Pubbl. Lun, 10 Nov 2025
Dalla cittadinanza sociale alla cittadinanza digitale: il diritto di accesso a Internet come strumento di inclusione con focus sulla Calabria
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Valentina Elia

Il contributo analizza il diritto di accesso a Internet come nuova forma di cittadinanza sociale, capace di promuovere inclusione e partecipazione. Attraverso il caso della Calabria, la riflessione evidenzia come la rete, unita alle competenze digitali e al sostegno delle istituzioni, possa diventare uno strumento di uguaglianza e crescita collettiva. La cittadinanza digitale emerge così come una dimensione concreta del welfare contemporaneo, dove la tecnologia assume un volto umano e solidale.
ENG
From social citizenship to digital citizenship: the right to access the Internet as a tool for inclusion, with a focus on Calabria
The contribution analyzes the right to Internet access as a new form of social citizenship, capable of promoting inclusion and participation. Through the case of Calabria, the reflection highlights how the network—combined with digital skills and institutional support—can become a tool for equality and collective growth. Digital citizenship thus emerges as a tangible dimension of contemporary welfare, where technology takes on a human and compassionate face.1.Introduzione
Viviamo in un tempo in cui Internet non è più soltanto uno strumento, ma una condizione essenziale per partecipare alla vita sociale.
Studiare, lavorare, accedere ai servizi sanitari o semplicemente comunicare con le istituzioni: tutto passa sempre più spesso attraverso la rete.
Per questo, il diritto di accesso a Internet non riguarda solo la tecnologia, ma la qualità della cittadinanza.
Chi non può connettersi, oggi, rischia di restare escluso da opportunità e diritti fondamentali.
Nel panorama italiano, la Calabria rappresenta un esempio emblematico.
Qui il divario digitale si intreccia con questioni economiche, territoriali e culturali, ma accanto alle difficoltà si intravedono anche segni di cambiamento: scuole, associazioni e comunità che si impegnano per rendere la rete accessibile a tutti.
La trasformazione digitale, infatti, non è fatta solo di infrastrutture, ma di persone che imparano, condividono, costruiscono.
Questo contributo esplora il passaggio dalla cittadinanza sociale a quella digitale, mettendo in luce come l’accesso alla rete possa diventare uno strumento concreto di inclusione.
La Calabria, con la sua capacità di reagire alle difficoltà attraverso solidarietà e partecipazione, diventa così il punto di partenza per riflettere su un nuovo modello di welfare, più umano e vicino ai cittadini.
2. Dalla cittadinanza sociale alla cittadinanza digitale
Ogni epoca ridefinisce il significato della parola “cittadinanza”.
Nell’Ottocento, essa coincideva con la conquista delle libertà civili e politiche; nel Novecento, con l’estensione dei diritti sociali e con l’idea di uno Stato capace di garantire istruzione, salute, lavoro e protezione. Oggi, nell’epoca della rete, la cittadinanza si gioca su un terreno nuovo: quello digitale.
Internet, che solo trent’anni fa era un territorio di pochi, è diventato un ambiente essenziale della vita collettiva. Si studia, si lavora, si comunica e perfino si cura attraverso la rete. Ciò che fino a poco tempo fa avveniva negli spazi fisici — l’aula, l’ufficio, l’ospedale, la piazza — oggi trova un corrispettivo digitale. Ed è proprio in questo passaggio che si misura la qualità democratica di una società: chi resta escluso dalla connessione, resta escluso anche dalla cittadinanza.
La Costituzione italiana del 1948, nel suo articolo 3, afferma che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. È una frase che conserva intatta la sua forza. Se all’epoca quegli ostacoli erano l’analfabetismo, la povertà, la mancanza di salute o di casa, oggi se ne aggiunge uno nuovo: la mancanza di accesso e di competenze digitali.
Chi non può connettersi o non sa farlo resta ai margini della società dell’informazione. La disuguaglianza digitale è, in fondo, una nuova forma di povertà: non materiale, ma esistenziale, perché limita la possibilità di apprendere, di comunicare e di partecipare.
Quando si parla di cittadinanza digitale, spesso si pensa alla tecnologia; ma in realtà si parla di persone. Di individui che, attraverso la rete, cercano di esercitare diritti che esistono da sempre: il diritto allo studio, al lavoro, alla salute, alla partecipazione civica. La rete non crea nuovi bisogni: li traduce in un linguaggio contemporaneo.
L’accesso a Internet non è soltanto una questione tecnica — un cavo, una connessione, una banda — ma una questione etica e sociale, perché da essa dipendono l’inclusione e la dignità.
Come ha osservato Stefano Rodotà[1], il diritto all’accesso è la chiave che consente di entrare nel mondo dei diritti digitali, il presupposto perché la persona resti protagonista anche nell’era delle tecnologie.
La transizione digitale, tuttavia, non è un processo neutro. Accanto alle opportunità, produce nuove disuguaglianze. Se in passato le barriere erano materiali, oggi sono spesso invisibili: la mancanza di connessione in certe aree, l’impossibilità economica di sostenere un abbonamento, l’assenza di competenze adeguate per usare piattaforme e servizi pubblici online. È una disuguaglianza che attraversa generazioni, territori e classi sociali.
Nelle regioni più fragili del Paese, e in particolare in Calabria, il digital divide si somma ai divari economici e geografici, creando un circolo vizioso che esclude chi già si trova ai margini.
Parlare di cittadinanza digitale in Calabria significa dunque affrontare il tema dell’uguaglianza in senso pieno. Significa interrogarsi su come la tecnologia possa diventare strumento di emancipazione invece che fattore di separazione. Laddove la connessione arriva, anche nelle zone rurali e montane, si aprono nuove possibilità: la didattica a distanza per chi non può spostarsi, la telemedicina per chi vive lontano dagli ospedali, il commercio elettronico per piccoli produttori e artigiani. La rete, quando è accessibile e compresa, diventa un ponte tra le persone, un modo per restare nel proprio territorio senza esserne prigionieri.
La cittadinanza digitale, quindi, non sostituisce quella sociale: la continua, la espande, la umanizza.
Se nel secolo scorso lo Stato costruiva scuole e ospedali per rimuovere le disuguaglianze, oggi è chiamato a costruire infrastrutture e competenze digitali per garantire le stesse finalità. È una forma di welfare che non distribuisce solo risorse, ma conoscenza, partecipazione e autonomia.
La vera sfida non è solo tecnica, ma culturale: fare in modo che ogni persona — giovane o anziana, lavoratore o studente — possa sentirsi parte del mondo digitale, non spettatrice ai suoi margini.
Perché, come dimostra l’esperienza, l’esclusione digitale non colpisce solo chi non sa usare un computer, ma priva tutti noi di una parte del nostro potenziale collettivo.
La cittadinanza digitale non è, dunque, un concetto riservato agli esperti di tecnologia, ma un principio di giustizia contemporanea.
Garantire l’accesso significa restituire dignità, opportunità e futuro.
E in una terra come la Calabria, dove la distanza fisica si intreccia con quella economica, la rete può diventare il filo invisibile che ricuce comunità, storie e diritti.
3. Il digital divide in Italia e in Calabria
Parlare oggi di digital divide significa raccontare una frattura che non è solo tecnologica, ma sociale e culturale. È la distanza invisibile che separa chi vive pienamente la propria cittadinanza digitale da chi ne resta ai margini. In Italia, questa frattura assume contorni diversi a seconda dei territori: nelle grandi città del Nord e del Centro la connessione è ormai parte della quotidianità, mentre in molte aree interne del Sud — e in particolare in Calabria — la rete resta ancora un orizzonte lontano, fragile, intermittente.
Negli ultimi anni, lo Stato e l’Unione Europea hanno investito ingenti risorse per colmare questo divario. Il Piano Banda Ultra Larga (BUL) e i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) hanno l’obiettivo di portare la connettività ad alta velocità anche nei comuni più piccoli e isolati. Eppure, i dati più recenti dell’ISTAT e dell’AGCOM mostrano come le disuguaglianze persistano: in Calabria, la copertura in fibra ottica raggiunge poco più del 60% delle abitazioni, contro una media nazionale superiore al 75%. Il Digital Economy and Society Index (DESI 2024) colloca la regione agli ultimi posti in Italia per competenze digitali di base, con meno di un terzo della popolazione adulta capace di usare in autonomia i servizi online.
Dietro questi numeri, però, ci sono persone e storie.
Nel corso di interviste e progetti di ricerca sul territorio emergono racconti che rivelano quanto il digital divide incida sulla vita quotidiana.
Maria, insegnante di scuola media in un piccolo paese del Catanzarese, racconta di aver dovuto stampare i compiti e consegnarli a mano agli alunni durante la pandemia, perché molti di loro non avevano connessione.
Luigi, artigiano a Gerace, ha provato a vendere i suoi prodotti online, ma la lentezza della rete gli ha fatto perdere ordini e clienti.
Carmela, 67 anni, vive a Serra San Bruno: dopo tre tentativi falliti di prenotare una visita medica online, ha rinunciato e si è recata di persona all’ASL, viaggiando per ore.
Sono storie semplici, ma raccontano più di qualsiasi statistica: in certe zone, il digital divide non è una metafora, è una condizione di vita.
La mancanza di connessione agisce come una barriera che limita diritti fondamentali. Lo si è visto durante la pandemia, quando la scuola, il lavoro e perfino la sanità si sono spostati online. In Calabria, migliaia di studenti hanno seguito le lezioni con connessioni instabili o da dispositivi condivisi. Alcuni hanno dovuto rinunciare del tutto. Quello che altrove è un problema tecnico, qui diventa un problema di giustizia.
E la giustizia digitale — come quella sociale — non può essere delegata solo alla buona volontà individuale. Richiede una visione collettiva, un impegno politico e culturale.
Molti comuni calabresi si trovano in aree montane, con abitazioni sparse e costi infrastrutturali elevati. In questi territori, l’arrivo della fibra non è sufficiente: serve anche accompagnare le persone, formarle, creare luoghi di supporto. Perché avere la connessione non significa saperla usare. Il divario digitale, infatti, ha due volti: quello tecnologico, legato all’assenza di infrastrutture, e quello culturale, legato alla mancanza di competenze e consapevolezza.
Spesso è proprio quest’ultimo il più difficile da colmare. In molte famiglie manca la familiarità con i dispositivi digitali, e l’uso di piattaforme pubbliche o di identità elettroniche come SPID o CIE diventa un ostacolo quasi insormontabile. Gli anziani, in particolare, si trovano a dover dipendere da figli o nipoti per compiere azioni che dovrebbero essere semplici e autonome: pagare una bolletta, accedere a un referto, prenotare una visita, richiedere un certificato.
Come ha scritto Bertolino, “l’assenza di infrastrutture digitali adeguate non è una mancanza tecnica, ma una questione di giustizia sociale”.
Quando la rete è debole o assente, interi territori restano esclusi dai circuiti della conoscenza e dell’economia. È una forma di isolamento che non si misura solo in megabit, ma in possibilità negate.
Eppure, dietro questa realtà c’è anche una forte voglia di riscatto. In Calabria, associazioni, scuole, biblioteche e parrocchie stanno sperimentando percorsi di alfabetizzazione digitale di comunità.
Nelle biblioteche di Reggio Calabria e Cosenza, giovani tutor insegnano agli anziani come usare un tablet o accedere ai portali sanitari. In alcuni comuni montani, piccoli laboratori di quartiere hanno trasformato vecchi edifici scolastici in spazi condivisi, dove si impara a navigare, a scrivere una mail, a compilare un modulo online.
Sono iniziative locali, spesso nate dal basso, ma capaci di generare un impatto profondo.
Perché, come accade in molti processi di inclusione, la connessione più importante non è quella dei cavi, ma quella tra le persone.
La Calabria, per la sua conformazione geografica e sociale, è un laboratorio ideale per capire quanto la cittadinanza digitale dipenda dal tessuto umano e dalle relazioni. Qui, dove la comunità è ancora un valore forte e la solidarietà si manifesta nelle forme più concrete, la tecnologia può diventare un mezzo per rafforzare i legami sociali, non per indebolirli.
Quando un anziano impara a usare il telefono per videochiamare un parente lontano, o quando una piccola impresa scopre il commercio online, non si tratta solo di progresso tecnologico: si tratta di inclusione, di dignità, di appartenenza.
Per questo, il digital divide non può essere considerato un tema secondario o settoriale. È una questione di diritti, e quindi di democrazia.
Garantire l’accesso e le competenze digitali significa rendere effettivo ciò che la Costituzione aveva già sancito oltre settant’anni fa: l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini, indipendentemente dal luogo in cui vivono o dalle risorse di cui dispongono.
La sfida, oggi, è estendere questa uguaglianza nel mondo digitale, facendo in modo che Internet non diventi una nuova forma di frontiera tra chi può e chi non può.
4. Alfabetizzazione digitale e ruolo delle istituzioni
Garantire il diritto di accesso a Internet non significa soltanto portare un cavo nelle case o una rete nei paesi. Significa, prima di tutto, mettere le persone nelle condizioni di usarla, di capirla, di farla propria.
L’alfabetizzazione digitale, infatti, non è una competenza tecnica: è una forma di emancipazione.
In Calabria, dove molte comunità vivono in piccoli centri montani o rurali, abitati in larga parte da persone anziane, il divario digitale non si misura solo nella velocità della connessione, ma nella capacità di riconoscere la rete come spazio di possibilità.
Chi nasce in un grande centro urbano cresce immerso nella tecnologia: si connette con naturalezza, comunica, lavora e studia online. Chi vive in un contesto più isolato, invece, incontra ostacoli che non sono solo infrastrutturali, ma culturali.
Molti adulti non hanno familiarità con i dispositivi, alcuni provano persino un senso di timore. La rete è percepita come qualcosa di estraneo, difficile, quasi ostile.
Eppure, dietro quella paura c’è spesso solo mancanza di accompagnamento.
L’alfabetizzazione digitale serve proprio a questo: a restituire fiducia, autonomia e curiosità. È un processo di crescita collettiva, non una lezione di informatica.
In Calabria, negli ultimi anni, sono nate numerose iniziative che testimoniano questa spinta dal basso. In molti comuni, le biblioteche civiche si sono trasformate in piccoli laboratori di formazione digitale: luoghi dove anziani e giovani si incontrano, si siedono accanto e imparano insieme.
A Reggio Calabria, il progetto “Nonni connessi” ha permesso a decine di persone over 65 di imparare a usare il telefono per videochiamare figli e nipoti emigrati.
A Cosenza, un gruppo di studenti universitari ha avviato un programma di tutoraggio gratuito nei quartieri popolari, insegnando a compilare moduli online e accedere ai servizi pubblici.
In questi gesti semplici si nasconde qualcosa di profondo: la tecnologia che si fa relazione, che unisce generazioni e restituisce dignità a chi si sentiva escluso.
Il ruolo delle istituzioni, in questo scenario, è cruciale. Ma le politiche pubbliche funzionano solo quando sanno parlare il linguaggio delle persone.
Negli ultimi anni, la Regione Calabria ha aderito a diversi programmi nazionali ed europei di inclusione digitale, tra cui “Rete dei Punti di Facilitazione Digitale” e “Repubblica Digitale”.
L’obiettivo è ambizioso: creare una rete capillare di spazi pubblici dove ogni cittadino possa ricevere assistenza, partecipare a corsi base e scoprire come utilizzare la rete in modo sicuro.
Tuttavia, non basta aprire sportelli: serve una presenza umana stabile, figure di prossimità che non si limitino a spiegare, ma che accompagnino le persone passo dopo passo, con pazienza e empatia.
Come ricorda Mantelero, l’alfabetizzazione digitale non si misura in ore di corso o attestati, ma nella capacità di far nascere una cultura della fiducia.
Chi impara a usare la rete non deve solo acquisire abilità, ma sentirsi parte di una comunità che comunica, apprende e cresce insieme. È una forma di educazione civica del nostro tempo: imparare a stare nella rete in modo consapevole, rispettoso e sicuro.
Per questo le istituzioni non dovrebbero limitarsi a finanziare progetti, ma dovrebbero costruire ecosistemi di supporto continuativi, dove scuole, associazioni e amministrazioni collaborano stabilmente.
Ci sono esperienze che mostrano quanto questo approccio funzioni.
Nel piccolo comune di San Giovanni in Fiore, un gruppo di insegnanti ha organizzato corsi serali aperti a tutta la cittadinanza: genitori, nonni, studenti. Le lezioni si tengono nella palestra della scuola, tra computer portatili e connessioni condivise. All’inizio c’era diffidenza, poi entusiasmo.
Anna, 68 anni, racconta di aver provato per la prima volta la sensazione di autonomia: “Ora riesco a prenotare da sola una visita medica e a leggere le notizie. Mi sembra di essere tornata giovane”.
Dietro parole come queste si intravede la dimensione più autentica della cittadinanza digitale: la riconquista della propria indipendenza.
La trasformazione digitale, se guidata con sensibilità, può dunque diventare una leva per rafforzare il tessuto sociale.
Ogni corso, ogni sportello, ogni piccolo laboratorio non è solo un luogo di apprendimento, ma un punto di incontro.
E la Calabria, con la sua forte identità comunitaria, ha una risorsa in più: quella solidarietà spontanea che da sempre caratterizza i suoi territori.
La tecnologia, se ben orientata, può valorizzare questo spirito invece di soffocarlo, diventando un ponte tra generazioni, tra paesi, tra mondi che si ignoravano.
L’alfabetizzazione digitale[2], allora, non è soltanto una politica pubblica, ma una forma di giustizia educativa.
Significa dare voce a chi non ne aveva, rendere ogni cittadino partecipe della vita collettiva e della democrazia digitale.
Perché una connessione, da sola, non basta. Serve qualcuno che insegni a usarla, qualcuno che creda che dietro ogni clic ci sia una persona.
E quando le istituzioni riescono a fare questo — a coniugare infrastrutture, formazione e umanità — la cittadinanza digitale smette di essere un concetto astratto e diventa una storia concreta di partecipazione e dignità.
5. Impatto socio-economico e culturale della cittadinanza digitale
L’impatto della cittadinanza digitale non si misura soltanto in termini di connettività o di competenze, ma nella trasformazione profonda che essa produce nella vita economica, sociale e culturale delle persone. In Calabria, questa trasformazione è più lenta che altrove, ma quando avviene lascia segni tangibili: un piccolo laboratorio artigianale che trova clienti fuori regione, una scuola di montagna che partecipa a un progetto europeo, un’anziana che si connette per parlare con i nipoti lontani.
Ogni volta che una persona riesce a usare Internet per migliorare la propria vita quotidiana, si compie un atto di inclusione.
Dal punto di vista economico, la rete rappresenta un’opportunità straordinaria per le aree periferiche. Molte piccole imprese agricole e artigianali calabresi stanno scoprendo il potenziale del commercio elettronico. Luigi, produttore di olio di Gerace, ha raccontato come la creazione di un sito web semplice, curato dai figli, gli abbia permesso di vendere in Germania e in Francia. “Non pensavo che bastasse una connessione per cambiare tutto”, dice con orgoglio.
Questo non significa solo aumento delle vendite: significa autonomia economica, possibilità di restare nel proprio territorio senza doverlo abbandonare per mancanza di occasioni.
L’impatto si estende anche al mondo del lavoro. La diffusione dello smart working, della formazione online e delle piattaforme digitali ha aperto nuove possibilità di occupazione, persino in zone che per anni sono state considerate “marginali”. Ma perché queste opportunità siano reali, serve una rete stabile e, soprattutto, competenze diffuse. Come sottolinea Pascuzzi, la cittadinanza digitale non è un insieme di abilità tecniche, bensì un processo di partecipazione economica e sociale: chi sa usare la tecnologia non solo lavora meglio, ma partecipa alla vita pubblica, conosce i propri diritti, si informa e dialoga con le istituzioni.
C’è poi un impatto culturale, più silenzioso ma altrettanto profondo. La rete modifica il modo in cui le persone apprendono, comunicano e si rappresentano. In Calabria, molte biblioteche e associazioni locali hanno sfruttato Internet per aprire spazi culturali virtuali: club di lettura online, laboratori artistici a distanza, archivi digitali della memoria dei paesi[3]. Grazie a queste iniziative, anche i piccoli centri si collegano al mondo, senza perdere la propria identità.
La cultura digitale, infatti, non cancella le radici: le rinnova. Come scrive Floridi, viviamo in una “infosfera” in cui reale e virtuale si intrecciano costantemente. In questo intreccio, la conoscenza non è più solo trasmessa, ma condivisa. E la Calabria, con la sua ricca[4] tradizione di oralità e comunità, trova nella rete un nuovo spazio di racconto.
Molti giovani calabresi stanno utilizzando Internet per valorizzare il territorio. Pagine social e portali turistici raccontano borghi, paesaggi, artigianato, con un linguaggio fresco e autentico. Non si tratta solo di promozione, ma di narrazione collettiva: restituire immagine e voce a una regione spesso percepita dall’esterno solo attraverso stereotipi.
Anche le scuole svolgono un ruolo decisivo. Gli insegnanti che usano la rete per creare progetti di collaborazione con altre regioni o paesi europei offrono agli studenti un’esperienza di apertura e dialogo interculturale. In una società sempre più interconnessa, imparare a comunicare digitalmente significa imparare a convivere.
Dal punto di vista sociale, la rete può diventare un grande strumento di coesione. Durante la pandemia, molte parrocchie e associazioni calabresi hanno usato piattaforme di videoconferenza per restare accanto a chi era solo, trasmettendo messe, organizzando incontri e gruppi di sostegno. Queste esperienze hanno mostrato che la tecnologia, se usata con umanità, non allontana: avvicina.
Quando la connessione è vissuta come mezzo di relazione, diventa una forma di solidarietà. In questo senso, la cittadinanza digitale non è solo un diritto, ma una responsabilità: usare la rete per costruire comunità più consapevoli e inclusive.
C’è infine un aspetto simbolico, che riguarda la percezione della modernità.
In molti paesi calabresi, vedere un’antenna o un punto Wi-Fi pubblico rappresenta qualcosa di più di un servizio: è un segno di presenza dello Stato, un messaggio di attenzione.
Ogni volta che una connessione arriva in un’area montana, si accende anche la speranza che lo sviluppo non sia un privilegio delle grandi città.
Per questo, la cittadinanza digitale è anche una questione di dignità: quella di sentirsi parte di un mondo che cambia, non spettatori di un progresso riservato ad altri.
La rete, se resa accessibile, può dunque trasformarsi da strumento tecnico in bene relazionale.
Non basta installare infrastrutture: bisogna coltivare fiducia, costruire ponti, far nascere cultura digitale. In Calabria, dove la comunità e l’identità territoriale sono valori radicati, questo processo ha un potenziale straordinario. La tecnologia, se accompagnata da politiche attente e da una visione educativa condivisa, può diventare il filo che unisce passato e futuro[5], tradizione e innovazione, radici e orizzonti.
In questo senso, la cittadinanza digitale non è soltanto un diritto: è un modo di stare al mondo, di riconoscersi parte di una collettività che cresce insieme.
6. Verso un nuovo welfare digitale: strategie e governance per l’inclusione
La transizione digitale non è soltanto una questione tecnologica: è una trasformazione sociale che impone di ripensare il concetto stesso di welfare.
Nel secolo scorso, lo Stato sociale aveva il compito di garantire ai cittadini l’accesso a scuola, sanità e lavoro. Oggi, la sfida è assicurare a tutti la possibilità di accedere ai servizi digitali, di comprenderli e di utilizzarli per migliorare la propria vita. In questo senso, il welfare digitale rappresenta la nuova frontiera della cittadinanza: un sistema di diritti e tutele che passa anche attraverso la connessione, le competenze e la partecipazione online.
Per la Calabria, questa sfida è particolarmente complessa ma anche ricca[6] di opportunità. La regione, con la sua conformazione geografica e la presenza di numerosi piccoli comuni, richiede un approccio diverso rispetto ai modelli urbani.
Non basta importare soluzioni dall’alto: occorre costruire strategie che nascano dal territorio, che ascoltino le persone e che riconoscano la diversità dei contesti locali.
Il nuovo welfare digitale deve essere prossimo, flessibile e comunitario, capace di coniugare infrastrutture materiali e reti sociali.
Le istituzioni, in questo scenario, hanno il compito di agire come coordinatrici e promotrici.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e i fondi europei della Digital Europe offrono una base economica significativa, ma la differenza la fanno i modelli di governance.
Serve una cabina di regia che metta in comunicazione regioni, enti locali, scuole, università, associazioni e imprese.
Solo una governance partecipata può evitare che gli investimenti si disperdano in progetti isolati o duplicazioni burocratiche.
Come ricorda Sammarco, l’innovazione non è mai solo tecnologica: è organizzativa e sociale, richiede coordinamento, fiducia e visione.
In Calabria, alcune esperienze virtuose stanno già mostrando che questa strada è possibile.
Nei comuni dell’area del Pollino e della Locride sono nati i primi “punti digitali di comunità”, spazi gestiti da volontari e operatori pubblici che offrono assistenza per l’uso dei servizi online, dallo SPID alla sanità digitale.
In questi luoghi non si trasmette solo competenza, ma si costruisce fiducia, elemento chiave di ogni politica inclusiva.
La tecnologia diventa così uno strumento per ricostruire legami sociali, per riattivare la partecipazione e per restituire dignità a chi, per troppo tempo, si è sentito escluso.
Un welfare digitale efficace, infatti, non può essere calato dall’alto.
Deve crescere dal basso, dalle comunità.
Le istituzioni dovrebbero accompagnare questo processo con politiche di prossimità digitale, che non si limitino a erogare corsi o bonus, ma che creino continuità nel tempo.
In Calabria, dove molti territori soffrono di spopolamento e isolamento, un punto digitale stabile può diventare anche un presidio sociale, un luogo di incontro tra generazioni e competenze diverse.
La governance dell’inclusione digitale non può ignorare la dimensione educativa.
Come sottolinea Di Ciommo, la costruzione del welfare moderno è sempre passata attraverso l’educazione: la scuola, nel Novecento, è stata la grande leva di emancipazione collettiva; oggi, l’educazione digitale può avere lo stesso ruolo.
Ma perché ciò accada, serve una regia che coordini le politiche formative, collegando[7] scuole, centri di formazione e amministrazioni locali.
Solo in questo modo l’alfabetizzazione digitale può diventare una politica strutturale, non un’iniziativa episodica.
Il welfare digitale, inoltre, deve includere una componente etica.
L’accesso alla rete deve avvenire in condizioni di sicurezza, tutela della privacy e rispetto della persona.
Troppo spesso la tecnologia è presentata come neutra, ma le sue conseguenze sono profondamente sociali.
Un sistema di governance consapevole deve promuovere l’uso responsabile dei dati, la trasparenza degli algoritmi e l’educazione alla cittadinanza digitale attiva.
In questo senso, la Calabria — con la sua tradizione di solidarietà e cooperazione — può rappresentare un laboratorio di sperimentazione per un modello di welfare digitale umano, fondato sulla comunità e non solo sull’efficienza.
Guardando al futuro, la sfida sarà quella di integrare le infrastrutture tecnologiche con le infrastrutture relazionali.
Le reti in fibra e 5G potranno garantire la velocità della connessione, ma solo la collaborazione tra persone garantirà la qualità della connessione sociale.
Perché il welfare digitale non è solo un insieme di servizi, ma una visione della società: una società in cui la tecnologia non divide, ma unisce; non isola, ma accompagna; non sostituisce, ma amplifica le relazioni umane.
In questa prospettiva, la Calabria ha tutte le carte per diventare un esempio di innovazione inclusiva.
Nonostante le difficoltà strutturali, la sua forza risiede proprio nella rete invisibile delle relazioni, nella resilienza delle comunità locali e nella capacità di reinventarsi dal basso.
Il futuro del welfare digitale non sarà scritto solo nei programmi ministeriali o nei fondi europei, ma nella quotidianità di chi, davanti a uno schermo, impara a esercitare un diritto e a sentirsi parte di una comunità più grande.
7. La Calabria come laboratorio di cittadinanza digitale
Guardare alla Calabria significa osservare un territorio complesso, attraversato da contrasti profondi e da una straordinaria capacità di resistenza.
È una regione che conosce la fatica dell’isolamento ma anche la forza della comunità; che sperimenta quotidianamente il divario, ma non smette di cercare il riscatto.
Proprio per questo la Calabria può diventare — e in parte già lo è — un laboratorio di cittadinanza digitale, dove la tecnologia non sostituisce l’umanità, ma la accompagna.
Il digital divide, qui, non è solo un dato tecnico: è una storia di persone.
Dietro ogni connessione che manca ci sono volti, voci, desideri.
C’è lo studente che non riesce a seguire le lezioni online, l’artigiano che fatica a vendere i suoi prodotti, l’anziana che non può prenotare una visita medica da casa.
Ma ci sono anche storie di rinascita: di giovani che aprono startup nei borghi, di associazioni che insegnano agli anziani a navigare in rete, di scuole che diventano centri di innovazione sociale.
La Calabria, nel suo quotidiano, mostra che la cittadinanza digitale è prima di tutto un processo umano, fatto di fiducia, ascolto e cooperazione.
In questa prospettiva, la regione può assumere un ruolo simbolico per tutto il Paese.
Laddove il contesto è più fragile, ogni progresso ha un valore doppio.
La costruzione di infrastrutture, la diffusione di competenze digitali, la creazione di reti sociali attive non sono solo strumenti di sviluppo economico, ma gesti di giustizia territoriale.
Come sottolinea Bertolino, [8]“la vera modernità non si misura nella velocità delle connessioni, ma nella capacità di includere anche chi resta indietro”.
E proprio in questo, la Calabria può offrire una lezione preziosa: che l’innovazione non è solo questione di strumenti, ma di sguardi e relazioni.
Il laboratorio calabrese della cittadinanza digitale si costruisce ogni giorno attraverso esperienze locali:
nelle scuole dove studenti e insegnanti imparano insieme, nei piccoli comuni che aprono sportelli digitali di comunità, nelle famiglie che si aiutano tra generazioni.
Ogni iniziativa, anche la più semplice, diventa un tassello di un mosaico più grande.
Il cambiamento non arriva con i grandi annunci, ma con i gesti quotidiani: un corso serale, un laboratorio condiviso, un tablet donato a chi non può permetterselo.
Sono azioni che, sommate, generano un nuovo modo di vivere la rete — non come strumento, ma come spazio di partecipazione collettiva.
L’identità calabrese, con la sua storia di emigrazione e di resilienza, si presta naturalmente a questa nuova forma di cittadinanza.
Le comunità calabresi nel mondo, grazie alla rete, mantengono legami costanti con la terra d’origine, creando un ponte di conoscenze, affetti e opportunità.
La connessione diventa così una forma di ritorno, non fisico ma culturale: un modo per restare parte di un territorio che cambia senza perdersi.
In questo senso, la Calabria può essere vista come una metafora del nostro tempo: una terra che si connette per ritrovarsi, che usa la tecnologia non per omologarsi ma per riconoscersi.
Le politiche di cittadinanza digitale, se sapranno valorizzare questa ricchezza, potranno trasformare le difficoltà in risorse.
Occorre investire nelle persone prima ancora che nelle reti, rafforzare i luoghi di incontro, sostenere la formazione e le iniziative dal basso.
Come afferma Mantelero, [9]“la cittadinanza digitale è reale solo quando diventa consapevole e partecipata”.
Ed è proprio in questo equilibrio tra innovazione e umanità che la Calabria può diventare un modello: una regione capace di mostrare al Paese che la connessione più forte non è quella dei dati, ma quella dei legami.
In conclusione, parlare di cittadinanza digitale in Calabria significa raccontare una storia di speranza.
Ogni rete che si accende, ogni corso che inizia, ogni cittadino che scopre di poter fare da solo è un piccolo passo verso un nuovo modo di vivere la democrazia.
La tecnologia, da sola, non basta: serve una visione che unisca progresso e solidarietà, innovazione e cura, velocità e ascolto.
E forse proprio da questa terra — da sempre considerata “periferia” — può nascere un nuovo centro: quello di una società più giusta, più connessa, più umana.
[1] Rodotà, S. (2012). Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza.
[2] Bertolino, S. (2020), Accesso a Internet e inclusione digitale in Italia. Milano: FrancoAngeli
[3] Floridi, L. (2014). The Fourth Revolution: How the Infosphere is Reshaping Human Reality. Oxford: Oxford University Press.
[4] Pascuzzi, F. (2025). Cittadinanza digitale e diritti sociali nell’era contemporanea. Bari: Laterza.
[5]Sammarco, L. (2024). Digital divide e sviluppo territoriale in Calabria. Reggio Calabria: Rubbettino.
[6] Pascuzzi, F. (2025). Cittadinanza digitale e diritti sociali nell’era contemporanea. Bari: Laterza
[7] Di Ciommo, M. (2015). Diritti sociali e cittadinanza: un percorso storico. Roma: Carocci Editore.
[8]Bertolino, S. (2020). Accesso a Internet e inclusione digitale in Italia. Milano: FrancoAngeli.
[9] Mantelero, A. (2022). Alfabetizzazione digitale e cittadinanza. Torino: Giappichelli.
BIBLIOGRAFIA
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