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Pubbl. Gio, 10 Mar 2016

Società di fatto tra società di capitali: esistenza e fallibilità.

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Francesco Rizzello


La Corte di Cassazione ha emesso una pronuncia dalla potenziale portata rivoluzionaria per l’ambito societario, sancendo la possibilità di un fenomeno di essenziale importanza: la esistenza di una società di fatto tra due società di capitali e la sua capacità di essere assoggettata al regime fallimentare, nonché l’estensibilità alle società partecipanti di tale fenomeno patologico.


Sommario: 1. Premessa; 2. La sentenza impugnata; 3. Le argomentazioni della Suprema Corte; 4. Considerazioni sulla responsabilità degli amministratori; 5. Fallimento: possibile o no? 6. Conclusioni.

1. Premessa

In data 23 marzo 2012 il Tribunale di Foggia ha dichiarato il fallimento di una società a responsabilità limitata, e, quindi, della società di fatto, riconosciuta insolvente, esistente tra detta società e altre due s.r.l., provvedendo, infine, a dichiarare il fallimento in estensione delle due socie illimitatamente responsabili.

È utile ripercorrere i tratti salienti della c.d. società di fatto.

A tal fine bisogna ricordare come il contratto di società, alla pari di tutti gli altri contratti, può essere concluso sia per mezzo di dichiarazioni espresse, sia tacitamente, tramite il compimento di atti concludenti. Questa possibilità è pertanto priva di qualunque rilievo nelle società di capitali, ove la costituzione può avvenire solo previo il rispetto di stringenti requisiti formali. Specularmente, il fenomeno ha invece grande rilevanza nell'ambito delle società di persone.

Si è dunque in presenza di una società di fatto ogni volta in cui dal comportamento tenuto dai presunti soci risulti che essi abbiano voluto gli elementi essenziali del contratto di società. La giurisprudenza ha ravvisato i seguenti elementi essenziali: formazione con i conferimenti dei soci di un fondo comune; partecipazione dei soci ai guadagni e alle perdite; affectio societatis, definita come l'intenzione dei contraenti di costituire un vincolo di collaborazione allo scopo di conseguire un interesse comune nell'esercizio collettivo di attività imprenditoriale.

Stante le evidenti difficoltà che avrebbero i terzi a dimostrare tale vincolo, si è prevista una scissione dell'onere probatorio, prevedendo un regime differenziato. Nei rapporti interni (cioè nei casi in cui un soggetto pretende che venga riconosciuto un rapporto recante gli elementi sopra esposti nei confronti di un altro soggetto) la prova deve essere completa e deve riguardare anche la sussistenza della affectio societatis. Nei rapporti esterni (cioè i casi in cui un soggetto terzo pretende che sia riconosciuto un rapporto recante le caratteristiche di cui sopra intercorrente tra altri soggetti con i quali lui ha interagito) è sufficiente una prova meno intensa, ossia basta provare che i soggeti si siano comportati come se fossero soci.

La Corte di appello di Bari, con sentenza del 31 dicembre 2012, ha respinto il reclamo, ritenendo che il nuovo testo dell'art. 2361 c.c. e 111-duodecies disp. att. c.c. abbia risolto la questione dell'ammissibilità della partecipazione di società di capitali in società di persone.

Prima di proseguire, è inevitabile un cenno allo sviluppo che si è avuto in materia di ammissibilità di partecipazione di società di capitali in società di persone, in quanto è proprio questo l'ambito che ha visto la propria profonda innovazione con la pronuncia in esame. 

In passato la giurisprudenza era nettamente orientata nel senso di negare la possibilità che una società di capitali partecipasse ad una società di persone in veste di socio illimitatamente responsabile. Attualmente, invece, l'art. 2361 c.c. dispone che "l'assunzione di partecipazioni in altre imprese, anche prevista genericamente nello statuto, non è consentita, se per la misura e per l'oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l'oggetto sociale determinato dallo statuto."
Tale norma sembra legittimare la partecipazione di società per azioni a società di persone. Non vi è impellenza di constatare immediatamente il dato per cui nel caso di specie si tratta di una società a responsabilità limitata e non di una società per azioni.

Più importante è capire le motivazioni che vennero addotte per negare la possibilità della quale si scrive.
Ci si basò, ad esempio, sulla incompatibilità tra le regole della responsabilità illimitata dei soci e la partecipazione di società i cui soci non rispondono delle perdite al di là dell'ammontare del conferimento. Ma anche l'imprenditore individuale risponde illimitatamente per i debiti sorti dall'esercizio dell'impresa, eppure nessuno ha mai messo in dubbio che le società di capitali possano esercitare un'impresa. Poi ci si è basati sulla incompatibilità tra intuitus personae, tratto fortemente caratteristico delle società personali, e partecipazione di una società che si caratterizza invece per l'anonimato e la interscambiabilità del singolo socio. Ma l'intuitus personae è un fatto privato dei soci e se questi sono d'accordo di associarsi con una società di capitali, è assurdo che qualcuno dall'esterno si metta a sindacare, in nome dello stesso intuitus, le loro decisioni.
Gli argomenti più consistenti furono tuttavia tratti dalla stessa disciplina delle società di capitali. Si disse che le società di capitali non potrebbero partecipare a società di persone in veste di soci illimitatamente responsabili perché ciò implicherebbe una soggezione del loro patrimonio alle conseguenze di decisioni assunte nell'ambito di un'altra organizzazione con pericolo di aggiramento delle rigide norme che nelle società di capitali indicano tassativamente chi può assumere decisioni e chi deve risponderne. Ed è qui che si forma il punto di snodo della questione.
Il secondo comma dell'art. 2361 c.c. dispone, infatti, che: "l'assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall'assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio."
La norma sembra riconoscere la gravità della decisione di partecipare come socio illimitatamente responsabile ad una società di persone, e però dispone che la decisione stessa possa essere comunque assunta, sia pure con l'intervento dell'assemblea e con obbligo per gli amministratori di dare specifica notizia nella nota integrativa delle partecipazioni acquisite.

2. La sentenza impugnata

Tuttavia, l'art. 2361 c.c., dettato per la società per azioni, non è estensibile in via analogica alla società a responsabilità limitata; infatti, per la s.r.l. la partecipazione in esame costituisce atto gestorio proprio degli amministratori, qualora non comporti la modificazione dell'oggetto sociale, ai sensi dell'art. 2479, secondo comma, n. 5 c.c.: "In ogni caso sono riservate alla competenza dei soci ... la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale determinato nell'atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci."
Inoltre, ove anche fosse applicabile, la deliberazione nel contesto dell'art. 2361 c.c. mira a rimuovere un limite ai poteri gestori degli amministratori all'unico fine di esonerare gli amministratori da responsabilità sociale, mentre l'assunzione della partecipazione resta valida ed efficace, come in altre fattispecie ove è richiesta la previa deliberazione assembleare (come, ad esempio, nel caso di acquisto di azioni proprie o della controllante); l'indicazione nella nota integrativa è posta a tutela dei soli creditori della società di capitali, avendo i soci altri strumenti a disposizione, di carattere preventivo e sanzionatorio.

La sottrazione al fallimento, invece, costituirebbe un privilegio ingiustificato discendente da un'omissione, e non sarebbe ragionevole, nel bilanciamento d'interessi dei creditori della società di capitali e di quelli della società di fatto che sulla unicità del centro d'imputazione hanno fatto affidamento, preferire i primi, posto che la deliberazione autorizzativa non è soggetta a pubblicità (così come non ricevono alcuna tutela i creditori del socio occulto di società palese),
Ne deriva che, nel caso di fallimento della società di persone nella quale la società di capitali abbia assunto una partecipazione, si debba dichiarare anche il fallimento della società di capitali.
Nel caso di specie, è stato dichiarato non il fallimento per estensione da una società di capitali all'altra, ma si è individuata l'esistenza e poi la situazione di insolvenza della società di persone (di fatto) per prima e da lì si è avuta la dichiarazione di fallimento di ciascun socio della società di persone, in virtù della previsione normativa contenuta all'art. 147, primo comma, della legge fallimentare.

3. Le argomentazioni della Suprema Corte

Il motivo di impugnazione proposto dai ricorrenti è la violazione o falsa applicazione degli artt. 2361, 2384, 2479 c.c. e dell'art. 147 L.F.

In sostanza, sarebbe inammissibile la partecipazione di una s.r.l. in una società di persone in quanto ciò comporterebbe l'assunzione di una responsabilità illimitata, e la materia sarebbe riservata alla competenza dei soci, in virtù della disposizione dell'art. 2479 c.c. La norma sarebbe posta sia a tutela dei soci stessi sia a tutela dei creditori della società; infatti, entrambi i soggetti vedrebbero la società assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile, pur in assenza di una situazione di insolvenza, come avviene per il fallimento per estensione ai sensi del quarto comma dell'art. 147 della legge fallimentare.
Quindi, il motivo formulato pone la complessa questione della fallibilità di una società di capitali che si accerti essere socia di una società di fatto insolvente, quando la decisione di assumere la partecipazione è stata presa in mancanza di una deliberazione in tal senso e quando è assente nella nota integrativa al bilancio alcun riferimento a tale situazione partecipativa.

Ci si chiede anzitutto se sia ammissibile la partecipazione di una società di capitali ad una società di persone.

Tale questione è unanimamente reputata risolta in senso affermativo alla luce della riforma delle società di capitali operata nel 2003. Gli artt. 2361 c.c. e 111-duodecies disp. att. c.c. ("qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili, di cui all'art. 2361, comma secondo, del codice, siano società per azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata, le società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per le società per azioni ...") non lasciano dubbi a riguardo.

Occorre, poi, stabilire quale sia il contenuto precettivo dell'art. 2361, secondo comma, c.c. in ordine alle prescrizioni, ivi contenute, sulla previa deliberazione assembleare e sulla indicazione della partecipazione nella nota integrativa al bilancio, ed agli effetti dell'inottemperanza.

Ciò che importa rilevare in primis è il dato per cui il legislatore della riforma (quello che ha scritto il secondo comma della norma in questione; il primo comma è preesistente alla riforma delle società di capitali) non ha posto alcun divieto, ma si è limitato a prevedere due adempimenti formali: la deliberazione assembleare e la formalizzazione di tale partecipazione all'interno della nota integrativa al bilancio.
La Corte argomenta seguendo il seguente ragionamento: se gli amministratori di una società, senza chiamare i soci a decidere, acquisiscono una partecipazione o svolgono attività di impresa con altri soggetti, e omettono di renderne conto nella nota integrativa, l'assunzione di responsabilità e l'attività svolta interagendo con i soggetti imprenditori sarà senz'altro valida ed efficace, formale o sostanziale che sia. Nessuna norma sancisce infatti il divieto di assumere la partecipazione in una società che preveda la responsabilità illimitata della società azionaria, esistendo, al contrario, una norma di permesso.
Inoltre, si può argomentare in favore della liceità del comportamento degli amministratori guardando all'art. 1418 c.c., che dispone in materia di cause di nullità del contratto. Palesemente il comportamento degli amministratori non rientra nelle ipotesi disciplinate dai commi primo e secondo, quindi non manca che guardare al comma terzo, il quale dispone che "il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge", senza farvi rientrare la fattispecie in questione.

Per definire con maggior chiarezza la portata precettiva dell'art. 2361, secondo comma, c.c., è necessario leggere l'art. 2384 c.c. Al primo comma la norma dispone che "il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale". L'accento è sulla parola "generale". Il secondo comma fornisce il criterio risolutorio della questione per quanto riguarda la rilevanza esterna della concordia tra amministratori e soci: "le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società".
Inoltre, l'art. 2380-bis è chiaro nello stabilire che "la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale".

Le disposizioni sono importanti da un lato perché rimarcano il dato per cui agli amministratori spetta l'attuazione, attraverso il compimento delle operazioni necessarie, dell'oggetto sociale; dall'altro perché lasciano più che intuire che perché ciò possa avvenire, gli amministratori sono in grado (e devono) impegnare la società anche all'esterno.
È opportuno ricordare che tutto ciò costituisce la speciale disciplina dettata in materia societaria in deroga a quella di diritto comune contenuta all'art. 1398 c.c. ('colui che ha contrattato come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto').

Tutto quanto discende ovviamente da disposizioni comunitarie, le quali non possono essere elencate né analizzate in questa sede, e dal favore generale della riforma per la tutela del mercato, la stabilità dell'agire societario e la certezza dei traffici, nell'intento di incentivare il reperimento di capitale di rischio e di credito verso gli organismi societari.
Si ricordi pure come, secondo l'intepretazione estensiva dell'art. 2384 c.c. già espressa della Corte nel testo previgente (Cass. 7 febbraio 2000, n. 1325) e ribadita dopo la riforma (Cass. 4 settembre 2007, n. 18574; 26 gennaio 2006, n. 1525), la norma va applicata anche alle ipotesi di dissociazione del potere rappresentativo dal potere di gestione: anche l'eventuale rilevanza esterna di tale dissociazione, così come le limitazioni al potere rappresentativo derivanti dallo statuto, si porrebbe in contrasto con la finalità perseguita dal legislatore, 'minando alla base ogni possibilità di garantire ai terzi la necessaria sicurezza in ordine alla validità degli atti compiuti dall'organo che ha formalmente la rappresentanza della società' (così Cass. n. 18574 del 2007, cit.).
In tal modo 'il rischio  delle violazioni commesse dagli amministratori, mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti, è stato trasferito sulla società, offrendo ai terzi la sicurezza che essa avrebbe fatto fronte agli atti posti in essere, nel suo nome, dagli amministratori, anche se in violazione dei limiti', principio 'che ... lungi dal penalizzare le società, consente una più intensa valorizzazione delle loro potenzialità eliminando una possibile remora alla instaurazione di rapporti con esse'.

Di essenziale importanza è sottolineare che la disposizione dell'art. 2364, primo comma, n.5 c.c. non implica il trasferimento dei poteri gestori in capo all'assemblea, né la valenza invalidante, o condizionante l'efficacia, dell'autorizzazione assembleare, la cui mancanza si riflette unicamente nei rapporti interni. Il socio meramente concorre alla formazione di una scelta gestoria, la quale rimane pur sempre dell'organo amministrativo. In tale ottica, la pronuncia assembleare lascia in capo agli amministratori il potere-dovere di valutare essi stessi l'operazione e la sua conformità all'interesse sociale.

Esaminiamo ora la ragionevolezza della tutela del terzo.

Il soggetto che entra in contatto con la società personale partecipata da una società di capitali non ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non è prevista l'iscrizione ex art. 2193 c.c. e 2436 c.c. Dunque, il terzo sa solo, in caso di società registrata, che la controparte società personale è partecipata da una società di capitali, dato che potrà risultare dal registro delle imprese, ai sensi dell'art. 2300 c.c.; ove si tratti di mera società irregolare o di fatto, il rerzo sa ciò che vede, ossia l'esistenza del rapporto di svolgimento in comune di attività economica, in ipotesi, tra persone fisiche e giuridiche.
La omessa indicazione, inoltre, nella nota integrativa, quantanche espressamente richiesta dal legislatore, non può essere, per i terzi, decisiva o suppletiva di un'apposita pubblicità legale della deliberazione autorizzativa: perché dall'omessa iscrizione o pubblicità di un evento non può trarsi la prova della sua inesistenza, ben potendo comunque sussistere la deliberazione assembleare, pur in assenza degli adempimenti contabili.
Neanche si potrebbe mai riversare sul terzo l'onere di esigere chiarimenti anche documentali circa l'esistenza della deliberazione assembleare di cui all'art. 2361, comma secondo, c.c., dal cui inadempimento far derivare allora l'insussistenza della responsabilità della società di capitali.

Vi è tutela della quota di patrimonio conferita nella società personale?
La risposta è senza dubbio affermativa. La tutela va ricercata nelle norme che regolano la società di persone: potere di veto nell'amministrazione disgiuntiva (art. 2257 c.c.); revoca dell'amministratore (art. 2259 c.c.); esclusione del socio inadempiente (art. 2286 c.c.); obbligo di rendiconto (art. 2261 c.c.).
 

4. Considerazioni sulla responsabilità degli amministratori

Non sarebbe in alcun modo giustificabile ammettere che la società di capitali che partecipa in una società personale di fatto possa in seguito sottrarsi alle relative conseguenze proprio in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori. Se tale condotta di inadempimento è tale da giustificare i rimedi che l'ordinamento rispetto a ciò predispone, quali le azioni di responsabilità, la revoca, la denunzia al tribunale, non rende però invalido l'atto compiuto o inefficace l'attività impreditoriale di fatto svolta. Al potere di scegliere liberamente il soggetto che riveste la carica di amministratore si accompagna una responsabilità ed una accettazione delle conseguenze di tale scelta in capo alla società che ha nominato l'amministratore.
Molti hanno inoltre, giustamente, osservato che sarebbe fin troppo semplice per gli amministratori aggirare le norme sulla responsabilità patrimoniale e quelle a ciò collegate, invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, acquisire gli effetti favorevoli di quella partecipazione.
A sostegno della posizione di fondo per cui, indipendentemente dalla volontà dei soci, sia stata compiuta attività con conseguenze obbligatoria verso l'esterno, vi è il regime al quale si sottopone la impresa illecita, la quale, anche se illecità, è pur sempre impresa: e ciò perché se così non fosse non sarebbero applicabili tutta una serie di conseguenze sfavorevoli, come ad esempio il fallimento, e si favorirebbe in tal modo il fenomeno illecito anziché combatterlo.
Quindi non si vede perché si dovrebbe derogare al c.d. principio d'effettività nella fattispecie in esame.

5. Fallimento: possibile o no?

L'efficace assunzione della partecipazione ne comporta tutte le implicazioni, compreso il possibile fallimento della società di fatto e dei suoi soci illimitatamente responsabili (quindi, comprese le società di capitali che vi partecipino).
Accertata l'esistenza di una società di fatto e la sua insolvenza, i soci possono essere dichiarati falliti in estensione, ai sensi dell'art. 147, primo comma, l.f.: 'La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili'.
Si tratta di fallimento ex lege; l'insolvenza della società di fatto va accertata, come anche la sua esistenza. Quindi il fallimento dei soci illimitatamente responsabili non richiede l'accertamento diretto anche della loro insolvenza, ma unicamente della loro qualità di soci.

6. Conclusione

La Corte enuncia il seguente principio di diritto: la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, secondo comma, c.c., dettato per la società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede - almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale, fattispecie peraltro estranea al caso di specie - la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, secondo comma, n. 5 c.c.


Riferimenti bibliografici

P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, 'Appunti di diritto commerciale', VII ed, 2010 Milano, pp. 119-123