Pubbl. Lun, 15 Feb 2016
Il diritto a non nascere
Modifica paginaRipartizione dell’onere probatorio e “diritto a non nascere se non sani”. Sono questi alcuni dei temi affrontati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 22 dicembre 2015, n. 25767.
“Dinnanzi alla malattia, al dolore, l’uomo ricorre alla scienza e chiede a questa quegli interventi necessari che gli consentano di recuperare una condizione di benessere. La razionalizzazione dei processi conoscitivi genera, così, il convincimento che tutto si svolga sotto il controllo di una scienza che, nel momento in cui traduce in pratica ciò che è stato oggetto di analisi formale, si trasforma in tecnica. Ma in questo capovolgimento dell’imperativo morale, quale conseguenza delle possibilità offerte dalla scienza, l’uomo si accorge che per ottenere ciò che desidera è costretto a mettere costantemente in discussione la sua libertà: e allora si rivolge al diritto e gli chiede di fissare le condizioni di questo atto di disposizione”. (Pasquale Stanzione, Itinerari di Diritto privato, 2012; Limone, La scienza contemporanea al confronto con le generazioni future, Torino, 2000)
Premessa
Sempre aperti i dibattiti giurisprudenziali su un tema figlio della bioetica e della morale che, tuttavia, necessita dell’intervento del Legislatore. In un contesto, infatti, nel quale non può più dirsi esistente la dicotomia pubblico/privato, nel quale nulla si sottrae alla necessità della regulation, il “diritto alla vita”, in tutte le sue sfaccettature, diventa banco di prova.
In un Paese che si professa tendenzialmente laico, ma che non è libero dalla morale e dall’influenza religiosa, ciò che può sembrare “normale” diventa in un attimo momento di frattura o di coesione. Le difficoltà si riscontrano nel tentare di coordinare i principi fondamentali del nostro ordinamento con la morale, la religione, il progresso scientifico che non può essere tale senza un Diritto che glielo consenta e che lo limiti, la globalizzazione, la libertà del singolo di autodeterminarsi, di scegliere se e come vivere, o quando e perché morire.
La necessità di avere un consenso, di individuare un responsabile, di riconoscere un risarcimento. Qui il Diritto che non esce dallo schema contrattuale. Si pensi al “contatto sociale”.
La libertà, il proprio credo, il bilanciamento. Qui il Diritto che si fa etica. Si pensi all’ “obiezione di coscienza”.
Sul tema non sorprenderà, dunque, trovarsi di fronte ad un Legislatore timido e non di rado volontariamente impreciso.
Ancor meno sorprende una giurisprudenza contrastante, a volte precipitosa, a volte severa.
Senza pretesa di esaustività, si cercherà di illustrare l’attuale arresto delle SS.UU. sul “diritto a non nascere se non sani”, richiamando anche la giurisprudenza precedente.
La vicenda trae origine dal ricorso presentato dai genitori di una minore affetta da sindrome di down, con il quale si imputava tale menomazione al medico che, colposamente, ometteva di compiere indagini che gli avrebbero consentito di diagnosticare la suddetta sindrome. Il medico, a sua volta, negava la propria responsabilità in quanto gli accertamenti medici eseguiti non suggerivano ulteriori approfondimenti. La domanda veniva rigettata dal Giudice di primo grado. Il successivo gravame veniva respinto dalla Corte d’Appello. Da qui il ricorso in Cassazione.
I motivi del ricorso
I ricorrenti deducevano:
- la violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c. e della L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 6.
In particolare i ricorrenti ritenevano che non fossero state correttamente applicate le norme relative al riparto dell'onere della prova circa il grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre cagionato dalle rilevanti malformazioni del nascituro.
La Corte d’Appello di Firenze, avverso la cui sentenza si ricorreva, ha, infatti, ritenuto che, affinchè si possa praticare l’aborto, è necessario che la presenza di gravi anomalie nel feto comporti un grave danno per la salute fisica e psichica della gestante sulla quale incombe anche il relativo onere probatorio. In particolare ha anche escluso la possibilità che la prova potesse essere raggiunta, in mancanza, mediante consulenza tecnica d’ufficio.
Seguendo l’iter logico – motivazionale del Giudice di secondo grado non si può, dunque, ritenere che la mancata informazione sanitaria, tradottasi in impedimento ad interrompere volontariamente la gravidanza, sia di per sè sufficiente ad integrare la responsabilità del medico facendo sorgere a suo carico l’obbligo risarcitorio.
- la violazione degli artt. 2, 3, 31 e 32 Cost. e della L. 29 luglio 1975, n. 405 per aver negato, alla figlia minore, il diritto ad un’esistenza sana e dignitosa, compromesso proprio dalle gravi malformazioni scoperte al momento della nascita.
La Corte d’Appello, infatti, ha negato l’esistenza nel nostro ordinamento giuridico di un “diritto a non nascere se non sani” e, conseguentemente, la legittimazione attiva della figlia minore ad ottenere il relativo risarcimento del danno.
La giurisprudenza contrastante
In relazione al primo motivo di ricorso il Collegio ravvisava un contrasto giurisprudenziale.
Secondo un più datato orientamento, infatti, “corrisponde a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto”: in questo modo si dava spazio ad una presunzione semplice passibile di essere vinta da prova contraria, posta a carico del sanitario( ex multis Cass. 6735/2002). In particolare, in quella circostanza la Corte affermava che era sufficiente che la donna provasse la mancata informazione e, dunque, di non essersi potuta autodeterminare favorevolmente all’aborto laddove spettava, invece, al medico provare che nel momento in cui si era concretizzato il suo inadempimento, con la mancata informazione, il feto non sarebbe stato comunque “idoneo” all’aborto, per carenza dei requisiti di legge che l’avrebbero consentito;
Secondo un orientamento più recente, invece, incombe sulla gestante l’onere di allegare e dimostrare che avrebbe interrotto la gravidanza se fosse stata a conoscenza delle gravi malformazioni del feto (ex multis Cass. 16754/2012).
In ordine al secondo motivo di ricorso, rilevava un contrasto ancora più marcato sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno da parte del medico e della struttura sanitaria: in particolare secondo un precedente arresto “la mancanza di un consenso informato non può dar luogo a risarcimento anche nei confronti del nascituro, poi nato con malformazioni, oltre che nei confronti della gestante – madre. Ciò perché in base alla condivisibile Giurisprudenza di questa Corte, non è configurabile nel nostro ordinamento un diritto a “non nascere se non sano”, perché la legge n.194 del 1978 consente l’interruzione volontaria della gravidanza, nei soli casi in cui la sua prosecuzione o il parto comportino un grave pericolo per la salute o per la vita della donna. Deve, pertanto, escludersi nel nostro ordinamento il cd. aborto eugenetico”.( Cass. III sez. civ. 10741/2009). Il concepito, quindi, non potrà avvalersi del risarcimento del danno sul presupposto che la madre non sia stata posta nelle condizioni di praticare l’aborto perché il nostro ordinamento non accorda la possibilità di praticare l’aborto in presenza di pericolo per la salute del bambino. Diverso è il caso in cui, invece, la mancanza del consenso informato riguarda la somministrazione, a fini terapeutici, di un farmaco poi rilevatosi dannoso per il concepito che, invece, legittima quest’ultimo al risarcimento del danno.
A questa tesi faceva riscontro la contraria opinione che “riconosce al neonato/soggetto di diritto /giuridicamente capace (art. 1 c.c.) il diritto a chiedere il risarcimento dal momento in cui è nato”(Cass. III sez. civ. 16754/2012). Secondo quest’ultimo arresto, infatti, nulla diversificherebbe la situazione soggettiva dell’avente diritto al risarcimento conseguente alla nascita malformata, da quelle tradizionali pratiche testamentarie di diritto comune attraverso le quali vengono riconosciuti e attribuiti diritti ad una “persona” che ancora deve nascere. Si tratterebbe di un soggetto che “al momento della sua nascita istituisce retroattivamente se stesso, divenendo così titolare di un diritto soggettivo nuovo, il cui esercizio non richiede, peraltro, la finzione di un soggetto di diritto prenatale”. Secondo la citata Corte in questo modo si farebbe salva una sorta di continuità tra la vita pre – natale e la nascita senza che “la sua pretesa risarcitoria appaia una mostruosità senza passato, confondendo il tempo della vita con il tempo della costruzione ( e della finzione) giuridica”.
L'arresto delle Sezioni Unite
In ordine al primo motivo le SS. UU. compiono un’analisi di quelle che sono le condizioni che consentono l’interruzione della gravidanza in un momento successivo al novantesimo giorno secondo la L. 22 maggio 1978, n. 194. Ai sensi dell’articolo 6, l'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
- quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
- quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
È necessario, quindi, che l’aborto sia legalmente consentito, affinchè possa parlarsi di omissione.
Ma è anche necessario che si dimostri che la donna si sarebbe autodeterminata in senso favorevole all’aborto, laddove avesse conosciuto le suddette condizioni.
Le Sezioni Unite, in particolare, convenendo con le conclusioni della Corte d’Appello circa l’incombenza dell’onere probatorio sulla gestante, in merito ai presupposti e alle condizioni previste dalla legge, non hanno, però, omesso di articolare in ordine alla difficoltà della dimostrazione dell’elemento psichico della donna del quale non può essere fornita rappresentazione immediata e diretta.
Proprio tale difficoltà non giustifica, per i Giudici Supremi, l’esclusione della prova presuntiva, con la precisazione che non si tratta di presunzione legale ma di “praesumptio hominis che consiste nell’ inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l'id quod plerumque accidit ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche, emergenti dai dati istruttori raccolti”, quali, ad esempio, le precarie condizioni psico – fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero sintomatiche di una propensione all’aborto in caso di malformazioni, ecc.
È possibile, cioè, ricavare da un dato certo un dato sconosciuto secondo un criterio di regolarità causale, facendo salve circostanze eccezionali “al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare” , gravando poi sul medico la prova per la quale la gestante non si sarebbe comunque determinata all’aborto, per qualunque ragione a lei personale. Ciò significa anche che non è la mera sussistenza delle condizioni legislative a dar vita alla presunzione, essendo necessario provare o desumere dalla risultanze istruttorie l’elemento psicologico. Di conseguenza il “danno potenziale” deve essersi poi tradotto in “danno effettivo” che dovrà essere, parimenti, oggetto di prova.
In ordine al secondo motivo le SS.UU. hanno incentrato le loro argomentazioni sulla possibilità di configurare la legittimazione ad agire in capo a chi non è ancora soggetto di diritto perché non nato, in virtù del principio sancito all’articolo 1 c.c. per il quale la “capacità giuridica si acquista al momento della nascita”.
Tuttavia la Giurisprudenza è pacifica nel riconoscere che si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell’articolo 1 c.c.. Ed in particolare, nel caso di specie, riconoscere la titolarità di un diritto e della legittimazione attiva ad un soggetto nato disabile, non troverebbe il suo ostacolo nel fatto che si tratti di un diritto sorto in virtù di un fatto illecito precedente all’evento nascita. Piuttosto occorre individuare il contenuto del diritto che si assume come leso e il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Partendo quindi dal concetto di danno – conseguenza, previsto dall’articolo 1223 c.c., è necessario che, a seguito dell’illecito si abbia di meno rispetto a quanto si sarebbe avuto in assenza di esso.
Nel caso di specie le alternative possibili sono due:
se non si verifica l’illecito (e dunque il medico informa la madre circa la malformazione) si verifica la morte da aborto, e pertanto, nessun danno si sarebbe verificato;
se si verifica l’illecito (mancata informazione) si avrebbe la vita, anche malformata, e dunque il diritto al risarcimento sul presupposto di un danno che, invece, si sarebbe verificato.
Tuttavia questa conclusione è in linea con il concetto di danno – conseguenza: la vita malformata, infatti, non può essere considerata un minus rispetto alla non vita e, pertanto, nessun danno è risarcibile. In altri termini, la situazione che si realizza a seguito dell’illecito non è “minore” rispetto a quella che si sarebbe verificata in assenza di esso.
A dire diversamente si riconoscerebbe al nato un risarcimento per essere nato malformato rispetto all’unica alternativa rappresentata dal non nascere affatto. In tal modo la “non vita” diventerebbe un bene della vita stessa.
Conclusioni
Le SS.UU. accoglievano il primo motivo del ricorso e rinviavano la causa alla Corte d’Appello di Firenze, affinchè questa possa rivedere la sua pronuncia laddove omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva desumibile, in concreto, dai fatti allegati.
Sulla legittimazione al risarcimento del danno in capo al soggetto nato malformato queste SS.UU. si sono discostate dal precedente arresto che sottende, sicuramente, una propensione alla “giustizia sostanziale”. Tuttavia, a parere della Corte, si assegnerebbe al risarcimento del danno una funzione suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale e si finirebbe con l’equiparare l’errore medico che non ha evitato la nascita malformata con l’errore medico che l’ha direttamente cagionata.