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Pubbl. Lun, 29 Feb 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

La natura monoffensiva o plurioffensiva dell’abuso d’ufficio ed i riverberi processuali in tema di opposizione al decreto di archiviazione.

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Aldo Cimmino


Nota a Cass. Pen. Sez. VI, Sent. 22 gennaio 2016, n. 3047 – Agrò, Presidente – Scalia, Relatore – P.G. (Policastro)


Sommario: 1. Premessa: Il prestigio della P.A. nella prospettiva tra Stato apparato e Stato comunità – 2.1 (segue) la questione del bene giuridico tutelato – 3. Le recenti riforme in tema di delitti contro la pubblica amministrazione – 3.1 In particolare il delitto ex art. 323 c.p. – 4. Sulla natura monoffensiva o plurioffensiva del delitto di abuso d’ufficio.

1. Premessa: Il prestigio della P.A. nella prospettiva tra Stato apparato e Stato comunità

Con la sentenza in epigrafe i giudice di legittimità si sono occupati della natura monoffensiva o plurioffensiva del delitto di abuso d’ufficio.

I giudici della VI Sezione della Corte di Cassazione, infatti, ricostruendo l’elemento oggettivo del delitto ex art. 323 c.p. giungono ad operare una distinzione tra l’ipotesi di vantaggio e quella di danno.

Ma per meglio comprendere quale sia stato il contesto storico e politico entro il quale il delitto di abuso d’ufficio si è venuto a maturare e ad ottenere l’attuale formulazione, giova ripercorre le tappe attraverso le quali si è snodata la complessa riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione e, quindi, del delitto di abuso d’ufficio

Quest’ultimo, da un’originaria e fumosa disposizione, è divenuto l’oggetto di una formulazione certamente più coerente con i principi del diritto penale, quanto a tassatività e determinatezza, tanto da indurre la Suprema Corte a ravvisare due diverse ipotesi di reato.

Preliminare è l’identificazione del bene giuridico tutelato dal complesso di disposizioni che costituiscono lo statuto penale della funzione pubblica.

Com’è noto, i delitti contro la pubblica amministrazione, secondo un’ampia ricostruzione dottrinaria e giurisprudenziale, mirano a tutelare una molteplicità di interessi, sfumature particolari di un unico bene giuridico costituzionalmente tutelato all’art. 97 Cost.

Non manca chi ha ritenuto di dover discorrere di prestigio della Pubblica amministrazione.

Ma sul concetto giuridico di quest’ultimo va fatta qualche considerazione, in relazione alla sua evoluzione storica, nella proiezione costituzionale del concetto di Stato-comunità.

Tradizionalmente ancorato alla visione totalitaristica del Codice Rocco, il concetto di prestigio della P.A. può oggi trovare cittadinanza nell’Ordinamento giuridico, solo in quanto orientato al precetto costituzionale ex art. 97 Cost.[1]

Dalla concezione di un valore meramente esteriore dello Stato-apparato, in una prospettiva di difesa sociale, melius di difesa delle istituzioni quali “torri d’avorio”, a quella di un valore “sostanziale” di prestigio, in una visione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, che impone la ricostruzione di una dimensione solidaristica dell’economia e del comparto dei diritti civili.

Il prestigio della P.A. è innanzitutto attuazione dei diritti fondamentali propri dello Stato sociale di diritto.

Dunque la P.A. non è solo partner economico dei privati investitori[2], ma è soprattutto chiamata all’attuazione dei principi costituzionali consacrati nella formula “imparzialità e buon andamento”.

Quest’ultima non identifica (in via esclusiva) l’endiadi bene-valore del libero mercato e della concorrenza.

Piuttosto si tratta di evidenziare i collegamenti sistemici tra l’art. 97 Cost. e l’art. 3 Cost. Il prestigio allora è “sostanziale” nel senso che si collega direttamente ai parametri costituzionali del diritto al lavoro, del diritto all’educazione e alla istruzione, del diritto all’assistenza sanitaria, in uno nel diritto alla libertà fisica e sociale; in altre parole si collega necessariamente al precipuo compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umano e la partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Limitare il prestigio della P.A. a mera garanzia del valore economico dell’azione amministrativa (nell’ambito cioè delle transazioni economico-finanziarie) significa anche condizionare il legislatore delle norme penali, non cogliendo la sostanziale differenze tra attività delittuose contro il patrimonio (tanto privato quanto pubblico) e condotte che offendono l’attività amministrativa, anzitutto quale criterio di organizzazione dei pubblici uffici secondo, appunto, il buon andamento e l’imparzialità della stessa.

Non è un caso infatti che la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 4 novembre 2011, stabilisca che ciascuno Stato membro adotti le misure necessarie che assicurino al cittadino il mezzo per ottenere non solo integrale riparazione del pregiudizio subito da un atto di corruzione, ma anche il relativo danno extrapatrimoniale.

Sul punto la Corte dei Conti ha contribuito alla definizione dei confini del concetto di prestigio della P.A. allorquando ha identificato il suo contenuto minimo.

In effetti i Giudici contabili hanno sottolineato che la lesione deriverebbe in primis dal danno di beni immateriali, quali, ad esempio, l’immagine della P.A., in secundis da quello incidente sulla capacità della stessa a realizzare i fini suoi propri stabiliti dalla Costituzione[3].

Ne consegue che la risarcibilità del danno non deriva tanto dall’eclatanza di fatti corruttivi[4], quanto dal pregiudizio derivante all’effettiva realizzabilità dei fini costituzionalmente attribuiti alla P.A., quanto meno in via mediata.

Il prestigio della P.A., allora, è null’altro che il perseguimento dei principi generali dell’azione amministrativa, così solennemente individuati dalla legge del ’90.[5]

E non potrebbe essere altrimenti in uno Stato che vuole definirsi “sociale di diritto” e che ha imparato a “costituzionalizzare” la ratio dei beni meritevoli di tutela giuridica (penale).[6]

E ciò rileva sia sul versante della responsabilità civile che su quello della responsabilità penale.

2.1 (segue) La questione del bene giuridico tutelato

Evidente è il corollario di tale assunto. Se dunque il prestigio della P.A. è attuazione dei principi fondamentali di rango costituzionale, allora si pone l’interrogativo se è da considerarsi esso stesso bene giuridico immediatamente tutelabile ovvero ratio di tutela.

Premessa l’identificazione sostanziale, nell’odierna visione costituzionale, tra prestigio e buon andamento ed imparzialità della P.A.[7] ci si pone il problema della identificazione del contenuto minimo del criterio individuato dal già richiamato art. 97 Cost.

In altre parole si pone la questione dell’individuazione del bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici contenute nel Libro II, Titolo II c.p.

Vero è che l’Ordinamento giuridico italiano ha inteso riferirsi ad un concetto ampio di pubblica amministrazione, comprendente anche le funzioni legislativa e giudiziaria[8], tuttavia il riferimento ai principi fondamentali, quali il buon andamento e l’imparzialità della P.A., è forse inadeguato ad indicare direttamente il bene giuridico meritevole di tutela da parte dell’Ordinamento.

A ben vedere, infatti, i concetti di buon andamento e di imparzialità della P.A. si riferiscono a principi generali in riferimento sia ad un’azione amministrativa equidistante dagli interessi politici e di gruppi di pressione, tanto pubblici quanto privati, sia ad un’azione amministrativa ben organizzata, in quanto ispirata al principio del buon andamento.

Tale ultima criterio si riferisce all’amministrazione pubblica non in quanto svolga attività istituzionale, bensì in quanto svolga attività di organizzazione di se stessa.[9]

Se così stanno le cose, allora, è necessario domandarsi se il buon andamento e l’imparzialità della P.A. rappresentino l’endiadi valore-bene giuridico da tutelare ovvero una ratio di tutela di determinati beni giuridici.

Del resto non tutti i tentativi definitori della dottrina hanno contribuito a chiarire la dimensione concreta dell’oggetto di tutela penale nei reati contro la funzione amministrativa.

Già precedentemente si faceva riferimento al “regolare funzionamento, nonché il prestigio degli enti pubblici” o ancora l’interesse statale alla probità, riservatezza, imparzialità, fedeltà etc… dei funzionari pubblici.[10]

V’è chi[11] però, contrariamente, ha proprio sottolineato,  in una prospettiva de jure condendo per una riforma dei delitti contro la p.a., la necessità di una concretizzazione del bene giuridico mediante il progressivo abbandono di una definizione meramente pubblicistica, astratta, dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici contenute nel Libro II, Titolo II c.p.

Abbandonando per un istante, ora, il versante del bene giuridico nei delitti contro la P.A. e recuperando un argomento di carattere generale, è possibile affermare che sul punto autorevole dottrina non transige: non vi può essere identificazione tra scopo della norma e bene giuridico meritevole di tutela.

Contrariamente, l’immediata conseguenza di tale impostazione sarebbe il proliferare di fattispecie penali prive di oggetto giuridico e di conseguenza inadeguate a svolgere la tipica loro duplice funzione: da un lato la protezione di interessi collettivi, dall’altra la funzione di limite alla potestà punitiva dello Stato.[12]

Tale impostazione discende naturalmente dalla prospettiva del reato quale illecito di modalità e di lesione, costringendo il legislatore (ma a questo punto soprattutto l’interprete) a considerare penalmente rilevante non tanto la condotta alla quale viene “elargita oggettività giuridica” – fino a giungere alla messa in liquidazione della oggettività stessa – piuttosto quella oggettivamente lesiva di interessi direttamente tutelabili e non vagamente individuati. [13]

3. Le recenti riforme in tema di delitti contro la pubblica amministrazione

Il Legislatore, tuttavia, è lontano dal dare risposte a questo tipo di questioni, che sembrano essere  “relegate” alla dottrina.

Le recenti riforme, in tema di delitti contro la pubblica amministrazione, hanno comportato modifiche di norme sostanziali ed amministrative che ridisegnano i confini del sistema di tutela della funzione – melius del complesso di attività – mirante alla cura concreta degli interessi collettivi.

In effetti la legge cosiddetta anticorruzione, evidenzia ancora una volta l’anomalia, ormai congenita, di un Legislatore “asservito” all’oracolo del simbolismo penale.

Assistiamo inerti alla frenetica produzione di norme penali la cui precipua funzione è, nei fatti, quella repressiva, peraltro lontana dalle istanze costituzionali che dovrebbero orientare il diritto penale, quale extrema ratio, per il soddisfacimento delle esigenze politiche, sociali ed economiche.

Ed infatti le norme penali siffatte, che perdono la loro principale funzione di garanzia, si ammassano, come lettera morta sui fenomeni sociali che professano di contrastare, null’altro facendo se non aumentando la criticità degli stessi.

Non manca chi[14], infatti, ha rammentato l’attualità dell’accusa, già mossa nei confronti dei tentativi di riforma degli anni ’90, e cioè di aver operato sulla base di norme emergenziali, senza una visione di sistematicità organica, e senza la propensione alla concreta formulazione di un diritto penale teleologicamente orientato all’attuazione dei principi costituzionali.

Tuttavia con la legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” l'Italia ha dato ulteriormente seguito agli impegni internazionali assunti con la “Convenzione penale sulla corruzione”, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, già ratificata con legge 28 giugno 2012, n. 110 e con la Convenzione di Merida, adottata dalla Assemblea generale dell'O.N.U. il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, già ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116.

Le novità introdotte dalla legge 190/2012 sono significative, ma come precedentemente rilevato, si fermano al campo del diritto penale.

3.1 In particolare il delitto ex art. 323 c.p.

Ed è stato così anche per il delitto di abuso d’ufficio. Il riformatore del 2012, infatti, si è limitato ad un restiling punitivo della disposizione contenuta nell’art. 323 c.p.

Così, la previsione della reclusione da sei mesi a tre anni è stata modificata, dal legislatore del 2012, in quella attuale della reclusione de uno a quattro anni[15], vanificando, in tal modo, quanto si era tentato di fare, con le modifiche apportate dal legislatore nel ’97, in tema di custodia cautelare in carcere.

L’abbassamento del massimo edittale, infatti, non consentiva l’applicazione, in fase cautelare, della misura custodiale, sicché, anche attraverso tale accorgimento, il legislatore mirava ad evitare indebite incursioni del giudice penale nell’ambito della discrezionalità amministrativa.

Al contrario, l’essenza del delitto di abuso d’ufficio è rimasta sostanzialmente invariata, da quando il legislatore del 1990 fece del delitto di abuso di ufficio la figura criminosa-cardine del sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione[16].

È appena il caso di sottolineare, infatti, che precedentemente alla riforma del ’90, il codice Rocco prevedeva la figura dell’abuso innominato d’ufficio.

Quest’ultima svolgeva una funzione incriminatrice sussidiaria e residuale, allorquando il fatto di reato non fosse stato tale da integrare disposizioni codicistiche maggiormente specifiche.

La sostanziale genericità dell’abuso d’ufficio previgente che, a parere della dottrina appariva essere una pericolosa chiave, in grado di consentire al giudice penale l’ingresso, comunque vietato dall’ordinamento giuridico, in settori riservati alla discrezionalità della pubblica amministrazione, indusse il legislatore a smussare quella stessa chiave che avrebbe potuto dischiudere al giudice la porta della discrezionalità amministrativa.

In altri termini, il legislatore, con la legge 86/1990, descrive con maggiore chiarezza e precisione, o almeno tenta di farlo, la condotta criminosa ex art. 323 c.p.[17]

Tuttavia, nonostante l’impegno legislativo, all’alba degli anni ’90, la riforma non produsse gli effetti sperati, ed anzi nella prassi applicativa, risultò essere un formidabile grimaldello in grado, addirittura, di inibire preventivamente il funzionamento della pubblica amministrazione.[18]

Si rese così necessario un ulteriore intervento riformatore, ispirato sì alle medesime ragioni politico-criminali che avevano mosso il legislatore sette anni prima, ma questa volta con l’obiettivo di rendere il delitto di abuso d’ufficio una fattispecie costituzionalmente orientata.

Rispettosa, cioè, di quei canoni costituzionali che, se da un lato impongono alla pubblica amministrazione una organizzazione ispirata a principi di buon andamento ed imparzialità, con conseguente sindacato del giudice penale, quando l’agire della p.a. – esorbitando i limiti ordinamentali – violi determinati beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici, dall’altro è precluso al giudice penale, un vaglio così intenso, dell’agire della p.a., tanto da sfociare nella violazione del principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato.

Il sindacato penale, così, non poteva, e non può, tramutarsi in sindacato di merito sulle scelte della p.a., che, in verità, ed in linea di principio, è addirittura precluso anche al giudice amministrativo.

Ed ecco che il riformatore dei primi anni ’90 interviene specificamente sull’abuso d’ufficio, prospettando una fattispecie maggiormente rispettosa sia dell’equilibrio costituzionale tra poteri, oltreché del generale principio penalistico della precisione e tassatività della fattispecie penale, seppure con rilievi critici che la dottrina non mancò di rilevare.[19]

Con l’introduzione, nel nostro ordinamento, della legge 234/1997, il novellatore, infatti, opera una vera e propria ristrutturazione dell’illecito penale dell’abusivo esercizio del potere amministrativo, tornando a definire le modalità di lesioni al bene giuridico tutelato.

Così dalla fumosa ed indefinita descrizione dell’elemento oggettivo della fattispecie d’abuso, voluta dal primo legislatore, si è passati ad una maggiore chiarezza descrittiva delle condotte incriminatrici.

4. Sulla natura monoffensiva o plurioffensiva del delitto di abuso d’ufficio.

Le norme approvate alla fine degli anni ’90, infatti, hanno operato – come anticipato – una sostanziale distinzione tra condotte volte al perseguimento di un vantaggio ingiusto e quelle finalizzate alla realizzazione di un ingiusto danno.

Sul punto, e tornando più specificatamente alla sentenza in commento, la giurisprudenza più recente ha operato una riflessione sostanzialistica, particolarmente pregnante, che ha i suoi risvolti sul piano processuale.

Chiamato a decidere sul ricorso avverso il decreto del G.i.p. di Trani, che dichiarava inammissibile l’opposizione della persona offesa dal reato avverso la richiesta di archiviazione avanzata dal P.m. procedente, il giudice di legittimità conclude per la sostanziale inammissibilità del ricorso sulla base di considerazioni di natura sostanziale.

A ben vedere, i giudici di Piazza Cavour operano una distinzione tra le diverse condotte contemplate dall’art. 323 comma 1 c.p.

Se è vero – affermano gli Ermellini – che il delitto di abuso d’ufficio è diretto alla realizzazioni di condotte finalizzate o al perseguimento di un vantaggio ingiusto, ovvero ad arrecare ad altri un ingiusto danno, è del tutto evidente che tale impostazione normativa non può che incidere anche sull’identificazione dei beni giuridici eventualmente lesi dalla condotta criminosa.

Così, l’arresto pretorio in commento, distingue tra condotte plurioffensive e monoffensive.  Si ha condotta plurioffensiva allorquando il delitto di abuso d’ufficio sia finalizzato ad arrecare un danno ingiusto, in grado di ledere non solo l’interesse pubblicistico – identificabile nel buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, così come precisato dall’art. 97 Cost. – ma, è idoneo, inoltre, a pregiudicare l’interesse privatistico del singolo cittadino, che  non deve essere turbato nel godimento dei propri diritti da un comportamento illegittimo della amministrazione pubblica.

Al contrario, si ha condotta monoffensiva – a parere della giurisprudenza della Suprema Corte – nella diversa ipotesi in cui il reato di abuso di ufficio sia finalizzato al perseguimento di un ingiusto vantaggio.

La distinzione, secondo i giudici della VI Sezione, non è priva di rilievo giuridico in quanto, non solo comporta la necessità di distinguere all’interno di una medesima fattispecie di reato la diversità dell’elemento oggettivo, a secondo delle ipotesi prospettate, ma oltretutto comporta una diversa qualificazione, sul piano processuale, del soggetto che subisce il pregiudizio.

Mentre infatti, il delitto di abuso d’ufficio che sia perpetrato mediante la condotta danneggiante, sorretta dal dolo intenzionale, è in grado di ledere anche l’interesse privatistico del cittadino, il quale potrà così rivestire la qualifica di persona offesa dal reato, con la conseguenza che sarà legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del P.m., così non è nella diversa ipotesi in cui il delitto ex art. 323 c.p. sia integrato dalla condotto finalizzata al perseguimento di un vantaggio ingiusto.

In tal caso, avvertono i giudici della Nomofilachia, il delitto è monoffensivo, in quanto posto a tutela del solo interesse pubblicistico, e cioè del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione.

Ove quindi, l’abuso del pubblico amministratore sia sorretto dal dolo specifico di avvantaggiare un soggetto, il danno che eventualmente derivi in capo ad un terzo, quale conseguenza dell’azione od omissione del pubblico agente, è da ritenersi conseguenza meramente riflessa della condotta penalmente rilevante.

Con la diretta conseguenza che, il soggetto che subisce il pregiudizio, che è in questo caso il danneggiato del reato, non è legittimato ad esercitare i poteri processuali, riconosciuti dal legislatore codicistico agli artt. 408, 409 e 410 c.p.p., che per espresso dettato normativo e costante orientamento pretorio, spettano alla sola persona offesa.

È chiaro, dunque, che, una cosa, è la veste di danneggiato ed, altra, quella di persona offesa, qualificazioni che – a parere della giurisprudenza – non prescindono dalla natura monoffensiva o plurioffensiva del delitto di abuso d’ufficio.

Note e riferimenti bibliografici
[1] Sul punto cfr. Corte Cost. 15 aprile 1980, n. 51.
[2] Un partner che dovrà comunque garantire l’azione da eseguire coerentemente ai principi di libertà e  funzione sociale dell’attività economica privata ex art. 41 Cost.
[3] Cfr. C. Conti, Sez. II, 9 ottobre 2003, n. 285.
[4] Secondo un orientamento tanto dottrinario quanto giurisprudenziale il danno risarcibile sarebbe quello arrecato all’immagine della P.A. necessitando, dunque, ai fini della quantificazione del risarcimento, l’eclatanza dell’evento corruttivo in termini di strepitus fori e dunque di diffusione, presso l’opinione pubblica, di opinioni di discredito nei confronti della P.A. Piuttosto v’è da sottolineare che anche in assenza del clamor fori ciò che rileva è la mancanza di efficacia e di efficienza dell’Ente pubblico in relazione al raggiungimento dei fondamentali obiettivi costituzionali.
[5] Il riferimento è all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 recante: Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
[6] Sul punto cfr. Palazzo in R. Rampioni, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 1984, pag. 262, il quale sottolinea che “non si può fare a meno di constatare come il «prestigio della pubblica amministrazione» riveli una sorta di evanescenza concettuale messa chiaramente in luce dall’analisi degli strumenti legislativamente apprestati per la sua presunta tutela”.
[7] Il prestigio della P.A. si identifica, in effetti, nei concetti di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Esso dovrebbe attenere alla Pubblica Amministrazione sia in senso soggettivo che in senso oggettivo con diretto riferimento all’attività amministrativa deputata alla cura degli interessi collettivi.
[8] Impostazione, questa, ampiamente criticata dalla dottrina in considerazione del fatto che tali funzioni sono autonomamente concepite all’interno dell’architettura costituzionale.
[9] M. Giannini, Diritto Amministrativo, Milano, 1970, pag. 85.
[10] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1972, pag. 668.
[11] V. Manes, Bene giuridico e riforma dei delitti conro la p.a., in Revista Electrónica de Ciencia Penal y Criminología – http://criminet.ugr.es/recpc/recpc_02-01vo.html#Epígrafe1, 19 febbraio 2000.
[12] Sul punto cfr. R. Rampioni, Il reato quale illecito di modalità e di lesione tipiche: l’impraticabilità di un “equivalente funzionale” al principio di riserva di legge, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 2, 2013, pag. 573 il quale afferma che devono essere ben distinti da un lato l’oggetto di tutela e dall’altro lo scopo della norma che necessariamente risponde ad un principio superiore. In effetti l’autore evidenzia il rischio che comporterebbe il formulare fattispecie generali ed astratte nelle quali coincidessero lo scopo e l’oggetto di tutela. A bene vedere, afferma Rampioni,  “ogni fattispecie incriminatrice persegue, invero, uno scopo, ma in ciò non risiede il contenuto di disvalore del fatto-reato e ciò, ancor prima, non è in grado di esplicare quella funzione critico-garantista di limite alle scelte del legislatore: lo scopo della norma individua un « quid che, in quanto coevo alla norma, non può assolvere tale funzione », né è suscettivo di offrire un contenuto sostanziale alla norma medesima”, con la conseguenza che per questa via si giungerebbe al riconoscimento di reati senza oggetto giuridico.
[13] Sul punto cfr. ancora Rampioni, Il reato quale illecito…cit. il quale sottolinea che la perdita di oggettività giuridica del bene tutelato deriva tanto da formulazioni legislative vaghe quanto da manipolazioni interpretative quali, ad esempio, il riconoscimento, giurisprudenziale e di certa parte della dottrina, del carattere plurioffensivo di determinate fattispecie penali, ovvero l’inserimento, nel sistema di tutela delle norme penali, di pseudo-interessi ulteriori.
[14] P. Silvestre, La riforma novellistica dei reati contri la P.A. nell’ottica del diritto penale sostanziale, in Giur. merito, fasc.11, 2013.
[15] L’innalzamento della pena è stato infatti disposto dall’art. 1 comma 75 della legge 6 novembre 2012, n. 190. Al riguardo, giova rammentare che l’originaria formulazione, vigente nell’ambito del codice del ’30, conteneva una previsione sanzionatoria limitata. Ed infatti l’abuso innominato d’ufficio, vuoi per la genericità delle condotte ivi descritte, vuoi per la funzione sussidiaria che all’abuso innominato il legislatore aveva affidato, era punito con la reclusione fino a due anni. Tale previsione punitiva fu mantenuta anche dal riformatore del 1990. Il senso di tale scelta di politica criminale era fondata sulla nuova capacità della norma penale in grado di ricomprendere, ora, anche le figure criminose di interesse privato e di peculato per distrazione. Oltretutto risulta tradita la ratio che spinse il legislatore del ’90 ad operare la traslazione punitiva della condotta di peculato per distrazione, dal delitto di peculato, ex art. 314 c.p., a quella di abuso d’ufficio. Tali scelte di politica criminale, infatti, furono fondate sulla convinzione che, stante la non chiara definizione della condotta distrattiva, essa avrebbe potuto ricomprendere anche il mero uso distorto della discrezionalità della pubblica amministrazione, con conseguente pregiudizio per il principio di autonomia dei poteri costituzionali, da un lato,  e conseguente applicazione di una sanzione penale a fatti anche in assenza di un reale danno alla p.a., dall’altro. In definitiva l’uso distorto delle risorse pubbliche avrebbe potuto essere stigmatizzato penalmente indifferentemente sia nell’ipotesi di mera irregolarità che in quella – ora si penalmente rilevante – caratterizzata dalla presenza di un danno reale agli interessi della pubblica amministrazione.
[16] Così G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, Torino, 2012, p. 246 ss.
[17] Il legislatore del ’90, infatti, sente l’esigenza di operare una maggiore specificazione della dettato normativo di cui all’art. 323. Con la legge n. 86, infatti, distingue due fattispecie di reato autonome; da un lato quella connotata da condotta favoritrice o prevaricatrice, allo scopo di ottenere un vantaggio non patrimoniale o di danno ad altri, punita con la reclusione fino a due anni, dall’atro veniva descritta una condotta affaristica finalizzata al raggiungimento di un interesse patrimoniale, sanzionata con la reclusione da due a cinque anni.
[18] Sul punto cfr. Così G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., pag. 246
[19] La dottrina più critica ha comunque ravvisato limiti di non poco conto che sono scaturiti dalla riforma specifica dell’abuso d’ufficio intervenuta con la legge 234/1997. In particolare l’orientamento dottrinario in parola contesta innanzitutto la sostanziale sproporzione tra l’effettiva portata della norma incriminatrice e la previsione sanzionatoria. L’elaborazione teorica, infatti, rammenta che precedentemente il legislatore aveva operato una scelta precisa e cioè quella di inglobare nella generale previsione dell’abuso d’uffico anche condotte autonome, e successivamente abrogate, del peculato per distrazione e dell’interesse privato. Sicché il significativo abbassamento dell’arco edittale dell’abuso d’ufficio potrebbe risultare sproporzionato per difetto a fronte di fatti anche particolarmente gravi.