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Pubbl. Gio, 24 Mar 2016

Usa Facebook durante l´orario di lavoro: licenziato!

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Graziano Tortora


Ammissibilità dei controlli difensivi occulti del lavoratore diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa


Chi di voi non si è mai intrattenuto a conversare su Facebook durante l'orario di lavoro? attenzione, tale consuetudine potrebbe costarvi il posto..."di lavoro"!

La Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 10955 del 27 Maggio 2015, ha ritenuto ammissibili i controlli difensivi occulti diretti ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa.

Il caso.

Al riguardo, è opportuno esaminare brevemente la vicenda: un dipendente di una tipografia, con qualifica di addetto alle presse stampatrici, veniva licenziato per giusta causa sulla base delle seguenti contestazioni: a) qualche giorno prima era stato sorpreso a conversare al cellulare per più di 15 minuti, lasciando incustodita la pressa stampatrice che finiva per  bloccarsi; b) nello stesso giorno era stato trovato all’interno del suo armadietto aziendale un Ipad accesso e collegato alla rete elettrica; c) nei giorni successivi si era intrattenuto ripetutamente con il suo cellulare a conversare su Facebook.

Nell’occasione, il datore di lavoro - visti i reiterati comportamenti illeciti del dipendente -  aveva creato un falso account Facebook di “una finta donna” e, dopo aver inviato la richiesta di amicizia al lavoratore, si era ripetutamente intrattenuto con lui a conversare durante l’orario lavorativo, per più giorni ed in orari esattamente indicati in cui senza ombra di dubbio il lavoratore si trovasse nel mentre dell’attività lavorativa.

Il ricorrente impugnava tempestivamente il licenziamento e proponeva ricorso ex art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Legge Fornero), innanzi al Tribunale di Lanciano il quale, con sentenza resa in sede di opposizione contro l’ordinanza con la quale era stata rigettata l’impugnativa di licenziamento, accoglieva l’opposizione e condannava parte resistente al risarcimento del danno nella misura di n. 22 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, riconoscendo al lavoratore la sola tutela “attenuata” del risarcimento del danno.

Avverso tale sentenza, veniva proposto reclamo innanzi alla Corte di Appello dell’Aquila, con impugnazione principale da parte del lavoratore e con impugnazione incidentale da parte del datore di lavoro, la quale rigettava il reclamo principale e accoglieva l’impugnazione incidentale, ribaltando la sentenza di primo grado e condannando il lavoratore alla restituzione della somma ricevuta in esecuzione della sentenza reclamata.

Il ragionamento della Suprema Corte.

In linea di principio, l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori vieta espressamente le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.u. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione delle predette apparecchiature, rese necessarie da esigenze tecnico – organizzative, da cui può derivare la possibilità di un controllo.

Il divieto sancito dal suddetto art. 4, opera anche con riferimento ai cd. “controlli difensivi”, ossia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro.

Sul punto, tuttavia, la Corte di Cassazione ha chiarito che: "ove il controllo sia diretto non già a verificare il corretto adempimento della prestazione lavorativa, ma a tutelare beni del patrimonio aziendale e/o ad impedire la perpetrazioni di comportamenti illeciti dei lavoratori, si è fuori dall’applicazione dell’art. 4 della legge  n.300 del 1970".

Ed infatti, nel caso de quo, l’attività investigativa del datore di lavoro riguardava fatti specifici del dipendente, tra l’altro già contestati negli anni 2003 e 2009, e non costituiva violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, bensì era diretta a tutelare l’integrità del patrimonio aziendale ed a punire i reiterati comportamenti illeciti del dipendente (nel caso di specie, il lavoratore - in più occasioni - si intratteneva col cellulare in telefonate ed in conversazioni attraverso l’utilizzo dei social network, provocando disservizi per l'azienda).

La creazione del falso account Facebook, dunque, non costituiva strumento per verificare il corretto adempimento della prestazione lavorativa, bensì era diretta ad impedire la perpetrazioni di comportamenti illeciti operati dal lavoratore.

Secondo gli Ermellini, pertanto, sono ammissibili i controlli difensivi “occulti”, purché siano effettuati con “modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, nonché dei canoni generali di correttezza e buona fede contrattuale“.

Alla luce delle suddette considerazioni, la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 10955 del 27 Maggio 2015, ritenendo legittimo il licenziamento per giusta causa comminato al dipendente che utilizza Facebook durante l’orario lavorativo, ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del giudizio.