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Pubbl. Gio, 4 Feb 2016

Il terrorismo politico e il diritto penale premiale: nuove modalità attraverso cui percorrere la strada della democrazia.

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Paola Gennaro


La legislazione premiale, volta ad incoraggiare l’attuazione di comportamenti collaborativi, mediante l’offerta di ricompense in grado di incidere sul trattamento sanzionatorio, sia a livello commisurativo sia esecutivo, o di spezzare il tipico legame tra reato e pena attraverso le c.d. cause di non punibilità, quale solido fondamento e concreto incentivo per il riconoscimento della giurisdizione statuale.


Sommario: 1. Introduzione. – 2. La legislazione premiale e il terrorismo politico. – 3. Le misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica.– 4. Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale.– 5. Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo. – 6.Conclusioni.

1. Introduzione.

Nel corso degli anni ottanta al tradizionale diritto penale di carattere repressivo e fondato sul disincentivo delle condotte per mezzo della minaccia della pena, si affiancavano disposizioni appartenenti al cosiddetto diritto “premiale” volte ad incoraggiare l’attuazione di comportamenti collaborativi, mediante l’offerta di ricompense in grado di incidere sul trattamento sanzionatorio, sia a livello commisurativo sia esecutivo, o di spezzare il tipico legame tra reato e pena attraverso le c.d. cause di non punibilità.

In ordine all’ambito della giustizia penale, pare opportuno rilevare l’esistenza di un numero non trascurabile di disposizioni che riconosce e premia la scelta volontaria di chi, dopo aver posto in essere una mera condotta criminosa, scelga di operare il proprio ravvedimento attuando un comportamento antitetico a quello punito e provocando, dunque, un risultato positivo in grado di eliminare (rectius: riparare) l’offesa realizzata.

In tale ambito, tipico esempio è quello del recesso attivo o del pentimento operoso (art. 56 c.4 c.p.).

Particolare modello di causa di non punibilità può, invece, ravvisarsi rispetto all’ipotesi del testimone che ritratti una falsa testimonianza antecedentemente resa.

Ne consegue, pertanto, che diverse condotte sono premiate rispettivamente in forma di circostanze attenuanti, cause sopravvenute di non punibilità, cause di non procedibilità o sconti di pena connessi al rito alternativo adottato in relazione al caso di specie e benefici in caso di esecuzione della pena[1].

Oltre alle disposizioni inerenti alla criminalità comune, la legislazione premiale ha delineato in merito ai reati contro lo Stato e più specificamente ai delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine pubblico, un particolare sottosistema improntato su forme di pentimento susseguenti al reato e caratterizzate da condotte di collaborazione con le autorità volte ad arrecare, a seconda dei casi, la diminuzione della pena ovvero la non punibilità dell’autore del reato.

2. La legislazione premiale e il terrorismo politico.

Nella seconda metà degli anni settanta il nostro Paese si caratterizzava per la presenza di un elevato numero di atti di terrorismo politico.

Ed infatti, quello che era iniziato come un conflitto a bassa intensità diventava una guerra dichiarata alle istituzioni democratiche. Basta pensare che dai sette episodi registrati nel 1975 si passava ai circa 180 del 1976, che divenivano oltre 300 nel corso dell’anno successivo, mantenendosi, poi, ben oltre la media di 175 episodi per anno fino al 1981.[2]

Ciò induceva, da un lato, numerosi magistrati a sviluppare forme di coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari impegnati in indagini attinenti reati di terrorismo e, dall’altro, spingeva il Governo e il Parlamento ad adottare soluzioni giuridiche destinate a favorire la dissociazione e la collaborazione dei soggetti indagati, imputati o condannati per i predetti crimini.

Nell’ambito della legislazione premiale assumeva, peraltro, rilevanza la circostanza secondo la quale alcuni detenuti “politici”, iniziavano a prendere le distanze dalla lotta armata.

I provvedimenti legislativi influenzati da una logica prettamente premiale possono essere individuati, rispettivamente, nel decreto legge n. 625 del 1979, nella legge n. 304 del 1982 e nella legge n. 34 del 1987.

3. Le misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica.

L’espressione “dissociazione” viene introdotta per la prima volta nell’ambito nell’ordinamento interno a opera della legge n. 15 del 6 febbraio 1980 (tutt’oggi in vigore), che convertiva con alcune modifiche il decreto legge n. 626 del 15 dicembre 1979[3], il quale prevedeva una combinazione di punizioni e ricompense al fine di influenzare il risultato di un determinato comportamento.

In tal modo, dunque, il legislatore accostava alle tradizionali misure repressive, tecniche finalizzate alla scomposizione dell’associazione per delinquere.

Occorre precisare che la suddetta legge, operando sul piano tradizionale del diritto penale, introduceva la circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’odine democratico, applicabile a tutti i reati commessi con dolo. Venivano, poi, inseriti nell’ordinamento interno due nuove fattispecie penalmente rilevanti, rispettivamente previste agli artt. 270 bis c.p. (associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico) e 280 c.p. (attentato per finalità terroristiche o di eversione). 

Inoltre, accanto a queste disposizioni dal carattere repressivo, il Parlamento introduceva una speciale circostanza attenuante, intesa quale premio nell’ipotesi di collaborazione con la giustizia. Ed invero, l’art. 4 della legge sancisce sconti di pena nei confronti del soggetto che, pur avendo in precedenza preso parte alla realizzazione di delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, si dissoci successivamente dagli altri concorrenti e si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, oppure aiuti in modo concreto l’autorità giudiziaria a raccogliere prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti.

Infine, l’art. 5 contiene una causa di non punibilità nella forma del recesso attivo in virtù del quale, fuori dalle ipotesi di pentimento operoso, non risulta punibile la condotta del colpevole di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico che volontariamente  impedisce la realizzazione dell’evento e procura determinanti elementi di prova per una corretta ricostruzione del fatto e il riconoscimento dei concorrenti.

4. Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale.

La legge n. 304 del 29 maggio 1982 rappresenta il provvedimento più rilevante all’interno di quella fase oggi definita con la nota espressione : “stagione dei pentiti”[4].

Partendo dalla effettiva volontà di collaborazione con le autorità  promanata da parte di coloro che avevano avuto contatto diretto con le diverse esistenti formazioni terroristiche, il legislatore  interveniva con un effettivo corpus organico di norme destinato, rispetto al già citato decreto del 1979, a rafforzare la tendenza degli stessi ad abbandonare le pregresse esperienze di lotta armata di natura politica.

La legge in commento introduceva al suo interno sia ipotesi di non punibilità sia circostanze attenuanti, applicabili a terroristi che avessero scelto di ripudiare le proprie scelte passate e di collaborare alle indagini.

Più precisamente, l’art. 1 sancisce la non punibilità per chi, in seguito alla commissione di un reato di tipo associativo, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale (artt. 270, 270 bis, 304, 305 e 306 del codice penale), e non avendo concorso alla concreta attuazione di un reato collegato all’accordo, all’associazione, alla banda, prima della sentenza definitiva di condanna, disciolga o comunque determini lo scioglimento della relativa associazione o della banda; oppure receda dall’accordo, si ritiri dall’associazione o dalla banda; si consegni senza opporre alcuna resistenza o abbandonando le armi fornisca, in tutti i casi, tutte le necessarie informazioni della struttura e sull’organizzazione dell’associazione o della banda.

La causa di non punibilità veniva estesa, altresì, nei confronti di chi avesse fornito assistenza o aiutato, secondo le più svariate condotte, i membri di un gruppo caratterizzato, appunto, dal perseguimento di finalità terroristiche.

Poi, non erano punibili neppure coloro che avessero contribuito ad impedire la realizzazione dei reati per i quali la stessa associazione o la banda era stata creata e, per coloro che avessero efficacemente collaborato al fine di evitare l’evento lesivo riconducibile ai delitti di attentato[5].

Relativamente ai reati connessi a un’associazione o a un accordo criminoso, ma attuati con finalità di terrorismo e di eversione diversi da quelli associativi, gli artt. 2 e 3 della legge del 1982 prevedono circostanze attenuanti, distinguendo tra l’ipotesi della dissociazione e quella della collaborazione. E’ opportuno precisare che al fine di ottenere uno sconto di pena, in entrambi i casi, il soggetto non doveva semplicemente realizzare una delle condotte di ravvedimento.

Peraltro, con riferimento alla dissociazione, veniva richiesta anche la piena confessione di tutti i reati commessi da parte del soggetto che doveva attuare un comportamento idoneo ad eliminare o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o impedire la commissione di reati connessi, ai sensi dell’art. 61, n. 2 del cod. pen.

Con riguardo, poi, alle ipotesi in cui il soggetto non avesse particolari rivelazioni da fare, la giurisprudenza riteneva comunque sufficienti condotte di mera dissociazione ideologica, realizzatasi mediante pubblici appelli alla diserzione o difese dibattimentali della posizione dei cosiddetti pentiti[6].

Per la concessione della attenuante della collaborazione processuale si chiedeva, invero, al reo non soltanto la confessione dei reati dallo stesso posti in essere, ma anche un contributo sostanziale all’attività delle forze dell’ordine o della magistratura. In particolare, questi doveva aiutare gli inquirenti a raccogliere prove decisive per la individuazione o la cattura di uno i più autori di reati compiuti con finalità terroristica, oppure fornire indicazioni comunque rilevanti per giungere a un’esatta ricostruzione di quanto accaduto e alla scoperta dei colpevoli[7].

Giova precisare che alla legge del 1982 furono posti dei limiti circa la sua stessa applicabilità; ed infatti, le disposizioni ivi contenute venivano applicate esclusivamente ai reati commessi, o la cui permanenza fosse iniziata, entro il 31 gennaio 1982, (purchè i comportamenti cui era condizionata la loro applicazione fossero stati tenuti entro centoventi giorni dall’entrata in vigore del provvedimento stesso). Il suddetto termine venne poi prorogato di ulteriori centoventi giorni a opera del decreto n. 695 del 1 ottobre 1982.

5. Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo.

Il terzo intervento premiale è, infine, rappresentato dal provvedimento normativo di carattere temporaneo, la legge n. 34 del 18 febbraio 1987.

Quest’ultima, al fine della concessione dei benefici, prevedeva la semplice dissociazione dal terrorismo, senza che al contempo fosse resa necessaria la collaborazione con gli inquirenti. L’art. 1, infatti, considerava “dissociato” chi, essendo imputato o condannato per reati commessi con finalità di terrorismo o di eversione, e avendo abbandonato il movimento al quale apparteneva, avesse posto in essere comportamenti oggettivamente  incompatibili con la permanenza del vincolo associativo, nonché ripudiato il ricorso alla violenza come metodo di lotta politica.

La legge del 1987 elaborava una posizione intermedia, quella del dissociato “ammittente”, che si collocava tra i cosiddetti “pentiti” e gli “irriducibili” (soggetti, cioè, che non si erano né pentiti né dissociati). In altri termini, il citato provvedimento normativo contribuì all’abbandono delle organizzazione clandestine da parte di appartenenti a una lotta armata in crisi, offrendo loro la possibilità di rompere il patto associativo senza al contempo dover tradire gli altri membri.

Inoltre, anche la legge n. 34 del 1987, così come quella del 1982, è classificabile come “legge a tempo”; la sua applicazione veniva, infatti, limitata ai delitti di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale la cui commissione fosse avvenuta entro e non oltre il 31 dicembre 1983, sempre che gli atti fossero stati compiuti entro trenta giorni dall’entrata in vigore del provvedimento.

6. Conclusioni.

L’emanazione della legislazione premiale ha rappresentato il tentativo da parte dello Stato di fronteggiare i segnali di cedimento che, dopo la grande ascesa degli anni settanta, iniziavano a svilupparsi all’interno dell’assetto caratterizzato dalle organizzazioni della lotta armata, mediante le informazioni dei soggetti che ne avevano fatto precedentemente parte.

In realtà lo Stato non richiedeva il pentimento, inteso quale rimorso per avere agito in contrasto con il codice morale o giuridico, al terrorista che sceglieva di abbandonare una determinata formazione o di collaborare con le autorità inquirenti. Interessa, dunque, poco al legislatore che le motivazioni scaturiscano da un sincero ravvedimento interiore, da orrore per il male la volontà di vedere ridotta la proprio pena.

Ciò che conta è il comportamento esterno, inequivoco, fattivo, che consenta di vincere la lotta al terrorismo.

 



[1] C. RUGA RIVA, La premialità nell’ordinamento premiale, in Aa. Vv. Saggi in ricordo di Aristide Tanzi, Giuffrè, Milano, 2009, p. 520.

[2] G. BRUNETTA, Atti di terrorismo in Italia (1968/1982), in Aggiornamenti sociali, 1983, n.6, p. 455.

[3] D. PULITANO’, Le misure del Governo per l’ordine pubblico, in Democrazia e diritto, 1980, n. I, p. 19.

[4] M. LAUDI, I casi di non punibilità dei terroristi “pentiti”, Giuffrè, Milano, 1983, p.4.

 

[5] Era il giudice del dibattimento a dichiarare la non punibilità con sentenza, previo accertamento della non equivocità e attualità della condotta.

[6] M. MADDALENA, Le circostanze attenuanti per i terroristi “pentiti”, Giuffrè, Milano 1984, p. 141.

[7] M. LAUDI, I casi di non punibilità dei terroristi “pentiti”, cit., p.33.