Con l’art. 696-bis c.p.c. viene richiamata la disposizione che stabilisce che “il giudice procede a norma del terzo comma del medesimo articolo 696”, che a sua volta prevede che “il presidente del tribunale o il giudice di pace provvede nelle forme stabilite negli articoli 694 e 695, in quanto applicabili, nomina il consulente tecnico e fissa la data dell’inizio delle operazioni”. Anche nel procedimento ex art. 445-bis c.p.c. quindi, il giudice competente “fissa, con decreto, l’udienza di comparizione e stabilisce il termine perentorio per la notificazione del decreto” (art. 694 c.p.c.). Successivamente, “assunte, quando occorre, sommarie informazioni, provvede con ordinanza non impugnabile e, se ammette (…)” (art. 695) “nomina il consulente tecnico e fissa la data dell’inizio delle operazioni” (art. 696 c.p.c. com-ma 3). Per la nomina e le indagini del consulente tecnico le norme da prendere come riferimento sono gli artt. 191-197 c.p.c., essendo richiamati direttamente dall’art. 696-bis cit..
Riguardo all’applicabilità dell’art. 195 c.p.c., sebbene non vi sia una clausola di compatibilità come nel caso precedente, è comunque non applicabile al procedimento di accertamento tecnico il terzo comma dell’art. 195 cit., il quale prevede la possibilità per il giudice di assegnare alle parti un termine entro il quale inviare al c.t.u. delle osservazioni sulla relazione finale, e di conseguenza, di fissare quello entro il quale il consulente sarà tenuto a presentare la relazione in risposta alle stesse. La ragione della inapplicabilità di tale norma è da rinvenire nei commi 4 e 5 dell’art. 445-bis, i quali parlano di una mera dichiarazione di dissenso priva di motivazione.
L’ultimo rinvio è quello operato in riferimento all’art. 10 comma 6 bis introdotto dal D.L 30 settembre 2005, n. 203 (convertito con legge n. 248 del 2 dicembre 2005, e modificato dal settimo comma dell’art. 38 D.L. n. 98/2011). Da questo richiamo si può dedurre che nel verbale di giuramento e di affidamento dell’incarico peritale, il giudice debba invitare formalmente il consulente a conformarsi agli adempimenti ed ai termini indicati nella norma speciale al fine di prevenire un vizio di nullità delle operazioni peritali.
Dopo la prima udienza di comparizione le parti non compariranno più avanti al giudice. Il procedimento continuerà con attività che prescindono dal contatto tra le parti, e di esse con il giudice. Quest’ultimo provvederà a fissare fuori udienza il termine perentorio, non superiore a trenta giorni, entro il quale le parti dovranno depositare, se intendano farlo, un atto scritto in cancelleria con il quale contestare le conclusioni formulate dal c.t.u..
Nel caso in cui una parte avrà tempestivamente contestato la relazione peritale dovrà, entro trenta giorni dalla dichiarazione di dissenso, depositare presso il giudice competente il ricorso, specificando a pena di inammissibilità i motivi. In questo caso inizia il giudizio a cognizione piena, il quale avrà ad oggetto non soltanto lo stato di salute della parte, ma la sussistenza di tutti gli elementi della fattispecie. Il processo si svolgerà secondo le regole ordinarie previste per il processo previdenziale dagli artt. 442 e ss. c.p.c.. La sentenza che definisce il giudizio è inappellabile, rimanendo esperibile il solo ricorso per Cassazione ex art. 360 c.p.c..

5. La conclusione del procedimento: l’omologazione dell’accertamento dello stato di salute

Se le parti facciano scadere il termine senza presentare alcuna contestazione, il risultato sarà considerato accettato, non essendo necessario che le stesse manifestino l’accettazione esplicitamente. Entro trenta giorni dalla scadenza del termine per le contestazioni, ove il giudice non ritenga di dover disporre il rinnovo della consulenza, con decreto fuori udienza provvederà ad omologare l’accertamento del requisito sanitario. Questo decreto è, ai sensi dell’art. 445-bis c.p.c., inappellabile ed immodificabile, idoneo a rendere l’accertamento definitivo e non ulteriormente verificabile in un giudizio di merito. Riguardo al potere di omologa del giudice, si ritiene che questo sia diverso da quello previsto in sede di mediazione civile, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 28/2010. Questo prevede che il giudice può omologare l’accordo accettato dalle parti dopo aver effettuato un controllo di legalità e di liceità, volto ad accertare la compatibilità con le norme imperative e con i principi di ordine pubblico. In sede di accertamento tecnico l’oggetto dell’omologa è differente dato che, soggetto al controllo del giudice, non è l’operato delle parti, ma l’attività di un tecnico accettata e non contestata dalle stesse. Tra le varie lacune che l’articolo in disamina presenta, non di poco conto è quella costituita dalla mancanza di qualsiasi riferimento all’efficacia del decreto di omologa. In mancanza, in dottrina si è cercato di individuare una disposizione, ancorché esterna, dalla quale ricavare tale efficacia esecutiva. Una parte della dottrina, ha individuato come norma utile il terzo comma dell’art. 696-bis c.p.c., espressamente richiamato dall’art. 445-bis, il quale dispone il potere del giudice di attribuire efficacia esecutiva al processo verbale. In questo modo, in caso di mancato pagamento da parte dell’INPS, il ricorrente avrebbe la possibilità di agire direttamente nelle forme esecutive al fine di ottenere la prestazione alla quale ha diritto. Questa ricostruzione non tiene conto però della clausola di compatibilità alla quale è condizionata l’applicabilità della norma nel procedimento di specie. È infatti impossibile desumere l’esecutività del decreto dall’art. 696-bis, avendo esso ad oggetto un accordo frutto della conciliazione delle parti e non, come nel caso dell’accertamento tecnico, delle risultanze peritali. Infatti, dato che in sede di accertamento tecnico vi è stata la verifica del solo requisito sanitario e non anche degli altri requisiti richiesti per il riconoscimento della prestazione assistenziale, non si può parlare di diritto pieno, cosicché il decreto omologato non può costituire titolo esecutivo, statuendo solo su uno dei fatti costitutivi del diritto. Il diritto alla prestazione viene in esistenza solo quando l’INPS avrà accertato la sussistenza di tutti gli altri requisiti.

6. La sentenza costituzionale n. 243 del 2014

Il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis c.p.c. per una serie di motivi: a) Rispetto all’art. 24 Cost. in quanto da un lato il giudice in sede di omologa può svolgere un ruolo meramente esecutivo e sussidiario, non partecipando né alla consulenza né potendo entrare nel merito; dall’altro, non avendo il decreto di omologa valore esecutivo ma solamente dichiarativo, il procedimento appesantirebbe inutilmente l’accesso alla giustizia, non producendo alcun effetto deflattivo; b) rispetto all’art. 111 comma 6 Cost, limitandosi il giudice, in sede di omologa, a confermare le risultanze della c.t.u., mancando la motivazione; c) rispetto all’art. 3 Cost., in quanto l’ultimo comma dell’articolo in questione, prevedendo l’inappellabilità della sentenza che decide sul requisito sanitario, crea una discriminazione irragionevole tra questa decisione e quelle che statuiscono sugli altri requisiti richiesti, considerate invece appellabili. Tutte le questioni sono state dichiarate infondate dalla Consulta per molteplici ragioni: in primo luogo è stato rilevato che, essendo previsto a pena di improcedibilità e non di inammissibilità, l’accertamento tecnico non aggrava l’esercizio dell’azione. In secondo luogo, la Corte ha affermato che il giudice, in sede di a.t.p. non sarà chiamato a svolgere un ruolo meramente direttivo/esecutivo, ma in forza dei richiami operati dall’art. 445-bis, avrà tutti i poteri procedimentali previsti. Inoltre, la ragione per la quale il giudice non debba motivare il decreto di omologa è da rinvenirsi nel fatto che le parti, non contestando il risultato della consulenza tecnica, lo hanno implicitamente accettato, rendendo superflua qualsiasi ulteriore spiegazione. Infine, riguardo al valore non esecutivo del decreto di omologa, la Corte ha affermato che è impossibile riconoscere l’efficacia esecutiva di un provvedimento che statuisce solo su una fattispecie caratterizzanti il diritto soggettivo di cui si richiede il riconoscimento.

7. Conclusioni

Nonostante sia intervenuta la Corte Costituzionale sull’istituto, non sono stati chiariti (anzi forse sono stati alimentati) i dubbi riguardo alla vera utilità dell’accertamento tecnico, soprattutto alla luce del valore meramente dichiarativo e non esecutivo del decreto di omologa. In forza di quanto affermato dalla Consulta, non si capisce in cosa debba rivenirsi la portata deflattiva dell’istituto dato che, se l’INPS non dovesse pagare entro 120 gg dalla notifica del decreto di omologa sulle risultanze peritali, per ottenere la prestazione, rimane comunque necessario instaurare un giudizio a cognizione piena per ottenere una sentenza finalmente esecutiva. Dei risvolti positivi sul punto, secondo chi scrive, potrebbero soggiungere grazie ad un intervento legislativo, alla luce anche del nuovo orientamento della Corte di Cassazione. La S.C., per orientare l’accertamento tecnico preventivo al principio generale secondo il quale la tutela giurisdizionale è tutela dei diritti e non di meri fatti, ha affermato che in realtà la domanda di a.t.p. deduce implicitamente in giudizio il diritto alle prestazioni previdenziali. Ciò implica che il giudice dovrà valutare la domanda alla luce di un concreto interesse del ricorrente. A tal fine dovrà preliminarmente controllare che la fattispecie rientri tra i casi previsti dal primo comma dell’art. 445-bis; poi che l’avvio dell’iter amministrativo e la presentazione del ricorso siano avvenuti correttamente; infine dovrà verificare la futura utilità dell’accertamento medico in rapporto alla concessione del beneficio richiesto. Se tali verifiche dovessero dare esito negativo, l’istanza di a.t.p. sarebbe inammissibile. In base a questo nuovo orientamento, anche se non specificamente oggetto di accertamento tecnico, la parte istante dovrà mettere in condizione il Tribunale adito di poter vagliare tutti i requisiti di ammissibilità dell’accertamento, allegando documenti e motivazioni, per dimostrare la sussistenza degli altri requisiti che, insieme con il requisito sanitario, di cui si richiede l’accertamento, danno diritto alla prestazione assistenziale. Alla luce di questi recenti sviluppi, si può ritenere che il decreto di omologa in realtà verrebbe a statuire non solo sul requisito sanitario, ma su tutti i requisiti, la cui sussistenza oggi è richiesta pena l’inammissibilità dell’istanza di a.t.p.. In forza di ciò, sono stati eliminati quegli ostacoli che ancora impedivano un intervento del legislatore che potesse attribuire efficacia esecutiva al decreto di omologa.


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Note e riferimenti bibliografici

[1] Occorre rilevare che nel testo del D.L. prima della conversione in legge si faceva riferimento al “Tribunale del capoluogo di provincia in cui risiede l’attore”. Il legislatore ha rettificato la disposizione normativa in questione alla luce dell’art. 48 quater R.D. n.12 del 30 gennaio 1941, nel quale si dispone che le controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie “devono essere trattate esclusivamente nella sede principale del tribunale”. Siccome non tutti i capoluoghi di provincia sono sedi centrali di tribunali, la norma è stata cambiata. 

[2] Propende per tale interpretazione la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione

[3] Orientamento condiviso anche dalla Corte Costituzionale, sent. 243/2014

[4] Così P.LICCI cit e A.FRABASILE in “L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c.”

[5] Cass., Sez. Lavoro, Pres. F. ROSELLI, Rel P. GHINOY, n. 8533 dei 17.2/27.4.2015; ID. n. 8878 dei 17.2/4.5.2015; Id. n. 8932 dei 17.2/5.5.2015 cit.